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Un vecchio pastore all’ombra di una gigantesca e vetusta quercia, in attesa, paziente, con il fedele fucile appeso al ramo, mentre “In fondo al bosco si odono ininterrotti colpi di scure, ripetuti dall’eco, e pare che tutta le foresta ne tremi”. E’ l’immagine scaturita dalla penna della scrittrice sarda Grazia Deledda, premio nobel per la letteratura del 1926, tratta da un suo celebre racconto, “Colpi di Scure”. Immagine simbolo del grande scempio compiuto nell’800, quando nel giro di 60 anni quattro quinti delle foreste sarde caddero sostituite da pascoli per la nascente industria casearia. Il vecchio pastore è il depositario del sapere antico, “Su Connottu”, un mondo tradizionale povero, di sussistenza, ma basato su una economia integrata, dove il bosco era una componente fondamentale. Ora, però, l’economia di mercato scendeva dall’Europa industrializzata circondando, ormai, l’isola, recando una visione privatistica e monocolturale della produzione. Il preludio al disboscamento fu la nascita delle recinzioni con i muretti a secco del famigerato Editto delle Chiudende del 1820. I provvedimenti legislativi della cosiddetta “stagione delle riforme”, che si susseguirono per tutto il secolo, favorirono la speculazione e il consumo del bene più importante ereditato dal popolo sardo, i boschi, che furono prima demanializzati e poi venduti dallo stato piemontese ai privati, spesso speculatori senza scrupoli. Il sistema di sfruttamento dei boschi sardi prosegui ininterrotto fino alla fine del secolo, sotto l’egida del nuovo Stato italiano. La soppressione dell’uso comunitario delle terre provocò un trauma memorabile nella coscienza della popolazione. I colpi sordi e cupi della scure risuoneranno per molto tempo nell’animo dei sardi e nelle parole di scrittori e poeti di quel periodo, affievolendosi con il tempo. Ma negli anni ’70 del ‘900 la memoria dei sardi avrà un sussulto, recuperando quelle vicende, grazie al premiato romanzo di Giuseppe Dessì, “Paese d’Ombre”, la lotta del sindaco di un paese pedemontano per impedire il disboscamento delle foreste.

Erano gli ultimi rigurgiti di una memoria che si trasformava in leggenda, un mito da dare in pasto ad un revisionismo miope e feroce.

Il recupero della storia del disboscamento dell’800, dunque, è stata un operazione scientifica ma anche e soprattutto culturale. Ci sono le statistiche, inequivocabili, oltre alle testimonianze, alle prove e agli altri indizi raccolti nel libro “Colpi di Scure e Sensi di Colpa”, (Carlo Delfino Editore), dell’autore del presente articolo.

Le statistiche sul disboscamento dell’800 sono spietate, concordanti ed inequivocabili. La Sardegna entra nell’800 ricca di boschi, con oltre 500 mila ettari di superficie forestale, e ne esce, alla fine del secolo, ridotta a meno di 100 mila ettari.

Dimenticare la vocazione boschiva dell’isola è stato, dunque, nel secolo scorso, l’imperativo.

Meglio raccontare che la Sardegna, in fondo, è sempre stata arida, terra aspra e sfortunata, per poter giustificare un presente di problemi sociali ed economici non edificante. La Sardegna finì per essere descritta come una terra povera, pre-desertica, poco fertile, battuta da venti impietosi che forgiavano genti dure dedite ad una vita di stenti, preludio al banditismo. Lo stereotipo della Sardegna arida e povera per natura era il presupposto per la successiva trasformazione “monocolturale”, quella industriale. Con i due successivi Piani di Rinascita, nel secondo dopoguerra, l’isola fu oggetto di un altro assalto speculativo, con la nascita delle industrie pesanti e inquinanti del petrolchimico, che si aggiungevano alle vaste distese di territorio già destinato alle servitù militari.

E tuttavia, nonostante queste trasformazioni profonde del territorio e persino dell’antropologia della popolazione, la Sardegna oggi riemerge, più che mai, con la sua antica floridezza.

Per prima cosa, per quanti sforzi si possano fare per ridimensionare la portata della storia, svettano ancora, in cima alle colline, i residui prepotenti di una antica civiltà, perdurante per secoli a partire da 3800 anni fa, con migliaia di monumenti ancora visibili, ricordo di una terra in grado di ospitare, secondo i calcoli degli studiosi, in epoca antica, dalle 200 mila alle 300 mila persone.

Solo una terra florida e ricca di boschi, di acque regimate, di selvaggina e di terre fertili, poteva sostenere la più importante civiltà dell’antico Mediterraneo occidentale.

Il nuraghe, di forma dendrometrica, riproduce alla perfezione la stabilità e la forza statica del gigantesco tronco della quercia, segno di una comunanza tra le forze della natura e quelle dell’uomo. Immerse nel verde, disseminate per l’isola, insieme ai nuraghi, si trovano le chiese romaniche, risalenti al medioevo, con un epicentro cronologico intorno al tredicesimo secolo, segno di un’altra stagione feconda per l’isola, quella giudicale, caratterizzata dalla figura mitizzata di Eleonora d’Arborea.

Chiese romaniche e nuraghi disseminati in mezzo ai boschi e alla macchia dell’isola rappresentano uno straordinario connubio di storia e di natura, tale da rendere la Sardegna un luogo di grandi suggestioni e di profondo significato culturale.

Un territorio monumentale, è solito definirlo, il più grande museo a cielo aperto. E tuttavia, tra le pietre dei villaggi nuragici e i campanili svettanti delle chiese romaniche, ci si dimentica di altri monumenti, costituiti da esseri viventi spesso ancora più antichi di quei manufatti. Sono le piante monumentali, querce, sughere, olivastri, corbezzoli, lentischi risalenti a parecchi secoli fa, esseri viventi scampati chissà come alla scure dell’uomo e che, potendo, racconterebbero la storia di questo angolo di mondo.

In località San Baltolu, in agro di Luras, superata la locale chiesetta campestre, alcuni olivastri attraggono l’attenzione per la loro mole e la loro vetustà. Gli studiosi ritengono che il più vecchio di essi abbia all’incirca 4000 anni. Hanno osservato, tra i rami e le foglie, sorgere la civiltà nuragica.

In località Sas Baddes, a Orgosolo, resiste al tempo una foresta di lecci, considerata da molti studiosi l’ultima foresta primaria d’Europa, ovvero mai toccata dall’uomo. Un compendio vegetale di straordinario valore scientifico, in passato rifugio di banditi e peccatori, testimone di un mondo pastorale che sapeva convivere con gli elementi primordiali della natura.

Qua e là, nell’isola, sopravvivono foreste “relitte”, residui di epoca antiche, con associazioni di piante oggi confinate in ambiti delimitati, come il tasso e l’agrifoglio. Nel cuore del Goceano, spettacolare risulta essere quella di Sos Nibberos, popolata di giganteschi e vetusti tassi.

Gigantesche sughere, sparse per l’isola, a volte piegate dal maestrale in forme caratteristiche a bandiera, a volte protette nei versanti collinari dando vita a forme maestose, testimoniano la volontà secolare dell’uomo di favorire questa specie resistente agli incendi tipici del clima mediterraneo, per gli usi plastici che la sua miracolosa corteccia spugnosa riserva.

Nei compendi dunali distribuiti soprattutto nelle coste esposte a maestro, come in quella di Piscinas, che ha servito per millenni le miniere del Sulcis e dell’Iglesiente, gigantesche dune di sabbia sono ricoperte per chilometri da boscaglie litoranee. Lì, inconfondibili, sono i tronchi contorti di ginepri secolari, gli stessi che si vedono, d’altra parte, aggrappati alle falesie e alle pareti rocciose calcaree lungo la spettacolare e selvaggia costa orientale dell’isola.

Gli esempi di piante secolari e monumentali sparse per l’isola potrebbero continuare a lungo. La stessa Regione Sarda è da alcuni anni impegnata nel censimento e nella protezione di questo mirabile patrimonio naturale.

Sardegna terra monumentale, dunque, luogo dei ricordi e delle testimonianze del passato?

Questa visione retorica in realtà contrasta con le più recenti statistiche, che indicano la Sardegna come la regione d’Italia con la maggiore superficie ricoperta di boschi, pari ad oltre un milione e duecentomila ettari.

Come è stato possibile che dalla distruzione quasi totale dei boschi dell’isola, oggi sia potuto rinascere l’antico splendore forestale?

Verso la fine dell’800, si ripeterono gli allarmi e le proteste del mondo scientifico e intellettuale sardo, sostenuto dalle battaglie di diversi deputati, come Asproni e Tuveri. Tuttavia, a causa anche delle due successive guerre mondiali, poco fu fatto per la ricostruzione del manto vegetale dell’isola, impoverita dal disboscamento ed in balia delle paludi, del dissesto idrogeologico e della recrudescenza degli incendi. E’ a partire dagli anni ’50 e ’60 che ambiente e politica trovarono finalmente una convergenza di interessi tale da attivare, grazie all’Azienda Foreste dello Stato prima e della Regione poi, un impegno concreto per la ricostituzione dei boschi, attenuando nel contempo il malessere sociale derivante dalla disoccupazione crescente.

Si erano salvati alcuni importanti boschi demaniali, specie alle porte di Cagliari e di altre città, e diversi compendi forestali di comuni “resistenti”, soprattutto dell’interno dell’isola.

Questo primo patrimonio di poche decine di migliaia di ettari, con il tempo, si è ingrandito finendo per ricomprendere terreni dei comuni e dei privati dati in gestione all’attuale Ente Foreste della Regione, fino a superare i 200 mila ettari di boschi a gestione pubblica.

Si trattò, invero, di un’opera di ricostruzione dei boschi sardi indefessa e paziente, non esente, specie nel primo periodo, da interventi discutibili, con il massiccio utilizzo di specie esotiche a rapido accrescimento spesso ben oltre la loro ipotetica utilità di specie pioniere, ovvero in grado di ricolonizzare ambiti ecologici da troppo tempo privi di copertura vegetale.

E tuttavia, al netto di queste discussioni che perdurano tuttora, oltre a pinete costiere ormai perfettamente inserite nel moderno paesaggio, i cantieri forestali gestiti dalla Regione possono in molti casi considerarsi come dei veri e propri “gioielli”, compendi naturali di straordinaria bellezza, luoghi di interesse scientifico e naturalistico di crescente valore turistico.

Insomma, dai boschi sopravvissuti, come chiazze d’olio, si sono ingranditi i compendi forestali, la fertilità si è espansa, colonizzando altri terreni e riguadagnando spazio alla natura. I boschi sono “contagiosi”, trasformano i terreni circostanti privi di vegetazione in terreni fertili.

Boschi pubblici e privati oggi offrono ai visitatori motivi di grande interesse, a partire da quelli del Sulcis, la più grande foresta del Mediterraneo, rifugio del Cervo Sardo come del resto i Monti dei Settefratelli alle porte di Cagliari, per proseguire con i boschi dell’interno, tra cui spiccano quelli di Montarbu ricchissimo di specie floristiche, nel versante meridionale del massiccio del Gennargentu, e la foresta di Montes, nell’orgolese, cuore del mai nato Parco Nazionale del Gennargentu, che comprende peraltro il selvaggio Supramonte; nell’Oristanese stanno i boschi del Monte Arci, ricchi di ossidiana, l’oro nero della preistoria; e proseguendo verso nord quelli della dorsale centro-settentrionale dell’isola, del Goceano e del Marghine, poi ancora i compendi del Monte Lerno e del Monte Albo, per finire con la boscosa Gallura dominata dalla mole rimboschita del Monte Limbara.

Questi boschi, pur non potendo essere paragonati a quelli descritti dal La Marmora, dall’Angius e dagli altri viaggiatori dell’800, sono comunque spettacolari, offrono panorami grandiosi e motivi di grande interesse al visitatore, al naturalista, all’amante dello sport e dell’attività fisica all’aria aperta, al turista in cerca di refrigerio e contatto con la natura.

I boschi in Sardegna, oggi, superato il terzo millennio, superano per superficie i 500 mila ettari, ovvero costituiscono circa la metà del dato statistico riportato prima; l’altra metà è costituita da macchie degradate e garighe suscettive di ricostruire, in tempi non troppo lunghi, compendi boschivi.

Potremmo dire in fondo che, ciò che l’uomo ha distrutto nella realtà, ricostruisce nella carta: i vari criteri con cui vengono svolti i rilievi statistici, sia quelli relativi al concetto giuridico di bosco sia quelli dettati dall’Istat, comprendono anche le macchie mediterranee involute da fattori antropici.

Un milione e duecento ettari di bosco per la Sardegna è dunque, in realtà, un dato con molte luci ma anche con qualche ombra, in considerazione anche di un altro aspetto, relativo, in particolare, al triste abbandono dell’agricoltura e di conseguenza delle campagne.

Un fenomeno sociale che accomuna la Sardegna al resto dell’Italia, dove il bosco, nel giro di pochi decenni, è raddoppiato, riconquistando i terreni abbandonati con la macchia mediterranea.

Boschi e macchie che oggi vengono concepiti come luogo di contemplazione estetica ed estatica, dimenticando invece la loro utilità anche sociale, e l’importanza che un uso consapevole improntato sui moderni criteri della silvicoltura naturalistica potrebbe avere non solo nel turismo, ma anche nella produzione di prodotti tipici dell’agroalimentare. Non solo legna da ardere, quindi, ma anche castagne, noci, nocciole, ciliege, funghi, frutti di bosco, miele, orti biologici e tanti altri prodotti. Più delicato il discorso del paventato utilizzo dei residui legnosi per la produzione di energie, o attraverso il sottoprodotto noto con il nome di “pellet”, oppure con il conferimento del surplus legnoso, esiti della pulizia e delle cure culturali del bosco, in centrali a “biomasse”. In quest’ultimo caso, in particolare, fatti salvi i rimboschimenti artificiali giunti a termine del loro ciclo biologico (si pensi al pinus radiata piantato a suo tempo per la filiera della cartiera di Arbatax), occorre mettere la massima attenzione che la produzione di energia rinnovabile, che usufruisce di benefici pubblici, non si trasformi nell’ennesima speculazione depauperando il patrimonio boschivo.

Queste distese campestri abbandonate alla macchia sono forse il futuro dell’isola, una miniera vera e propria che attende il suo buon utilizzo. Una sorta di mondo di mezzo, di “terzo paesaggio”, per usare la fortunata espressione di Gil Clement, che non è bosco ma neppure campo coltivato, ma che tuttavia ha, nel corso dei decenni di abbandono, accumulato la fertilità necessaria per ricostruire un bosco ben curato o per coltivare prodotti biologici di qualità.

La modernità sembra trovare inutile il lavoro della campagna, oggi vista più come luogo di svago e di residenza che come territorio produttivo. Una sorta di separazione dei saperi ha reciso nettamente il destino degli uomini da quello dei territori, delle campagne, e dei boschi che lo circondano.

Una realtà virtuale che non corrisponde allo stato delle cose, perché anche se non sembra, gli esseri umani ancora dipendono per la propria sopravvivenza dalla natura e dai boschi che li attorniano.

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