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La genesi della città di San Giuseppe Vesuviano è dovuta alla devozione di Scipione Boccia, nativo del piccolo insediamento e molto devoto al santo da cui il comune napoletano prende il nome, il quale volle far dono di un appezzamento di terra all’Università di Ottajano perché vi si potesse edificare una chiesa da intitolare a San Giuseppe, come accertato da un atto del 4 settembre 1622 del notaio Altomando di Ottajano, e all’eruzione del 1631, che ne accrebbe la popolazione per via delle genti che fuggivano dal centro di Ottaviano, funestato da lave e ceneri. Questa chiesetta, dopo la morte del benefattore, fu ampliata dalla sua vedova Vittoria D’Ambrosio e dal figlio Principio, il quale fece dono di altre terre all’università perché la si potesse ingrandire, come avvenne con l’edificazione di un’altra struttura agli inizi del XVIII secolo e poi verso gli inizi del XX secolo.

Fatto sta che l’attuale territorio di San Giuseppe Vesuviano era da principio una zona agricola appartenente all’antico e grande feudo di Ottajano, oggi Ottaviano. Fu attorno alla fine del ‘500 che parecchi cittadini dell’abitato di Ottaviano si trasferirono più a valle, in prossimità di un quadrivio molto trafficato formato dalla strada che da Ottaviano portava verso Striano e Sarno e dall’asse viario che congiungeva Nola con Avellino e che portava anche ai porti di Torre Annunziata e Castellammare di Stabia. In quel periodo il grande via vai di carri diede impulso alla costruzione di taverne e locande per dare ristoro ai viandanti e al tempo stesso si vennero a creare i presupposti per poter commerciare i prodotti di Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano e Terzigno lungo queste direttrici stradali.

In definitiva, fu nel 1675, dopo la costruzione della parrocchia dedicata al Santo, che il rione, ormai diventato molto popolato, prese il nome di San Giuseppe; il nuovo villaggio crebbe in numero di abitanti e si sviluppo commercialmente sino a staccarsi il 19 febbraio del 1893, dal comune di Ottaviano, con regio decreto firmato da Umberto I. Fu invece il 23 dicembre 1894 che San Giuseppe Vesuviano, con un nuovo decreto reale, assunse ufficialmente il toponimo.

San Giuseppe Vesuviano venne praticamente distrutta dall’eruzione del 1906, ma grazie alla laboriosità dei sangiuseppesi fu ricostruita e, nel 1923, allo stemma comunale fu aggiunto il motto “Ex Flammis Orior”. Dagli anni ‘60 fino agli anni ‘90 questa città, che arriva a sfiorare i 30 mila abitanti, ha avuto un fortissimo sviluppo dell’industria tessile, che l’ha portata a diventare il polo in questo settore assieme alla città di Prato.

Naturalmente la viticultura ha da sempre rivestito un ruolo preminente in queste aree e storicamente essa viene fatta risalire ai Tessali, antico popolo della Magna Grecia, che secondo Aristotele impiantò le prime viti attorno al V secolo a.C., per quanto lo studio costante dell’ampelografia sicuramente apporterà nuove fonti e interessanti risvolti. È in quest’area che la famiglia Ambrosio ha operato per circa 80 anni, lavorando e commercializzando le uve dei propri vigneti, posti alle falde del Monte Somma. Oggi, alla guida dell’azienda c’è Ferdinando Ambrosio, giovane produttore, enotecnico ed agrotecnico, coadiuvato da suo zio Osvaldo Ambrosio, tra i veterani dell’enologia campana, nelle pratiche enologiche. Rispetto ai quadranti in cui il complesso vulcanico del Vesuvio Monte Somma è stato suddiviso l’Azienda Vitivinicola Ambrosio, per intenderci, si trova nella zona di “Monte Somma Terra” e ciò significa sbuffi di Tramontana e maestralate d’inverno e calde carezze ponentine d’estate per una viticultura che parte dai 250 metri sul livello del mare e si spinge fino ai 600, traducendosi in un clima mediterraneo temperato su terreni vulcanici e sabbiosi sedimentatisi dopo l’eruzione del 79 d.C.

Il Lacrymanera è un uvaggio di Piedirosso, Sciascinoso e Aglianico coniugati a seconda dell’annata e tradotti in un modello enologico sostenibile e che intende riproporre, attraverso la conoscenza e l’attenzione verso tutti i processi produttivi, un vino artigianale e di grande aderenza al territorio. Fermentazione spontanea con l’uso del pied de cuve e macerazione per circa un mese, poi un anno in vasca d’acciaio, decantazione per gravità e imbottigliamento.

Il Lacrymanera Lacryma Christi del Vesuvio Doc 2018 si presenta con una foggia di rosso rubino impenetrabile e con una sottilissima nuance granata e di buona consistenza.  Attraverso il sentore di polvere da sparo si fanno strada, sin quasi a fondersi insieme, i profumi di fiori rossi essiccati, la mora selvatica, il ribes nero, frutti questi assolutamente non maturi, a cui segue la prugna essiccata, la percezione della canfora, il tè e il pepe nero con un pizzico di goudron finale. Il sorso è rustico, tipicamente appartenente ad un rosso vesuviano d’altri tempi. Primeggia il tannino, scalpitante ma per niente invadente, a cui segue una persistente sapidità e con piacevole finale di succulenza indotta dalla giusta freschezza. In bocca si percepisce l’aromaticità della teina, quasi di tabacco, e la nota citrica e saporita dell’umeboshi. Spaghetti alla chitarra con ragù di fagiano e spugnole, piuttosto che una classicissima zuppa forte napoletana con un’irrinunciabile foglia d’alloro.

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