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L’archeologa lituana/statunitense Marija Gimbutas nella seconda metà del Novecento ha svolto un ruolo fondamentale nella determinazione della genesi delle identità europee grazie alla sua rivoluzionaria scoperta dell’esistenza di una cultura che è non solo precedente, ma addirittura l’opposto di quella indoeuropea da cui noi tutti riteniamo di discendere.I protoindoeuropei, secondo la Gimbutas, erano di cultura Kurgan, un’antica civiltà della Russia Centrale che si espanse nell’Europa orientale, centrale e settentrionale nonché nelle grandi isole del Mediterraneo tra cui la Sardegna che fu uno dei luoghi in cui l’archeologa eseguì i suoi studi.
I Kurgan erano una civiltà matriarcale di pastori nomadi che, come scrive la Gimbutas nel suo libro, Il linguaggio della dea, “trasse intenso piacere dalle meraviglie naturali di questo mondo. La sua gente non produsse armi letali […] Eresse invece magnifiche tombe-santuari, templi, case confortevoli […] Fu questo un periodo di notevole creatività e stabilità, un’età libera dal conflitto”.
La cultura Kurgan “venerava sia l’universo quale corpo vivente della ‘Dea Madre Creatrice’, sia tutte le cose viventi dentro di esso, in quanto partecipi della sua divinità”, scrive nella prefazione del libro lo storico delle religioni Joseph Campbell che, sottolineando le differenze con la Genesi, aggiunge: “In questa mitologia arcaica la terra da cui tutte le creature hanno avuto origine non è polvere inanimata e vile, ma vita, come la Dea Creatrice“. Sempre secondo Campbell, con i suoi studi “[…] la Gimbutas mostra il primordiale tentativo di una parte dell’umanità di comprendere e vivere in armonia con la bellezza e la meraviglia del Creato, e adombra in termini simbolici ed archetipici una visione della vita umana contraria in ogni suo aspetto ai sistemi che poi hanno prevalso, in epoche storiche, in Occidente“.

In un’epoca come la nostra in cui si vorrebbe cambiare il mondo in senso più ecologico ed egualitario sarebbe opportuno, per trarne spunto, rivolgere lo sguardo alla civiltà matriarcale studiata dalla Gimbutas che aveva al suo centro la terra e la donna, entrambe degne del massimo rispetto in quanto portatrici di un dono inestimabile: la capacità di dare la vita.
Derivati da quella lontana cultura Kurgan, comune ai tanti popoli europei che ne furono influenzati, la natura e la donna ricoprono da sempre nella tradizione sarda un posto importantissimo e fondamentale di cui è valida testimonianza una particolare forma di costruzione preistorica presente in oltre 120 siti archeologici distribuiti soprattutto tra la parte centrale e quella occidentale della Sardegna: la domus de janas, “casa delle fate” in italiano (fig. 1).

Domus de Janas
Fig 1) Domus de Janas

La planimetria di questi sepolcri ipogei ricorda sia la forma dell’utero femminile che quella di un uovo o del corpo della Dea Madre Creatrice. Composta da uno o più ambienti, la domus derivava grandezza e morfologia dal tipo di roccia presente sul luogo di costruzione: più piccola e irregolare se scavata nel duro granito, più ampia e regolare in presenza di rocce tenere quali trachite, calcare o arenaria. Le domus ripetevano la tipologia delle coeve abitazioni rurali tuttora presenti sul suolo sardo. Nella regione del Monte Acuto, tra Sassari e Olbia, sin dalle epoche più remote l’uomo ha sfruttato la particolare conformazione del suolo, caratterizzato ad Ovest da trachiti e ad Est da graniti, per ricavarne abitazioni, ripari temporanei, chiese rupestri, sepolture. Il grigio granito è da sempre il preferito per questo tipo di costruzioni; nella zona di Mores e di Nughedu San Nicolò, però, troviamo interessanti esempi di abitazioni tuttora utilizzate che, in perfetta simbiosi con la natura circostante, sfruttano i tafoni calcarei scavati dal vento (lo stesso dei romanzi di Grazia Deledda) o dall’acqua sulle pareti dei tavolati e sui dirupi rocciosi. L’antica costruzione plurifamiliare, ancora in uso, di Su Canale, alle porte dell’abitato di Nughedu San Nicolò, ne offre un’interessante testimonianza (fig. 2).

Fig. 2 – Abitazione plurifamiliare a Su Canale
Fig. 2 – Abitazione plurifamiliare a Su Canale

Sempre nel pieno rispetto della natura e in simbiotico rapporto con l’ambiente circostante di cui diventano parte integrante sono le pinnette (fig. 3) e le barraccas (fig. 4), dimore temporanee, realizzate con materiali naturali tipici della zona che le ospita.

Fig. 3 – Pinnetta in pietra e canne
Fig. 3 – Pinnetta in pietra e canne
Fig. 4 – Barracca
Fig. 4 – Barracca

 

 

La pinnetta è la tipica capanna dei pastori, presente con caratteristiche simili in tutta la Sardegna, soprattutto nella parte settentrionale fin dai tempi più remoti e, ancora oggi, usata come riparo. Le pinnette, usate spesso anche come laboratori per la produzione di formaggi e ricotte, hanno generalmente pianta circolare (se ne trovano anche di semicircolari ed ellittiche) di circa 4 metri di diametro con un’unica apertura all’esterno, muro di basamento di circa 1 metro di altezza in pietrame a secco di forma cilindrica o tronco-conica simile a quella dei nuraghi a cui si ispirano. La copertura a cono è in legno e frasche tipici delle zone in cui sono costruite.

La barracca, forse derivazione del mègaron greco, è a forma quadrangolare. Si trova prevalentemente nelle zone meridionali dell’isola, soprattutto nel Campidano, ed è utilizzata dai pescatori come deposito di attrezzature e luogo di ristoro negli intervalli dal lavoro.
In Gallura, regione intrisa di cultura legata alla terra e alla pastorizia è, invece, lu stazzu (“stazzo” in italiano), abitazione isolata per contadini e pastori posta sulle vie della transumanza, a farla da padrone (fig. 5).

Fig. 5 – Stazzu gallurese
Fig. 5 – Stazzu gallurese

 

Questo insediamento rurale tipico del nord della Sardegna è stato qui trapiantato tra il XVII e il XVIII secolo da pastori provenienti dalla vicina Corsica. Lo stazzo, che deriva il suo nome dal latino “statio”, stazione, luogo di sosta, è presente in altri luoghi del meridione d’Italia (“Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori/lascian gli stazzi e vanno verso il mare”, scriveva Gabriele D’Annunzio nella poesia “I pastori”); in Gallura ha rappresentato il fulcro della vita rurale per centinaia di anni. La struttura architettonica di queste costruzioni è molto semplice ed è realizzata con i materiali tradizionali di questi luoghi. Lo stazzu edificato con blocchi di granito tipico della zona ha forma rettangolare, è suddiviso in massimo due ambienti, intorno ha ovile, stalla per le mucche, porcilaia, orto e vigna e sorge al centro di un appezzamento di terreno più o meno vasto, parte del quale è riservata alla coltivazione dei cereali e al pascolo brado. L’unione di più stazzi in un unico agglomerato rurale è chiamata in dialetto cussogghj.
Nel piccolo comune di Siddi, al confine tra la provincia di Oristano e quella del Medio Campidano, sorge il museo delle Tradizioni Agroalimentari della Sardegna, ospitato in una tipica abitazione a corte della zona: la seicentesca Casa Steri, una casa-azienda in cui tutti gli spazi abitativi e lavorativi sono stati, per secoli, teatro della vita contadina del paese (fig. 6). Percorrendo i diversi ambienti, si possono scoprire i modi di vivere, di cucinare e consumare gli alimenti, le tecniche di produzione, i saperi, le consuetudini nonché la storia alimentare della Sardegna fortemente legata al territorio e alle relative abitazioni.
Il borgo di Siddi è contornato da terreni a forte caratterizzazione agricola e dominato da una giara, un roccioso pianoro di basalto con pareti a strapiombo detto in dialetto Pranu ‘e Siddi occupato dai ruderi di 14 nuraghi e di una “tomba dei giganti” (la parola “gigante” deriva dal greco e significa “figlio della Madre terra”), la più grande della Sardegna, Sa Dome ‘e s’Orku. Ammirando tanta bellezza dalla pace del grande cortile in acciottolato di Casa Steri con il suo pozzo e i suoi abbeveratoi, centro del complesso architettonico e, allo stesso tempo, luogo delle lavorazioni domestiche nonché piazza privata e punto di riferimento delle relazioni umane interne ed esterne, ci vengono alla mente le parole conclusive della prefazione che Joseph Campbell ha scritto per il Linguaggio della dea di Marija Gimbutas: “Il messaggio del suo lavoro è che si apra di nuovo un’effettiva epoca di armonia e di pace in consonanza con le energie creative della natura come nel periodo preistorico di circa 4000 anni che ha preceduto i 5000 anni di quello che James Joyce ha definito l’“incubo” di contese determinate da interessi tribali e nazionali, da cui è sicuramente ora che questo pianeta si desti“.

6 – Museo delle Tradizioni Agroalimentari della Sardegna, Casa Steri, Siddi
Fig. 6 – Museo delle Tradizioni Agroalimentari della Sardegna, Casa Steri, Siddi

Bibliografia

Baldacci, O., La casa rurale in Sardegna, Firenze 1952
Gimbutas, M., Kurgan. Le origini della cultura europea, Napoli 2010.
Gimbutas, M., The Language of the Goddess, San Francisco 1989; [ed. ital. Il linguaggio della dea – Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica”, Milano 1990]

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