La comparsa dell’ostrica sul nostro pianeta risale ad ere remote, lo dimostrano gli innumerevoli reperti fossili rinvenuti in diverse aree geografiche. Questo frutto di mare, un mollusco bivalve ad ermafroditismo successivo che si trova pressoché in tutti i mari del globo, è stato fondamentale per l’alimentazione umana nell’area mediterranea e questo grazie alla sua facilità ad essere reperito, aperto e consumato: si pensi che la presenza nella dieta era tale che Heinrich Schliemann, durante i suoi scavi presso Micene, portò alla luce diversi cumuli di conchiglie d’ostrica.
Grazie al ritrovamento di un’esemplare d’ostrica da parte di un pescatore inglese nell’area di Portsmouth e le conseguenti ricerche sull’antico mollusco, eccezionalmente grande rispetto alle ostriche attuali di almeno dieci volte, si è potuto stabilire non solo risalisse al Triassico ma addirittura, per mezzo del conteggio degli anelli sul guscio, che fosse vissuto almeno 200 anni; inoltre, grazie ad una risonanza magnetica che evidenziava un corpo liscio e tondeggiante delle dimensioni di una palla da golf al suo interno, si sostiene essa contenga la perla più antica e più grande al mondo. In effetti il tempo e la scienza hanno potuto restituire alla luce fossili di ostriche risalenti anche a 10 milioni di anni fa e persino nella dismessa cava di Cortiglione, a sud di Asti, è stato ritrovato un esemplare di oltre 20 centimetri di dimensione, dal peso di due chili e di tre milioni di anni fa; scoperte simili sono state fatte anche presso i calanchi di Toiano, in piena campagna pisana, e nel fiume Tanaro nel distretto piemontese che dimostra l’importanza paleontologica di quello che fu il Mare Padano.
Per quanto si suppone l’ostricultura sia stata avviata per prima dal popolo cinese non ci sono tracce evidenti e sufficientemente attendibili a dimostrarlo mentre, come la storia dimostra, questa pratica dell’acquacultura pare più evidente essere stata escogitata dagli Antichi Romani ed avviata persino nell’antica Albione… infatti dall’Inghilterra partivano cospicui carichi per Roma, tanto gli antichi latini ne andavano ghiotti e le reputassero indispensabili per la migliore riuscita di un banchetto: fu così che da piatto povero, sotto Nerone, le ostriche divennero un piatto estremamente prelibato ed alla moda, tanto più che quelle provenienti dal Canale della Manica erano decisamente diverse rispetto a quelle che si raccoglievano lungo le coste della penisola italica, dell’Egitto e dell’Antica Grecia, ove il delizioso frutto di mare era considerato sì un cibo prelibato ma alla portata di tutti. D’altronde il termine ostracismo, la pratica di votare o meno a favore l’esilio per un cittadino, nasceva proprio in Grecia e si compiva trascrivendo tale scelta su di una conchiglia di ostrica.
Ma come si risolveva il trasporto delle ostriche? Si suppone viaggiassero sotto una coltre di ghiaccio oppure in otri pieni di acqua di mare da sostituire periodicamente lungo il cammino.
Le ostriche britanniche però non erano né le prime né le uniche varietà d’allevamento presenti sul mercato, tantomeno le sole ad essere apprezzate dagli intenditori di allora: Plinio il Vecchio sosteneva che…
“le ostriche del Mar di Marmara sono già più grosse di quelle di Lucrino, più dolci di quelle della Bretagna, più gustose di quelle di Medoc, più piccanti di quelle di Efeso, più piene di quelle spagnole… più bianche di quelle del Circeo; di quest’ultime è assodato che non ve ne sono di più dolci o più tenere” …dunque si potrebbe sostenere che il concetto di “merroir”, gli odierni “oysters sommelier”, fosse già stato enunciato all’epoca.
Grande doveva essere dunque la competenza ed il senso del gusto dei nostri antenati, capaci di distinguere, intenditori ed appassionati com’erano di questo bivalve, le più sottili sfumature di profumo e sapore tra un esemplare all’altro… dei veri e propri assaggiatori d’altri tempi.
Il celebre filosofo naturalista amava anche dire…
“le ostriche nel tempo degli amori si aprono quasi sbadigliassero, si riempiono di rugiada feconda e partoriscono perle… io consiglio di consumarle coperte di neve, così da mescolare la sommità dei monti e la profondità del mare” …uno spot leggendario per un testimonial d’eccezione.
Inoltre dalla sua opera De Naturalis Historia si apprende che fu nei Campi Flegrei a nascere la prima installazione di ostrearum vivarium attorno al I secolo a.C.:
“Sergio Orata fu il primo in assoluto che ideò nella sua residenza di Baia dei vivai per le ostriche, al tempo dell’oratore Licinio Crasso, prima della guerra contro i Marsi; spinto non tanto dalla gola quanto dalla sua brama di denaro, poiché sapeva trarre dal suo fertile ingegno grossi profitti… Lui per primo ottenne un ottimo sapore dalle ostriche del Lago Lucrino, poiché gli animali acquatici, anche se sono della stessa specie, sono migliori o peggiori a seconda del luogo in cui vengono catturati”.
Dalla stessa fonte si evince che le ostriche messe a dimora in questi vivai d’élite venissero raccolte nell’area dove attualmente sorge Brindisi.
Se Plinio dunque evidenziava le località più vocate all’allevamento di ostriche, oltre alle proprietà organolettiche delle stesse, è però grazie a Decimo Magno Ausonio che apprendiamo maggiori e più dettagliate informazioni riguardanti il modello di acquacultura: l’autore infatti, vissuto attorno alla prima metà del IV secolo a.C., asseriva che le ostriche provenienti dall’area flegrea di Baia venissero appese a dei picchetti di legno sui quali erano libere di fluttuare a seconda del moto ondoso e dell’escursione di marea… “pendent fluintantia palis” si diceva all’epoca; dalla stessa fonte si rileva inoltre che una cospicua parte delle scorte destinate ad appagare la golosità dei nobili e ricchi cittadini di Roma provenisse anche dall’ostricultura lungo le coste francesi, praticata successivamente.
Insomma, sia crude che cotte, le ostriche sono state consumate sin dall’Età della Pietra, trovando da sempre uno spazio riservato nella gastronomia più raffinata e nella letteratura latina, come tramandato da Cicerone nell’Hortensius, Columella nel De Agricoltura, Varrone nel Res Rusticae e dagli autori del De Re Coquinaria… dei tre Apicio pare che l’ultimo tra gli chef romani a portare questo nome, vissuto al tempo dell’imperatore Traiano, sia stato colui che inventò anche un singolare metodo per la loro conservazione:
“Perché le ostriche durino più a lungo: prendi un vaso con dell’aceto, oppure lava con aceto un piccolo vaso impeciato ed adagiavi le ostriche”.
Una conservazione di dubbio impiego oggigiorno ma che grazie alla quale, come menzionato nel libro “I dotti a banchetto” dello scrittore Ateneo di Naucrati, pare il famoso gastronomo romano fosse riuscito ad inviarle intatte a Traiano mentre era impegnato durante una delle sue campagne partiche in Mesopotamia nel 115 d.C. senza fargli venire un malore.
Per quanto fosse inconcepibile nella Roma tardo repubblicana ed imperiale immaginare un banchetto senza ostriche il loro consumo cessò durante il Medioevo, probabilmente anche a causa dell’associazione tra il bivalve e la vulva, per poi riprendere in epoca rinascimentale.
Delle presunte proprietà afrodisiache delle ostriche, probabilmente per il loro buon contenuto in zinco, tra gli stimolatori delle attività ormonali e quindi del testosterone, ne parleranno i medici Michele Savonarola, Bartolomeo Sacchi e Baldassarre Pisanelli, quest’ultimo raccomandandosi venissero consumate fresche nei mesi con la erre. Erano tempi in cui le ostriche venivano cotte alla brace per poi essere condite con pepe ed altre spezie, venivano mangiate con le mani o fatte scivolare in bocca direttamente dal guscio, pratica molto calcata da Giacomo Casanova con gesti lascivi: il latin lover le fece diventare di fatto cibo da seduzione, da consumarsi preferibilmente tra le lenzuola in buona compagnia… sembra ne mangiasse decine al giorno!
Facendo qualche passo a ritroso nel tempo e tornando in Campania è giusto ribadire che l’attività produttiva del Lago di Lucrino non ebbe fine a causa del Medioevo e del suo bigottismo religioso: fu l’eruzione vulcanica del 1538, motivo della formazione del Monte Nuovo tra l’altro, a ridimensionare drasticamente la superficie del lago, rendendolo poco fruttuoso. Fu Ferdinando IV di Borbone però a ripristinare qualche secolo dopo, precisamente nel 1764, l’ostricultura nell’area flegrea, riavviandola però presso il Lago Fusaro, già riserva di caccia e pesca, acquistato nel 1752 da Carlo III dalla Real Casa dell’Annunziata. Qualche anno più tardi vennero avviati i lavori di bonifica per conferire il giusto bilanciamento tra acqua dolce e salata, oltre che per favorire il ricambio delle acque, ed il re volle venisse edificata la Casina Vanvitelliana e la villa detta L’Ostrichina. Nel 1853 Napoleone redige un importante editto marittimo, riguardante tutte le attività attinenti al mondo della navigazione e lungo le coste, commissionando una vera e propria legislazione sull’ostricultura. Il governo francese commissionerà quindi delle ricerche che sortiranno la visita del naturalista Maurice Coste presso il Lago Fusaro, il quale avvierà uno studio meticoloso sulle tecniche di allevamento avviate anticamente dai romani e ben consolidate dai regnanti borbonici, così come riportato nel Manuel Pratique d’Ostréiculture di Arnould Locard, importandone la conoscenza sulla sponda atlantica della Francia, fattore determinante per il successo dei cugini d’Oltralpe in questo campo.
Per poter ottenere le larve di ostriche necessarie agli allevamenti, dette anche naissain, si provvede alla captazione del novellame in ambiente marino aperto, oppure selezionando gli esemplari adulti per l’avanotteria; dagli stock di allevamento gli esemplari che avranno compiuto in media 18 mesi verranno prelevati per mezzo dei cosiddetti plates, piccole imbarcazioni dallo scafo e dalla chiglia piatta, portati fino alle aree adibite ad ostricultura e disposti a seconda di come si intende allevarli. Al giorno d’oggi esistono diverse tecniche di allevamento come ad esempio quella a poches, ossia la disposizione delle giovani ostriche in sacche consistenti in piccole reti di plastica, a loro volta disposte su tavole di metallo o sparse al suolo di modo però che siano esposte alla risacca del mare, sacche che dovranno essere periodicamente rivoltate per garantire la crescita regolare di questi frutti di mare ed assicurare loro buone condizioni di vita ed un’ottimale circolazione dell’acqua di mare. Il modello di ostricultura cambia nella laguna mediterranea, ne sono un esempio lo stagno di Leucate e lo stagno di Thau, dove l’allevamento è verticale vista la scarsa escursione di marea e le ostriche vengono ancorate a corde vegetali a tre legnoli, oppure a corde sintetiche di nylon, piuttosto che a tavole di legno di mangrovia, ma sempre ad immersione permanente e con crescita più rapida rispetto agli esemplari allevati in Nord Europa. Dopo la fase di pre-ingrasso ed ingrasso durante l’allevamento le ostriche passano alla rifinitura in apposite vasche o bacini di decantazione perché possano espellere melma e sabbia in eccesso, dove talvolta degli iniettori di ossigeno aiutano a far affiorare i batteri nocivi in forma di schiuma facilmente eliminabile. Caratteristici della Charente Marittima e della Vandea i bacini d’argilla alimentati da una miscela di acqua di mare e d’acqua dolce, detti claires, conferiscono alle ostriche un gusto particolare ed il tipico colore da verdissement.
Le ostriche sono composte d’acqua per l’85% circa, apportano mediamente 40 kilocalorie di proteine, 21 di carboidrati ed 8 di grassi per ogni etto e costituiscono una miniera ricchissima di sali minerali quali ferro, fosforo, potassio, rame, sodio e zinco, oltre una preziosa fonte che di vitamina B12. La relazione tra ostriche ed umami, il quinto gusto, quello che aiuta a bilanciare e migliorare gli altri quattro, ossia il salato, l’acido, l’amaro ed il dolce, è molto stretta: infatti questo frutto di mare traduce appieno il sapore degli aminoacidi, nello specifico di guanilato, glutammato ed inosinato… e guarda caso l’ostrica è tra i cibi più ricchi in natura proprio di questi ultimi due, responsabili del senso del saporito. Per il piacere di degustare ottimamente le ostriche bisognerà tenere in debita considerazione la tipologia e la provenienza, il rapporto tra acqua dolce ed acqua salata, la rifinitura, la modalità di apertura, il profumo, la consistenza e le caratteristiche gustative, tra cui la salinità, la tendenza dolce e la persistenza. Non a caso esistono i sommelier delle ostriche che, oltre alle proprietà organolettiche di questi deliziosi bivalvi ed in luogo di terroir, come accade per il vino, fanno riferimento in questo caso al merroir.
Il merroir infatti contempla, dell’intero ciclo di allevamento, le condizioni biologiche e meteomarine del mare unitamente al fattore umano, costituito dalla lunghissima esperienza degli ostricoltori. È bene sapere che, dal momento in cui l’ostrica viene captata durante i mesi estivi, passano mediamente quattro anni prima che le stesse arrivino sulle nostre tavole. Ecco che durante tale ciclo, utilizzando apposite macchine, le ostriche vedono una prima forma di classificazione, ossia la calibrazione in base a peso e dimensione a seconda della tipologia: le ostriche di allevamento del tipo concavo, le Crassotea gigas, partono dal calibro 5 fino allo 0, rispettivamente dalle più piccole e dal peso di 30-45 fino alle più grosse che arrivano a superare i 150 grammi; in linea di massima tale concetto di commensurazione vale anche per le ostriche del tipo piatto, le Ostrea edulis, con la differenza che queste partono da una scala calibro 6, esemplari piccoli dal peso di 20 grammi, fino allo zero, per poi proseguire con l’aggiunta di zeri a seconda dell’aumento di dimensione e raggiungere il calibro “0000”, assegnato ad ostriche enormi quanto rare.
Tra le ostriche piatte troviamo le Bèlon, così chiamate perché originariamente venivano affinate esclusivamente sulle rive del fiume Bèlon in Bretagna: sono caratterizzate da una forma tondeggiante, un sapore intenso e iodato ma allo stesso tempo equilibrato ed erano note già al tempo dei Romani. Anche le Marennes appartengono alla tipologia di ostriche piatte, provengono dall’area di Marennes-Oléron e sono caratterizzate da un colore verde acqua molto caratteristico, dovuto alla presenza di una micro-alga chiamata navicula blu. Si tratta della tipologia più rara e costosa reperibile sul mercato, se si escludono la neozelandese ostrica di Bluff, pescata appunto tra Bluff e l’isola di Stewart, e l’ostrica Coffin Bay King Oyster proveniente dall’Australia.
L’ostrica concava è ritenuta meno pregiata e più accessibile rispetto alla piatta e questo è dovuto al fatto che crescono più rapidamente, il loro allevamento presenta meno difficoltà ed infine perché il loro gusto più intenso e le carni sode la rendono meno delicata. Esse si distinguono a seconda del tipo di allevamento in Fines, Speciale e Pousse.
L’ostrica Fines de Claire viene affinata in particolare vasche poco profonde e argillose, le claires appunto, che consentono di sviluppare una particolare e gustosissima polpa. Affinate nei Claire per 2-4 settimane con una densità fino a 40 ostriche per metro quadrato. L’ostrica Fines viene invece affinata in mare aperto per almeno 1 mese con densità di 20 ostriche per metro quadro. Le ostriche Speciales invece vengono affinate per almeno 2 mesi in mare aperto con densità di 10 ostriche per metro quadro. La varietà di ostrica Pousse affina dai 4 agli 8 mesi in mare aperto con una densità di 5 ostriche per metro quadro ed una cura estremamente dettagliata durante tutte le fasi dell’allevamento. Le ostriche Vert sono affinate, anche in questo caso, in presenza della micro-alga navicula blu, già menzionata in precedenza. Il mese migliore per apprezzare appieno le ostriche è sicuramente gennaio ma ne viene consigliato il consumo anche nel periodo che va da settembre ad aprile. Da maggio ad agosto infatti entrano nel periodo di riproduzione diventando molli e lattiginose e, pur essendo commestibili, perdono texture e sapore, risultando più facilmente deperibili, ragionamento questo non applicabile per quelle ostriche geneticamente modificate e rese sterili in coltura.
La presenza di ostriche nei Paesi del Mare Nostrum…
L’Ostrica Special San Teodoro è un’eccellenza dell’ostricultura in Sardegna: viene allevata a ciclo completo, ossia a partire dal seme, nella laguna di San Teodoro in provincia di Nuoro. La conchiglia è tendenzialmente omogenea ed a forma di goccia, mentre il frutto è copioso e croccante, con note gusto-olfattive iodate ma con tendenza dolce, sentori vegetali e di frutta secca.
Da provare con lo spumante metodo Charmat brut Tagliamare di Argiolas a base di uve Nuragus, agile e brioso con finale sapido.
L’Ostrica Tarbouriech, di quelle proveniente dall’Emilia Romagna però e precisamente dalla Sacca degli Scandinavi, presso il delta del fiume Po: è raffinata a partire già dall’aspetto, con quelle sue nuances rosa, si presenta all’olfatto con note salmastre e vegetali, mentre all’assaggio è consistente, succulenta e con una persistenza che orbita attorno a note vegetali sia marine che di sottobosco, note favorite appunto dall’incontro tra il grande fiume ed il Mare Adriatico.
Il Lambrusco Spumante Metodo Classico Rosé Brut della Cantina della Volta sarà appagante per le sue profumazioni eleganti e per un sorso di grande intensità.
L’Ostrica San Michele viene prodotta in Puglia, precisamente dal Parco Nazionale del Gargano e prendono il nome dell’arcangelo e santo patrono del luogo. I bivalvi vengono allevati nella Laguna di Varano, vicinissima al Lago di Lesina, in provincia di Foggia. Dopo una fase di ingrasso preliminare nelle apposite lanterne, arrivate ad opportuna dimensione, le ostriche vengono incollate a mano sulle corde assicurate alle vecchie palizzate impiegate all’allevamento di mitili in questa laguna, alimentata da due sorgenti sotterranee e comunicante con il mare Adriatico tramite due canali: la foce di Varano e la foce di Capojale. Per riprodurre l’effetto delle maree vengono sollevate dall’acqua manualmente, per essere lasciate a corroborarsi sotto l’influenza degli agenti esterni, sotto vigile controllo per assicurare la giusta forma durante la crescita e quindi per garantire opportuno spazio ad ospitare un frutto generoso. La conchiglia è dentellata, dura e talvolta presenta bordi talvolta di madreperla nera. Carni abbondanti, nota iodata che subito volge alla tendenza dolce e buona complessità: ingresso vegetale, note tostate di frutta secca, mineralità e buona persistenza sono il biglietto da visita dell’Ostrica di San Michele.
Lo Spumante Brut Nature Millesimato della cantina L’Archetipo, vinificato con uve Marasco secondo il metodo Martinotti, sarà un ottimo accompagnamento grazie alla sua esaltazione della mineralità.
Poco conosciute sono le Ostriche di Kotor in Montenegro. La “mussel & oyster farm” si trova nella famosa Baia di Cattaro, ricopre un’area marina di un ettaro ed è di proprietà del maricoltore Luka Milošević. Gli aspetti più rilevanti di questo modello di ostricultura consistono nell’assenza di forti correnti e pertanto in una buona produzione di fitoplancton, oltre ad un apporto costante di acqua dolce, proveniente da fiumi e sorgenti, e un ecosistema pressoché intatto e che limita fortemente gli agenti inquinanti. Le proprietà nutraceutiche di queste ostriche sono caratterizzate dalla ricchezza di omega-3 e di minerali, come fosforo, zinco, selenio e manganese. Il gusto delicato delle alghe, la croccantezza del frutto e la tendenza dolce sono la prerogativa di queste ostriche.
Ottime con la baldanzosa freschezza agrumata dello Spumante Brut di Asprinio D’Aversa I Borboni.
L’Ostrica di Oualidia è molto rinomata e conosciuta in Marocco: l’omonimo villaggio è una meta turistica molto apprezzata per la sua costa ed è famoso anche per la produzione di ostriche, coltivate sin dagli anni ’50. Anche se la cittadina è ubicata nella regione atlantica di Casablanca-Settat vale assolutamente fare la menzione di queste ostriche in quanto la laguna dove viene praticata l’ostricultura è l’attività principale di questa città magrebina. Le ostriche però vengono importate dalla Francia quando hanno circa 6 mesi, si pensi che la sola Oualidia ne acquista oltre 20 tonnellate all’anno, per poi essere immerse nelle acque lagunari per altri 6 mesi, assumendo una colorazione particolare ed un piacevole gusto, ricco e minerale.
Da abbinarsi ad un per niente convenzionale Crémant de Loire Non Dosè dello Chateau Pierre Bise, metodo classico a base di uve Chenin Blanc.