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La ricchezza culturale
non deriva dalla purezza
ma dalla mescolanza

Jacques Le Goff

Oggi, se si parla di immigrazione si pensa immediatamente alle carrette del mare, alle vite divorate dal Mediterraneo, all’invasione – come spesso viene percepita – di migliaia di persone in fuga da un destino inaccettabile.
L’immigrazione non è soltanto questo e ancora meno lo è stata in passato, quando gli spostamenti non necessariamente avvenivano per disperazione e l’integrazione, pur sempre complicata da stereotipi e diffidenza alimentati anche dai mass media, era forse meno difficile rispetto a oggi.
Alcune problematiche, però, sono sempre emerse, in primo luogo per quel che riguarda la comunicazione; per superare quest’ostacolo, i migranti che hanno deciso di raccontarsi lo hanno fatto nella lingua d’adozione. Scrivere in italiano ha permesso loro di superare l’autoreferenzialità, l’essere letti e compresi solo dai propri compatrioti. La prima generazione di scrittori migranti ha avvertito questa necessità come primaria, tanto che le opere di quel periodo – anni Ottanta e Novanta – sono profondamente legate all’autobiografismo. Fu un evento in particolare a far nascere la cosiddetta “letteratura migrante”: un giovane sudafricano, Jerry Masslo, raccoglitore di pomodori in provincia di Caserta, fu derubato e ucciso. Questo fatto sensibilizzò l’opinione pubblica e, ancora di più, gli altri immigrati. Tra gli autori del periodo possiamo ricordare Tahar Ben Jelloun, autore di Dove lo stato non c’è, Salah Methnani, che scrisse Immigrato, Pap Khouma (Io, venditore di elefanti, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, Noi italiani neri), Saidou Moussa Ba (La promessa di Hamadi). In questi scritti, agli autori preme far comprendere agli autoctoni quali siano le difficoltà di un migrante, trasmettere il bisogno di essere considerati uomini e non carne da lavoro. Letteratura di denuncia, dunque, scritta quasi sempre a quattro mani con italiani per ovviare alle difficoltà legate alla conoscenza della lingua.

Dopo questa prima fase “autobiografica”, la letteratura migrante in lingua italiana assume una connotazione diversa: gli scrittori maturano una certa competenza linguistica e non si servono più dei co-autori. Inoltre, le nuove opere trattano più che altro la cultura d’origine, descrivono i Paesi di provenienza con l’intenzione di far conoscere usi e costumi sconosciuti e ignorati nel Paese di accoglienza.
Contemporaneamente nascono anche diversi premi letterari per scrittori migranti, come “Exs&tra” a Bologna, “Lo sguardo dell’altro” a Napoli, “La Biblioteca di Babele” a Torino, e riviste specifiche come “El Ghibli” – diretta da Pap Khouma –.
Non affidarsi più a co-autori italiani implica un utilizzo della lingua maggiormente dinamico e originale dovuto alla commistione culturale. Apporti interessanti, […]ibridazioni linguistiche che mostrano il desiderio di fondere la cultura d’origine con la cultura adottiva.[1] Si possono citare, quali esempi di questo fertile periodo, la scrittrice brasiliana Christiana De Caldas Brito e lo scrittore algerino Amara Lakhous.

È in questo momento di maggiore indipendenza che molti autori, soprattutto quelli di seconda generazione, cominciano a staccarsi sia dall’autobiografismo sia dalle tematiche strettamente legate al Paese di origine. Si sente la necessità di sciogliere le briglie, di liberare le proprie opere dalla nomenclatura di “letteratura migrante”. È il caso di Igiaba Scego, scrittrice italo-somala autrice di numerose opere, vincitrice di alcuni premi, tra cui il Mondello, e di altre donne – l’apporto femminile è fondamentale nella letteratura migrante – come Laila Wadia e Sumaya Abdel Qader.

Attualmente gli scrittori migranti in Italia sono alcune centinaia, provenienti da ogni parte del mondo. Alcuni riscuotono un notevole successo, basti pensare a Nicolai Lilin, moldavo, autore del famoso Educazione siberiana, all’algerino Tahar Lamri (L’amore con l’alfabeto maiuscolo), l’albanese Ron Kubati (Va e non torna), la greca Helene Paraskeva (Nell’uovo cosmico), la capoverdiana Maria de Jesus Lourdes, giornalista, scrittrice e conduttrice, l’albanese Anilda Ibrahimi (Rosso come una sposa, L’amore e gli stracci del tempo, Non c’è dolcezza, tutti pubblicati da Einaudi).
Una mescolanza, per citare ancora una volta Le Goff, che arricchisce il panorama culturale italiano e che, se la si osserva con occhio scevro di pregiudizi, può allargare le nostre vedute oltre quel mare che, talvolta, vorremmo barriera a senso unico.

Di seguito due brani tratti da altrettanti libri scritti da migranti. Il primo ci trasporta nell’Africa degli antichi riti, frutto del desiderio dell’autore di far conoscere il luogo da cui proviene. Il secondo, invece, è tratto da una raccolta di racconti che narrano le vicissitudini di alcuni migranti venuti in Italia in cerca di fortuna.

«Lassù, al villaggio di Dugà, gli anziani dicono di un ragazzo ribelle che è posseduto dallo spirito dell’Adédjé in piena.
Kossivi, figlio di Mambono (padre di Mambo), fratello di Mambo e Gbédé, nipote dell’hunò Briyawo, già all’età di sette anni era posseduto dallo spirito dell’Adédjé in piena.
Oggi, girando per le strade sassose e irregolari di Dugà, capita di incontrare un uomo di bassa statura, gambe arcuate, barba grigia incolta, viso scavato e occhi spenti…
Nessuno avrebbe pensato che Kossivi, figlio di Mambono, nipote dell’hunò Briyawo, sarebbe finito così, come un’ombra silenziosa, lugubre, errante preda e bersaglio degli impietosi giochi dei fanciulli di Dugà.
Le malelingue dicono che è una vittima dei vodù di suo zio, l’hunò Briyawo. Altri sostengono che ha voluto vedere oltre la notte.»

Kossi Komla-Ebri, La sposa degli dei, Edizioni dell’Arco – Marna, 2005
 

«A te Kadima,
ti scrivo per dirti che sto bene e non vi dovete preoccupare per il mio lungo silenzio. In questi anni ho vissuto in Europa delle esperienze che mi hanno costretto ad aprire gli occhi. Non è facile la vita che fanno qui i nostri ragazzi e, credetemi, ho visto parecchi vivere da cani. Il mito dell’Europa che abbiamo è una brutta cosa, ti può uccidere l’anima se non riesci a trovare una via d’uscita. In ogni caso, dopo aver passato momenti duri, ora le cose si stanno mettendo un po’ a posto e sogno di rivedervi al più presto. Con questa lettera vorrei dirti due cose: la prima è che ho trovato un lavoro a Palermo. Sì, proprio Palermo. Ti ricordi il film “Cent jours à Palerme?” Ti ricordi il generale ucciso in un attentato?
Sono responsabile di zona per un’agenzia di pubblicità. Mi hanno dato una macchina e lavoro con altri quattro ragazzi, tutti italiani. Ti rendi conto, io a capo di una zona per distribuire il lavoro ai miei ragazzi? Grazie a padre Antonio, un prete molto combattivo, ho ritrovato il sorriso, e Carla, il mio datore di lavoro, mi ha dato la possibilità di pensare in altri termini alla mia vita. Di lei ti parlerò nella prossima lettera.
La seconda cosa è brutta perché ho rischiato di morire durante il mio lavoro. Stavo lavorando quando una bomba è esplosa mandando in frantumi tutto quello che era nel raggio della sua potenza. Dicono che la mafia abbia ucciso un giudice; si chiamava Paolo Borsellino, era un giudice che lottava contro la mafia e dopo anni trascorsi alla guida dei un’altra procura era tornato a Palermo come procuratore aggiunto. In Italia la mafia esiste sul serio e anch’io che non ci credevo ora ne sono convinto e ho paura. […] L’ignoranza si dimostra ancora una volta una brutta bestia. Non potrò mai raccontarti con le parole la giusta dimensione di quello che è accaduto, pensa solo che c’erano pezzi di uomini dappertutto.
Prima di chiudere, vorrei dirti che nel mese di maggio la mafia aveva ucciso un altro famoso magistrato italiano: il giudice Giovanni Falcone. […] Adesso che Falcone e Borsellino sono morti, per me vivere in Italia ha cambiato significato, non tanto perché ho paura della morte, si può morire ovunque, ma perché mi chiedo se questo Paese sia il posto giusto per me e se mi darà un giorno la possibilità di realizzare i miei sogni. Se due uomini importanti vengono uccisi come niente, pensa un po’ cosa possono fare di noi.
Il giudice Falcone amava spesso ripetere: “Per me che sono siciliano, la vita vale meno di un bottone”. E per me che sono africano, quanto può valere la mia vita in Italia?»

Laye Gueye, La speranza sta oltre confine?, La Cassandra Edizioni, 2015.

[1] Paola Ellero, Letteratura migrante in Italia.

Fonti
Paola Ellero, Letteratura migrante in Italia
www.wikipedia.org

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