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Nato come tributo alla poesia e come omaggio a se stessa alle soglie di un cinquantennio di teatro e interpretazione di versi della tradizione poetica sarda, Clara Farina pubblica,  per Soter editore, un nuovo disco intitolato A boghe Crara. Nata a Bulzi nel 1953, l’artista risiede a Sassari, dove ha insegnato per molti anni Italiano e Storia negli Istituti superiori, collaborando anche con l’Università di Sassari con seminari sulla lettura del testo poetico. Sin dagli anni ’70 si è dedicata al teatro, collaborando con “Teatro Sassari” diretta dal resgista Gianni Cubeddu, con Pier Paolo Conconi per “La Botte e il Cilindro” e con Marco Parodi per “Teatro Sardegna”. Significative le incursioni in radio, prendendo parte a diversi sceneggiati radiofonici tra cui Eleonora d’Arborea di Marcello Serra, diretto da Antonio Pierfederici, e in televisione, partecipando alla trasmissione televisiva Piacere Rai 1. Giurata in diversi concorsi letterari in lingua sarda tra cui il prestigioso Premio “Ozieri”, è stata protagonista di molti spettacoli teatrali di poesia contemporanea in lingua sarda. Vincitrice nel 2018 del Premio “Maria Carta”, attualmente porta avanti in teatro lo spettacolo Passos de Gràssia, prodotto nel 2021 per i centocinquant’anni dalla nascita di Grazia Deledda.

Un’artista che non è nuova alla trasposizione discografica delle sue interpretazioni poetico-canore maturate durante la lunga esperienza teatrale. Già nel 1999, con il disco Sardus Pater (Condaghes), aveva dato prova di una carica interpretativa incisiva e dirompente che non viene meno al di fuori del contesto teatrale, grazie a un’espressività cinetica insita nel suo recitar cantando. Con l’ultimo lavoro discografico, Clara Farina svela, nel didascalico gioco di parole, l’intenzione, ampiamente compiuta, di cantare a voce forte e chiara i versi della poesia sarda contemporanea offrendo, attraverso essi, un profondo scandaglio dell’animo umano. Al disco hanno collaborato diversi musicisti sardi, molti dei quali operano sul versante del jazz, spesso affondando le loro radici nella musica popolare: Marcello Peghin e Alberto Balia alla chitarra, Gianluca Dessì alla mandola, Riccardo Lay al contrabbasso, Pierpaolo Vacca all’organetto, Gavino Murgia al sax baritono e alla voce, Andrea Lubino e Paolo Zuddas alle percussioni e Maria Luisa Congiu, che partecipa come prezioso contraltare vocale. Artisti che, conformandosi al canto, hanno tessuto trame sonore capaci di arricchire e intensificare il potere evocativo del verso poetico.

Partiamo dal titolo del cd. Perché A boghe Crara?

“Ho voluto giocare col mio nome. Clara in sardo si dice “Crara”, o anche “Giara” o “Ciara”, a seconda della zona della Sardegna, ma ho preferito la durezza del “crara”, optando per la versione barbaricina del nome. Il significato è “a voce chiara”. Intendevo dire: questa è la mia voce e questo voglio dirvi, e ve lo voglio dire chiaramente. È ciò che la poesia richiede, perché la poesia è assoluta chiarezza”.

Come nasce questo progetto?

“Nasce dalla mia grande passione per la poesia, non solo quella sarda, e dalla mia abitudine, ormai pluridecennale, di recitare poesia. Ho cominciato nei contesti dei vari premi letterari che ci sono in Sardegna, poi nel ’99 ho pubblicato il primo disco, Sardus Pater, con lo stesso cliché di quest’ultimo, ossia coniugando musica e parola. Dopo circa vent’anni, ho pensato fosse opportuno pubblicare un nuovo disco”.

Secondo quali criteri hai operato le scelte poetiche?

“Innanzitutto sulla contemporaneità. Tutti i poeti rappresentati nel cd sono contemporanei, eccetto uno: Badore Sini, noto per essere l’autore del celebre brano Non Poto Reposare. Nei suoi versi recito la risposta della donna all’uomo, quindi “A diosu” anziché “A diosa”, ossia “All’amato”, una versione meno nota rispetto all’altra. Gli altri poeti sono tutti contemporanei, nati in seguito all’istituzione del Premio “Ozieri”, circa settant’anni fa. Un altro criterio è stato quello geografico: ho scelto poeti originari di varie zone della Sardegna, per rappresentare le varie parlate locali”.

Chi ha fondato il Premio Ozieri, di cui sei giurata da molti anni?

“Il Premio, uno dei più antico in tutto il panorama nazionale, è stato fondato nel 1956 dal Maestro Tonino Ledda, grande poeta, e dopo tutti questi anni è un concorso ancora molto vivo e partecipato”.

Vuoi citare alcuni tra i poeti ai cui componimenti hai deciso di dare voce?

“Certo. Il disco si apre con i versi di Vincenzo Pisanu, un poeta del campidano, originario di Uras, per continuare con Franco Cocco, Ignazio Delogu, il già citato Barore Sini, Antonino Mura Ena, Predu  Mura, Paolo Pillonca, Pùblio Dui, l’ittirese Giovanni Fiori e Benvenuto Lobina. Ci sono anche due donne: Lina Tidore Cherchi e Anna Cristina Serra. Come ti dicevo, poeti che vengono da aree geografiche diverse del territorio sardo”.

Hai dimestichezza con tutte le varianti del sardo?

“Direi di sì. Sono sarda, tutto mi appartiene e tutto mi interessa di ciò che è sardo”.

Dopo di che la poesia si è fatta canto. Sonorizzare i versi è stato un processo spontaneo o creato a tavolino?

“Paul Zumthor, un grande teorico della letteratura orale, diceva che la poesia è in esilio nella sua forma scritta. La poesia ha bisogno della voce, necessita dei suoni e questi, a loro volta, si fanno canto. È stato così per millenni, fino all’invenzione della scrittura, che è relativamente recente. Gli uomini hanno sempre cantato poesia. E, in Sardegna, questa è una pratica ancora viva, lo si vede nelle gare poetiche estemporanee “A lughe ‘e luna”: i poeti improvvisatori cantano i versi. Ho voluto riprendere queste modalità di canto tradizionale anche per la poesia scritta. Anche quando i versi non sono regolari e quando sono liberi ritrovo dei nuclei che si offrono al canto”.

A proposito di questo, nel dare voce alle poesie traspare tutta la tua conoscenza della poesia tradizionale sarda e di tutte le forme vocali che hai introiettato nel tuo ascolto. Ti sei riferita a forme vocali ben definite?

“Sono di Bulzi, un paese dell’Anglona che oggi conta circa cinquecento anime. Questo paese ha dato i natali a tre grandi cantadores, Leonardo Cabizza, Francesco Cubeddu e Giovannino Casu, che hanno fatto la storia del canto sardo “a chitarra”. Quindi mi sono trovata ad ascoltare sin da piccola il canto “a chitarra” nelle sue diverse declinazioni, dal canto in re alla disisperada, dal canto in mi e la a quello in fa diesis, dalla corsicana alla nuoresa. A questo si aggiunge la conoscenza de “su traggiu”, ossia della particolare maniera che hanno i poeti di cantare l’endecasillabo, sia pure ognuno con la sua specificità. Mi è facile trovare per ogni verso la corrispondenza metrico-ritmica e quindi la cantabilità necessaria”.

Che ruolo giocano i contenuti?

“Ti faccio un esempio. Nella poesia Rios a mare di Antonino Mura Ena si parla di fiumi che scorrono dal Gennargentu verso il mare ma, a ben vedere, anche grazie a una spia linguistica, quando alla fine del testo si fa riferimento al Dies Irae, ho capito che i fiumi non sono che una metafora del destino umano. A quel punto è stato facile per me trovare nel canto gregoriano l’intonazione che mi serviva per quel tipo di poesia. C’era una corrispondenza tematica e ritmica, per cui non ho dovuto assolutamente forzare il verso”.

Versi così diversi che ti hanno consentito di spaziare dal gregoriano al canto a ballo

“È così. Per esempio Istios, sempre di Antonino Mura Ena, coi suoi versi ottonari, richiama spontaneamente il canto a ballo. Nel caso invece della poesia Marineri cantadore, che inizialmente canto in fa diesis, si presta poi a una risposta, da parte di Maria Luisa Congiu, grande interprete del canto tradizionale “a chitarra”, che mi risponde in mi e la, perché l’ottonario può essere cantato in tanti modi, con più libertà”.

La musica strumentale impreziosisce il disco. Le scelte musicali sono state determinate preventivamente o, piuttosto, i musicisti si sono conformati al tuo canto?

“Il lavoro è stato fatto a strati. Dapprima ho scelto la mia cifra musicale e ho registrato in studio tutte le poesie, dopo di che i musicisti le hanno ascoltate e hanno sottolineato, con la loro musica e secondo il loro estro, i versi”.

Hai scelto dei musicisti fortemente radicati nella tradizione sarda ma, allo stesso tempo, sperimentatori…

“È ciò che tutti gli artisti dovrebbe fare. Non bisogna dimenticare mai le proprie radici, ma neanche rimanervi attaccati in maniera sconsiderata, senza allargare i propri orizzonti culturali. Più le radici sono profonde, e più si acquisisce la capacità di guardare l’altro senza pregiudizi, timori o riverenze che siano. Questo vale anche per la poesia. Il poeta non dovrebbe guardare solo al passato, ma leggere tutto ciò che viene prodotto nel mondo in campo poetico. I nostri poeti contemporanei lo fanno”.

Sei una donna di teatro. Canterai queste poesie anche su un palcoscenico con la musica dal vivo?

“La poesia per me non è solo testa o cuore, ma anche intragnas, viscere, corde profonde, emotive. Non riesco a recitare o cantare una poesia solo con la voce, ho bisogno di muovermi nello spazio, della prossemica. Credo che la teatralizzazione appartenga alla natura stessa della poesia. Riguardo a questo disco nello specifico, bisognerebbe pensarci. Un ostacolo potrebbe essere quello di portare così tanti musicisti sul palco”.

Puoi darmi un’anticipazione riguardo ai tuoi nuovi progetti?

“In questo momento sono impegnata nella traduzione dall’italiano al sardo della raccolta Canto rituale di Maria Carta. Te lo dico in anteprima: uscirà a dicembre con La Nuova Sardegna”.

Mentre scrivi non smetterai di cantare A boghe crara, spero

“Me lo auguro, non tanto per me quanto per la poesia, che è sempre portatrice di parola di pace e di amore”.

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