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L’autore croato è morto qualche giorno fa a Zagabria, lascia una profonda eredità letteraria e umana

Predrag Matvejevic aveva una filosofia internazionalista. Figlio di padre nato a Odessa, attuale Ucraina, di origini russe, e di madre di etnia croato-bosniaca, nasce a Mostar nel 1932. Il ponte della città è forse emblema di tutta la sua vita: quel legame che l’ha aperto al mondo tenendolo, però, sempre legato alla sua terra, il territorio dell’ex Jugoslavia. Esiliato dalla Croazia, visse e insegnò prima alla Sorbona di Parigi, poi alla Sapienza di Roma, in Italia, dove fu naturalizzato italiano. Muore pochi giorni fa nella sua città, Zagabria, quella dove studiò e dove iniziò la sua carriera di accademico e lascia una profonda eredità letteraria e umana.

Predrag Matvejevic era un docente universitario, uno scrittore, un intellettuale e credeva molto nel ruolo attivo di questi ultimi. Per questo partecipò in vari modi alla vita politica del suo paese, ad esempio con le 75 “lettere aperte” dei primi anni Settanta rivolte a dissidenti, sia sovietici che jugoslavi, e allo stesso Tito, al quale consiglia di dimettersi per il bene del paese. Fatto che gli costò l’espulsione dal suo stesso partito, la Lega dei Comunisti, e che lo trasformò a sua volta in dissidente. O ancora, nel 2001, con il saggio “I nostri talebani”, pubblicato sul quotidiano Jutarnji List, in cui accusa vari intellettuali di aver sostenuto nazionalismo e bellicismo durante le guerre jugoslave e di essere, così, responsabili in parte delle atrocità che hanno dilaniato la Bosnia-Erzegovina. Quelle stesse guerre gli procurarono l’esilio in Francia, dopo tre colpi di pistola alla sua cassetta delle lettere; mentre a causa del suo scritto contro i “Talebani cristiani” verrà condannato per diffamazione.

Predrag Matvejevic è rimasto per tutta la vita uno jugoslavo convinto, perché contrario a tutte le forme di nazionalismo e di divisione tra culture, tra esseri umani. Per Matvejevic le transizioni politiche (più che trasformazioni) che hanno fatto seguito alla caduta dei regimi totalitari nell’Est Europa si travestivano di democrazia, senza però rinnovarsi nel profondo. La stessa cultura a cui i nuovi governi facevano appello non era che un misero rimedio, poiché si sottometteva all’idea di nazione. Ma “il rapporto tra l’identità della nazione e quella della cultura nazionale è spesso subordinata a un determinismo semplicistico o primitivo”, e i nazionalismi, compresi quelli europei, hanno la colpa di aver eliminato le culture locali e regionali in nome del più ampio progetto di Stato-nazione, causando spesso la distruzione delle solidarietà sociali e comunitarie.1

Predrag Matvejevic cantò il Mediterraneo. Lo fece tante volte e in mille modi, ma tutto è racchiuso nella sua opera più importante: “Breviario Mediterraneo” del 1987. A metà strada tra saggio e romanzo, prosa e poesia, diario di viaggio e giornale politico, in questo libro lo scrittore croato (o meglio, jugoslavo) ricostruisce la storia culturale, religiosa e umana di un mare che è culla di civiltà e crocevia di popoli. Quel mare che, afferma Matvejevic, è diventato oggi una frontiera che divide il Nord dal Sud del mondo, il bene dal male; un mare a cui l’Europa dovrebbe guardare per ritrovare le sue origini e riprendere a percorrere una strada più umana.

Predrag Matvejevic aveva un pensiero che incanta e fa paura. Dolce, quando parlava di Mediterraneo; profondo, quando si soffermava sul pane, come è evidente nel suo “Pane nostro” (Garzanti), un saggio che riflette sul pane come sigillo della cultura dei popoli. Audace e pungente, quando esprimeva le sue idee politiche senza paura, ma anche senza violenza, procurandogli, come abbiamo visto sopra, non pochi problemi. Un pensiero che incanta e che fa paura allo stesso tempo, e che rimarrà per sempre vivo nelle sue opere e nei suoi insegnamenti.

Daniela Melis

 

1 Predrag Matvejevic, “Il Mediterraneo e l’Europa”, Garzanti Elefanti, 1998, pp. 93 ss.

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