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Già menzionata in uno storico documento risalente all’anno 1005 del calendario gregoriano, la cittadina di Varna, molto probabilmente di origine preromana ed il cui toponimo è fatto derivare dal termine germanico Farn, ovvero “felce”, è ricordata col nome di “porta del sole”, perché incastonata tra l’imboccatura della Valle di Scaleres, la conca del Bressanone e l’Alta Valle Isarco. Situata lungo quella che attualmente corrisponde alla vecchia strada del Brennero, Vahrn, questo l’esonimo tedesco, ha sempre costituito un crocevia strategico per i collegamenti tra il centro ed il sud Europa, abitata com’era fin dal Medioevo da artigiani, locandieri e commercianti, oltre che attraversata dal traffico dei carri trasportanti beni di ogni sorta.

Il borgo di Varna, ricadente nella provincia autonoma di Bolzano, conta poco meno di 4800 abitanti, è situato ad un’altitudine media di 671 metri sul livello del mare e include nel suo territorio il lago di Varna, un vero e proprio biotipo le cui acque sono ricchissime di iodio e vi è consentita la balneazione. Grazie alle innumerevoli residenze nobiliari e le case degli alti funzionari del principe vescovo di Bressanone, l’immagine di Varna appare graziosa, romantica e pittoresca; va considerato che il primo moderno albergo è stato costruito attorno al 1910 e che Varna è stata meta di villeggiatura di ospiti Illustri, provenienti da Vienna, Monaco di Baviera e da altre importanti città italiane ed europee. Tra le sue maggiori attrattive va menzionata la Chiesa parrocchiale San Giorgio dal campanile neogotico in granito, i resti di Castel Salern risalenti al XII, la Polveriera Riga di Sotto, ubicata a est del lago di Varna, l’Abbazia agostiniana di Novacella, il cui convento venne fondato nel 1142, gli impianti Kneipp, utili per chi ama l’idroterapia, e tutte le aree di interesse naturalistico.

Nella frazione varnese di Novacella si trova la tenuta Pacher Hof, di millenaria memoria, con la cantina e il vinhotel, dedicato al relax e all’enoturismo. Andreas Huber, viticoltore e maestro cantiniere, è l’erede di Joseph Huber, il quale sposò Maria, una delle quattro figlie di Andreas Pacher, nel 1849, avviando così la viticultura e impiantando per primo la cultivar Kerner. Andreas Huber ha studiato presso la l’Istituto di ViticulturaVeitshöchheim” a Würzburg, ereditando evidentemente la passione per il vino dai suoi avi e gestendo una superficie di ben 8 ettari, tutti vitati con varietà a bacca bianca. Insomma, la storica cantina è un punto di riferimento dell’enologia bolzanese e, da sempre di proprietà familiare, costituisce un vero e proprio condensato di passione, talento e know-how tramandato di generazione in generazione.

La “Private Cuvée Andreas Huber” è frutto di un uvaggio a base di Riesling, Grüner Veltiner e Sauvignon Blanc, le cui viti crescono attorno al piccolo comune di Novacella, in vigneti situati ad un’altitudine media tra i 600 e gli 820 metri sul livello del mare, su terreni sabbiosi e ricchi di argilla. Inoltre, le condizioni pedoclimatiche favoriscono buone escursioni termiche, ideali per fissare le componenti odorose. Fermentazione in acciaio per il Riesling, mentre gli acini del Sauvignon Blanc e del Grüner Veltiner vengono pressati, diventando mosto, in grandi botti di legno. A seguire l’affinamento: 9 mesi in legno al termine dei quali avviene l’assemblaggio poi, dopo l’imbottigliamento, il vino si distende per ben 16 mesi. Un vino “tailor made”, è proprio il caso di dirlo, mediante il quale Andreas Huber dona, a sé stesso e alla sua cantina, una nuova pietra miliare dal punto di vista enologica, che testimonia un traguardo personale raggiunto, ben interpreta il territorio di origine e che che racconta l’anima più intima della filosofia produttiva di Pacherhof.

La Private Cuvée Andreas Huber Vigneti delle Dolomiti Igt 2019 di Pacherhof è suadente fin dall’aspetto: giallo paglierino intenso, dai riflessi verdolini, ed archi strettissimi con lacrime a lenta discesa. Sentori floreali di biancospino, sambuco e bosso, poi il fruttato tropicale della chinola, cui segue la pesca bianca non ancora matura, la mela verde e la pera kaiser, per un finale al pepe bianco e balsamico, tra elicriso e resina di pino silvestre, con lo schiudersi di note da idrocarburo niente affatto insistenti. Il sorso è un rincorrersi di acidità e sapidità in succoso equilibrio, i riconoscimenti fruttati crescono di numero alla via indiretta, con l’agrumato del pompelmo ed una voluttuosa, burrosa percezione vanigliata ad esempio; si avverte una sottilissima, piacevole astringenza a chiudere, pur continuando a esprimere succulenza in cui persiste tanto la voglia di bere che le note sensoriali. Coda d’aragosta al burro affumicato, con patate grigliate e scalogno caramellato.

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