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Il piccolo borgo di Santa Paolina, in provincia di Avellino, è abitato da neanche 1200 anime e rientra nella comunità montana del Partenio e della Valle di Lauro.

Recenti scoperte vorrebbero che l’area circostante all’attuale centro cittadino fosse abitata già dal Neolitico, come attestano i resti di un’antica fornace, e più avanti, durante il IX secolo a.C., che una Civiltà Irpina, ben prima delle conquiste romane in quelle terre, fosse stanziale presso le pendici del Monte San Felice. Tale insediamento preromano era costituito da genti abili nella manifattura di ceramiche decorate e nella creazione di utensili di vario tipo, sfruttando le acque dei torrenti Orsi, Sant’Egidio di Santa Paolina, Marotta e Picoli. Con buona probabilità il frutto dell’artigianato del tempo doveva costituire merce di scambio tra le antiche città d’Irpinia e della Japigia, situate lungo i corsi fluviali e le vallate dell’entroterra appenninico.

La vocazione agricola delle genti di Santa Paolina e delle sue contrade è fatto che viene evidenziato nel 1041, grazie ad un memoriale dell’abbazia longobarda di Santa Sofia, trascritto sopra una pergamena che situa l’antico centro nei pressi di una boscaglia e di una sorgente, provvisto di una chiesa edificata in onore di San Felice e posto sotto l’egida dei religiosi. Il nome di questa località compare soltanto nel 1083, mentre dagli inventari dell’Abbazia di Santa Sofia viene descritto come come Castrum vetus Sancte Pauline, coincidente con il Castrum Vetus et Timplani, nei pressi di Tufo nell’anno 1239, ma con l’appellativo dell’antica famiglia Templano, plausibilmente originaria di Grottaminarda.

Come già detto l’economia di Santa Paolina si basava principalmente sull’artigianato e sull’agricoltura, tanto che sul territorio insistevano, anche in tempi relativamente recenti, le cosiddette Crete, ossia le fabbriche di ceramiche; altra risorsa tipica di Santa Paolina erano le famose ricamatrici e quindi la lavorazione del tombolo, stando a significare sia lo strumento che il merletto che ne deriva. Grazie alle fiere di bestiame si è sviluppato nel tempo anche il commercio di cavalli e di altri animali da soma. Fatto di estremo rilievo è la coltivazione della vite che viene fatta risalire, per mezzo di una pergamena, al 1168 e che ha visto come principale vitigno tanto l’Aglianico che il Greco di Tufo, i cui ettari sono andati a intensificarsi negli anni ’60.

Posto ad un’altitudine media di 550 metri sul livello del mare, la storia più recente vede il territorio comunale ben frammentato e suddiviso nelle seguenti frazioni, ove si parla una variante specifica del dialetto irpino: Castelmozzo, Marotta, Picoli, Passo Serra, Pietrarola, Ponte Zeza, Sala, Santa Lucia e Viturano.

La Cantina Bambinuto, dopo aver impiantato i primi vigneti nel 1990, è stata fondata a Santa Paolina nel 2014 con lo spirito di avvalorare le proprie uve, spesso sottopagate quando conferite, e per ricreare un’economia familiare che ripagasse dagli sforzi nei campi e avvalorasse il territorio grazie ad una filiera enologica più corta. Proprietari di quella che oggi costituisce un esempio virtuoso di vitivinicultura irpina è la famiglia Aufiero. Con Raffaele, prima della sua scomparsa, e la consorte Anna a curarsi delle viti, è alla primogenita Marilena Aufiero che si deve una forte volontà di intraprendere nel mondo del vino, dando grande prova di resilienza e volitività, occupandosi soprattutto della parte commerciale pur senza distogliere l’attenzione in vigna e in cantina, vigilando sull’identità del vino e avvalendosi della cooperazione dei fratelli Antonio e Michela ove più occorre. Sono sei gli ettari vitati, di cui quattro a Santa Paolina e due a Montemiletto, con piante allevate tutte a guyot econ una densità media di impianto pari a 3300 piante.

Per poter produrre il Picoli, vino che prende il nome dalla contrada in cui insistono le vigne di Greco di Tufo, bisogna lavorare un intero anno per ottenere 1,5 kg di uva per ceppo, previo attento controllo del carico e selezione. I tenimenti sono posti a circa 500 metri sul livello del mare e le viti affondano le proprie radici in un terreno argilloso-calcareo con una grande ricchezza di azoto, potassio e calcio. Dopo la raccolta manuale, il tratto distintivo nelle fasi enologiche che contraddistinguono il Picoli sono la presenza del raspo, con la perfetta sanità delle uve, e una resa in pressa che si riduce di circa il 30%, per una lavorazione in acciaio, a temperatura controllata, che tiene conto della curva di maturazione della materia prima, e pertanto dell’andamento vendemmiale, dove il vino permane sui lieviti per circa 10 mesi.

Figlio di un’annata piuttosto calda, il Picoli Greco di Tufo Docg 2017 si presenta con un luminosissimo colore giallo dorato intenso e tracce al calice di evidente consistenza. Al naso presenta un evidente riconoscimento di ostrica Tsarskaya, foriera di note iodate e sentori di nocciola tostata al contempo, a cui segue il profumo dell’albicocca disidratata, della polpa di pomodorino giallo del piennolo e dello zafferano, della custard cream, del pan brioche e della salvia essiccata. In bocca il sorso non presenta grande acidità ma resta comunque vibrante per sapidità e per un sottilissimo cenno da leuco-antociano, ammantato da morbidezza glicerica. Le note più sottili percepite alla via diretta si fanno più evidenti e vanno ad aggiungersi al cedro candito, al ricordo da scatola di pesca sciroppata e miele, per chiudersi in finissimo ed elegante ammandorlato ed una lunga persistenza aromatica intensa. Rileggendo il mare attraverso le poesie di José Saramago, oppure una tajine di pesce alla magrebina.

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