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Poco più di tre anni fa abbiamo assaggiato il Dinavolo 2009, di cui si potrà leggere qui la descrizione, evincendo non soltanto le caratteristiche ma persino la straordinaria capacità di affrontare lunghissimi periodi di affinamento in bottiglia, quando si osservano le buone norme di conservazione. È piacevole poter riscontrare, pur non nel corrispondente periodo d’assaggio della precedente referenza, le differenze che intercorrono tra le due annate ed una filosofia enologica protesa ad interpretare l’andamento vendemmiale, senza perdere di vista l’aderenza del vino al frutto che lo ha generato e quindi la continuità qualitativa.

Siamo naturalmente a Denavolo, la piccola frazione del comune di Travo, nella provincia di Piacenza, che ha dato il nome alla cantina fondata da Giulio Armani.

Questo piccolo borgo, distante dal centro comunale un chilometro e mezzo e che prende il nome dal monte nei pressi del quale è ubicato, è abitato sin dalla preistoria; si fa menzione di un vero e proprio insediamento, un villaggio insomma, posto sulla sommità del monte Denavolo già a partire dal V secolo a.C.; nel Medioevo, precisamente nel 1210, si fa riferimento ad esso col nome Denaurem, come si evince da un testo redatto a Varzi, e tutta l’area rientrerà nei possedimenti del marchese Rainaldo Malaspina, per poi essere ceduta al comune di Piacenza e subire un passaggio di mano nel 1414, concesso quindi a Bartolomeo Anguissola e quindi rientrando nel feudo di Montechiaro. Oggi l’abitato della frazione Denavolo è ripartito in Gattavera Dinavolo e Denavolo Chiesa; proprio in quest’ultima area è possibile visitare la Chiesa dei santi Faustino e Giovita, costruita nel XVII secolo e che presenta un’unica navata di modeste dimensioni, esternamente dipinta di bianco e arancione; il campanile ospita tre campane costruite nel primo dopoguerra, il cui suono talvolta giunge fino a Travo. Sotto la cella campanaria si trova l’orologio e dal sagrato di questa chiesa è possibile ammirare il panorama sul versante opposto del fiume Trebbia.

Dunque questa piccola realtà a conduzione familiare ed attiva dal 2005 si trova in piena Pianura Padana, tra le colline della Val Trebbia e Val Nure, che debbono i loro nomi ai torrenti che affluiscono al fiume Po dalla sua riva destra, influenzata da estati calde ed inverni rigidi, come da clima continentale. Siamo ad un’altitudine compresa tra i 350 ed i 400 metri sul livello del mare, i terreni da cui provengono le uve per fare il Dinavolo sono di base a prevalenza calcarea con argilla e con significativa presenza pietrosa, a causa del dilavamento delle piogge. Le viti di Ortrugo, Malvasia di Candia, Marsanne ed altre varietà locali che concorrono alla produzione di questo vino sono tutte allevate a guyot nel vigneto Debé, risalente al ’75.

Il Dinavolo 2010 presenta un colore aranciato molto intenso con nuance di ambra chiara ed un gran bella consistenza. Il bouquet si srotola con note vinose, malgrado gli anni, con un rimando al madera di tipo sercial. Bisogna pazientare, i profumi ci sono ed il vino sta tornando alla luce dopo ben 11 anni, senza alcun accorgimento se non quello di avvinare il calice. Il diritto all’attesa è pur sempre un atto d’amore ed il tempo infatti dimostra di essere galantuomo: le note olfattive di cui sopra restano ma ecco che arriva l’erbaceo del timo limonato fresco, poi del rosmarino e della salvia quando essiccati, poi ancora il fruttato del pompelmo rosa, del melograno e della scorza di arancia candita, infine la traccia di fragrante da massimo stato di riduzione nel sentore tipico del pan brioche. Intanto al sorso si percepiscono nitidi il melograno ed il pompelmo. Successive sbirciate nasali scorgono riconoscimenti brassicoli che riconducono alle birre iga, al fieno ed un finissimo odore di chiodo di garofano. Intanto i sorsi si fanno ripetuti ma raccontano sempre di un’acidità dirompente, una soffusa sapidità e di un tannino abbastanza palpabile che arriva subito dopo la freschezza, senza privare il nettare del suo potere dissetante. Il fruttato c’è tutto, ma la retro-olfattiva racconta anche di quell’italian grape ale e di una chiusura che, più che da miele di corbezzolo, pare essere appunto quasi luppolata, elegantemente amara. Il calice, bello che vuotato, rivela erbe mediterranee e fieno essiccato, profumo di birra, amaretti e chiodo di garofano. Arrosto di maiale alla bavarese.

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