Nella modernità, che Walter Benjamin definisce uno “stato di emergenza permanente”, la minaccia percepita è sempre più spesso raffigurata nell’altro, inteso come straniero, immigrato o clandestino, che cerca l’accesso alla nostra civilizzata e privilegiata “fortezza”.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che molto dipendono dallo stato di salute dell’economia e dalla tenuta del legame sociale.
Nel piccolo paese ogliastrino di Perdasdefogu (ex Foghesu) tali stati d’animo sembrano essere rari.
Da circa trecento anni, Perdasdefogu, infatti, riserva una giornata della “festa manna” di settembre ai forestieri, a “Is Istràngius”. Una giornata storica “Sa dì e sa Strangìa” come trecento anni fa l’aveva battezzata don Giovanni Corona, precursore di quelle forme di ospitalità che non si lasciano condizionare dal colore della pelle.
Le origini di questa festa dell’ospitalità risalgono ai primi decenni del diciottesimo secolo, allorchè Don Giovanni Corona, curato di questo villaggio povero e isolato del Marchesato di Quirra, ebbe modo di predicare e fissare le regole della buona accoglienza e dell’integrazione sociale. Tutto questo in un frangente storico in cui l’ostilità dei sardi nei confronti di chiunque sbarcasse dal Tirreno era particolarmente sentita e, nello specifico, forte era l’avversione nei confronti dei piemontesi.
Proprio in quei giorni, era l’11 settembre del 1730, pare si trovasse a Perdasdefogu un industriale piemontese, forse il Càndia, giunto in Ogliastra per fare incetta di leccio e olivastro, legni pregiati considerati, al pari del carbone, oro per la flotta dei Savoia.
Prima che il prezioso carico fosse trasferito nella penisola a bordo di brigantini e bastimenti, pronti a salpare dal porto di Arbatax, il Càndia, si ritrovò a passeggiare per le vie silenziose del piccolo villaggio. Stranito dalla totale assenza di anima viva, vide farglisi incontro Don Corona, il quale con fare amichevole gli spiega che in quel momento gli uomini erano impegnati a preparare gli arrosti per la festa di san Salvatore che si sarebbe celebrata il giorno successivo, le donne intente a ripulire le strade o indaffarate a portare i fiori nella parrocchia, mentre i bimbi, se li avesse voluti cercare, si sarebbe dovuto recare al fiume, dove li avrebbe sorpresi a tagliare le canne sulle quali poi, tradizionalmente, si sarebbero issati i panni colorati a forma di croce.
Don Corona a questo punto invita il Càndia a cena in canonica. L’indomani, avendo appreso dell’indignazione di alcuni per la cena consumata insieme “all’odiato straniero”, durante la messa nella chiesetta di campagna, approfittando di un antico detto del paese, dice in rima foghesina: “Prus unu esti stràngiu, prusu di depeus essi cumpangiu”, e cioè: “più uno è forestiero, più dobbiamo tenergli compagnia” e aggiunge “seus totus fradis, filgius de una matessi babbu. E chi capitaus nosu in logu algénu?”. “Siamo tutti fratelli, figli di uno stesso padre. E se ci trovassimo noi all’estero?”
Il piemontese ascolta commosso le parole del curato che aggiunge che proprio nei giorni di festa ospitare un forestiero deve diventare la regola, anzi, precisa “per su stràngiu, possiamo fare sempre sa dì’e sa strangìa”, battezzando attraverso queste semplici parole una festa laica di grande civiltà.
Il mito dell’ospitalità sarda basata sul rispetto e la cura del forestiero trova, dunque, in don Giovanni Corona un profeta e un precursore che non si limiterà ad esprimere il suo pensiero e la sua volontà a parole, ma provvederà a mettere nero su bianco la nascita della festa, in un documento che sarà conservato fino al 1865, anno in cui se ne perderanno le tracce, forse, a causa di un incendio in cui bruciò.
Una lezione di tolleranza e civismo, sa Strangìa, una tradizione rimasta come radicata nel dna dei foghesini, una festa in cui sacro e profano continuano a mescolarsi e che si rinnova ogni anno con partecipazione sempre crescente.
Il clou della festa scatta proprio la sera dell’11 settembre, quando si ha il piacere di ricevere gli ospiti considerati dai foghesini “gente di rispetto”. Nelle case fresche di tinteggiatura, gli ospiti, is stràngius, quelli che giungono da fuori, vengono accolti con tutti gli onori, cenano e dormono a casa degli amici foghesini, oggi nella stanza riservata agli ospiti, “la stanza buona”, ieri su una stuoia accanto al focolare, come nel 1800 le cronache raccontano facesse Don Giovanni Naitana che accoglieva in sacrestia i viandanti senza tetto e senza amici. Un gesto di rispetto che supera i confini dell’amicizia e se ieri gli ospiti erano soprattutto i pastori che dai paesi alle pendici del Gennargentu svernavano nell’altipiano del Cardiga, dal clima certamente più mite, oggi continuano ad arrivare da tutta la Sardegna e da tutta Italia come dall’estero, perché non è raro che gli immigrati portino con sé di rientro nell’isola un amico “stràngiu”.
Un’usanza semplice e civile, che nel tempo si è certamente evoluta in forme diverse, ma tanto più degna di nota in un’epoca, la nostra, che sembra sentirsi sempre più minacciata dall’arrivo degli immigrati; così densa di “passaggi”, di confini superati e ridisegnati, in cui la questione della pretesa centralità culturale del mondo Occidentale non può essere ulteriormente rimandata e va affrontata attraverso un vero dialogo tra culture.
L’ambivalenza del rapporto con lo straniero appare l’emblema stesso di quella contaminazione che è la cifra profonda di questo tempo.
In un mondo comunicante come il nostro non ci sono pareti stagne in grado di arrestare l’onda d’urto di quello che si preannuncia come un vero e proprio tsunami migratorio e ancora una volta lo straniero diventa il grande fantasma che riassume le mille paure provocate dalla globalizzazione stessa.
I fatti sono nuovi ma la questione è antica e deriva dal mondo greco e romano da cui proveniamo, in cui nascono e si originano quei valori e quei principi che ancora oggi adottiamo e professiamo.
Una questione antica quanto l’Occidente, dunque, e scritta a chiare lettere nel vocabolario delle grandi civiltà mediterranee che contiene parole che sono spesso sfumature della stessa questione, come a dire che il rapporto con l’altro che bussa alla nostra porta può oscillare tra un estremo ospitale e un estremo ostile. Ed è in questo modo che gli antichi sottolineavano la necessità dell’accoglienza, ma al tempo stesso non ne nascondevano la problematicità mostrando di sapere molto bene che tra l’accettazione incondizionata e il rifiuto altrettanto incondizionato si apre lo spazio dello scambio, della mediazione, dell’integrazione e della regolamentazione.
Termini come straniero, ospite, nemico, in origine, sono strettamente interconnessi tra loro e si riferiscono a questioni inestricabilmente intrecciate, sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. Pensiamo, ad esempio, alla parentela tra sostantivi, simboli, istituzioni che nel mondo greco e latino hanno a che fare con le incognite e i problemi legati al contatto con “l’altro”, o alla vitale necessità di tale contatto e dell’accoglienza.
In latino è uno stesso vocabolo, Hostis, a definire sia l’ospite, sia il nemico, sia lo straniero. Solo più tardi comparirà la parola Hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Ciò significa che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua stessa natura, come poc’anzi affermato, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato.
Anche l’ebraico, del resto, chiama Zar lo straniero e Sar il nemico, distinguendo entrambi dal Nokri, lo straniero di passaggio, e dal Gher, lo straniero residente.
Il greco Xenos, infine, prima ancora di significare forestiero, indica soprattutto l’ospite.
I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l’altro, un rapporto ricco di possibilità, come pure di insidie; fattore di crescita ma anche veicolo di contaminazione.
E’ il mito greco, nello specifico, a designare proprio col termine Epidemie, i rituali celebrati per l’arrivo degli dei stranieri, come Dioniso, simbolo della mobilità e del fermento vitale, considerato dai greci lo straniero per antonomasia, il dio che giunge da lontano, inatteso e sconosciuto, forse, perfino, sgradito: un dio epidemico, appunto.
Il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne sostiene che il termine epidemia in origine non apparterrebbe all’ambito e al vocabolario della medicina, ma a quello della religione arcaica dove, verosimilmente, sarebbe stato impiegato per indicare la manifestazione improvvisa di una persona ignota. Del resto Dioniso irrompe effettivamente nella vita dei greci come ospite inatteso, non invitato, portato dal mare su di un’imbarcazione di fortuna, la stessa che oggi chiameremmo una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le Epidemie, dionisiache, consistevano per lo più nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca era inizialmente respinta. Il rito si caricava perciò di una forte valenza dal significato socio-politico: drammatizzava sogni e incubi del cittadino greco, dal momento che rappresentava il pericolo e contestualmente la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione, o, come affermeremmo noi oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
Se lo sbarco di Dioniso era Epidemia, uno dei nomi di Venere, dea dell’amore e della fusione tra i corpi, era addirittura Pandemia, un nome che racchiudeva in sé tutta l’insidiosa doppiezza dello scambio; scambio che è contatto, evidentemente, ma anche contagio. Ambiguità, questa, impressa anche nella lingua italiana, che ancora usa termini come “venereo” per definire certe “conseguenze dell’amore”.
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, assieme ai suoi perigli. I pro e i contro della crescita economica e culturale, appunto.
Il mito greco riesce a farci comprendere e interpretare il nostro presente facendo emergere immediatamente una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, Ospitalità, Xenofobia, parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri, derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell’apertura all’altro. Apertura che è, tuttavia, indispensabile ora come allora, ma pur sempre a certe condizioni. Nemmeno i greci accoglievano chiunque e comunque e distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto o, per usare parole più attuali, del clandestino, dell’homeless, del sans-papier, dell’asylant.
In un mondo globalizzato, caratterizzato da un contatto sempre più ravvicinato di tutti con tutti, da un’incessante migrazione di uomini e cose, da un’interconnessione planetaria, si sviluppa, anche come anticorpo immaginario, una crescente paura dell’estraneo, di tutto ciò che arriva da lontano, di tutto quanto temiamo di non riconoscere e di non riuscire a comprendere, ed eventualmente a combattere.
In questo senso la paura dilagante di contaminazioni dall’esterno riflette la grande, insanabile, contraddizione di una civiltà che per poter funzionare in maniera ottimale, rende endemico quello stesso reale da cui tenta disperatamente di rendersi immune. Se il contagio dell’altro è, infatti, la ragione del nostro malessere, il contatto con l’altro è, al contrario, la ragione del nostro benessere. Inseparabili, come due gemelli siamesi, avverte Marino Niola: contatto e contagio, circolazione e infezione, sono le due anime del sistema mondo.
Lo straniero, afferma Edmond Jabès, ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. Parole queste in cui risuona l’eco di un dramma dell’erranza e della migrazione, costantemente amplificata dalle vicende di questo tempo in cui la paura degli stranieri monta impetuosa come un’onda periodica.
Il rapporto con lo straniero esprime sempre la tensione tra identità e diversità: l’identità del gruppo e la diversità dell’altro. Lo straniero indossa sempre la maschera del diverso, rappresenta l’alterità in tutti i suoi aspetti benefici e malefici, appartiene al mondo del sacro, è portatore di una potenza ignota e per questo doppiamente paurosa, ma anche attraente. Può essere trattato come un nemico e allontanato o ucciso, oppure può venire accolto con tutti gli onori di un dio.
Anche per questo motivo, Gerardus Van Der Leeuw, nella sua “Fenomenologia della religione”, ha potuto constatare che le guerre e l’ospitalità sono entrambe attività in un certo senso anche religiose, destinate a vincere la potenza dello straniero e a neutralizzarla.
L’atteggiamento nei confronti dello straniero dipende dal carattere più o meno marcatamente identitario e chiuso o aperto verso l’esterno di una cultura; dalla facoltà di una determinata civiltà di aprirsi all’esperienza dell’altro, dal desiderio di superare le proprie barriere identitarie per mescolare noi e gli altri, noi agli altri. In questo caso la curiosità prevale sull’ostilità e i riti di accoglienza prendono il posto dei riti di allontanamento.
Un ruolo importante nei riti di accoglienza e ospitalità è senza ombra di dubbio rappresentato dalla consumazione del cibo, ovvero dalla comunione e condivisione del pasto.
Chi tradizionalmente, nel passato, condivideva il pane, come pure il vino, con qualcuno diventava per così dire “compagno”; il cibo consumato collettivamente, diventava, in altre parole, un meccanismo di inclusione, di integrazione e di relazione tra autoctoni e “stranieri”.
L’idea di fondo è, dunque, la convivialità. “Mangia con me”, da semplice invito a condividere il cibo, fa si che l’atto nutrizionale divenga rito sociale, quindi occasione di scambio, di chiacchiera, di esperienza umana capace di “riscaldare” il rapporto, creare un vincolo, includere l’altro. “Mangia con me” ci invita a scegliere e sta a significare: “prendimi con te, fa’ di me un compagno della tua tavola”.
Anche a Perdasdefogu, durante la festa de Sa Strangìa è possibile assistere alla condivisione del cibo, in particolare di una tipologia di pane, su pani urci, il pane dolce, dalla pasta compatta e caramellata all’esterno, arricchito da semi d’anice, cannella, fiori di garofano, noce moscata e finocchietto selvatico, unico nel suo genere per via dei sapori mescolati sapientemente dalle mani delle donne foghesine che ogni anno riscoprono miti e riti antichi attorno ai più svariati valori simbolici, fissando anche un rapporto tra fede e panificazione. Un pane rituale, sacro e benedetto che non si vende; si dona a chi si ama e si rispetta, e meritevoli di rispetto sono considerati tutti coloro che a settembre accorrono a Sa Strangìa. Un rito di preparazione antichissimo che unisce sacro e profano, religione e paganesimo, preghiere e scongiuri e il cui punto di forza è rintracciabile nella distribuzione e condivisione dei pani. Nel mistero del pane urci è, infatti, il paese-comunità a mostrarsi e a dire attraverso l’offerta del pane ai forestieri: “il mio pane è il tuo pane, ciò che è tuo è nostro e vostro”.
Non si tratta più di bere o mangiare semplicemente qualcosa perché si ha sete o fame. “Mangia con me” è un invito che implica e presume la presenza, durante il pasto, di un “sistema”, di un insieme di gesti non casuali né occasionali, legati l’uno all’altro da un filo sottile e solidissimo.
Il cibo e il pasto, dunque, come segno eloquente di civiltà e dello stare insieme per uno scopo che non è semplicemente il “mangiare” secondo una modalità formale, in alcuni casi rituale, scandito da un ritmo con un inizio, una fine e delle regole che spesso definiamo di buona educazione. E’ cultura, o meglio, una culturizzazione della coscienza e del tempo storico. Antropologicamente è l’inizio del veramente umano, forse più della domesticazione, delle consuetudini scritte, delle stesse edificazioni urbane.
Senza pasto e senza condivisione di esso, consumato secondo un rito, verosimilmente, non ci sarebbe neppure l’uomo o meglio lo scambio simbolico tra esso e la comunità che lo ospita.
Offrire del cibo, invitare qualcuno alla nostra tavola, condividere con lui il nostro pasto è segno di ospitalità e non di ostilità Attiene a quelle forme di scambio simbolico che implicano in senso metaforico il deporre le armi, non considerare più l’altro hostis ma hospes.
Convivialità, dono, festa cerimonialità trovano la loro sintassi più esplicita nel pasto che accomuna, nelle memorie antiche che ritornano, nella tradizionale ospitalità, nelle regole che sottendono a un pasto consumato in comune. L’ospitalità, ci ricorda il filosofo Emmanuel Lévinas, è “il più straordinario ingegno educativo e sociologico che diverse culture hanno elaborato nei più disparati angoli del pianeta.” Essa ci invita ad aprire le porte all’altro per coltivare la nostra vita interiore, consentendoci di attingere ai suoi strati più profondi; e quando ciò avviene può perfino succedere che sia difficile distinguere una “nostra” cultura da una “loro” cultura.
Fonti
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Lévinas, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito, Roma, Città Nuova, 1984
Lévinas E., Alterità e trascendenza, Genova, Il Melangolo, 2006
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Staid A., I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Milano, Milieu Edizioni, 2014
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Von Nicole, Sa Strangìa – ein Fest für die Fremden, für Toleranz, 16 settembre 2015 in http://pecora-nera.eu/sa-strangia-ein-fest-fuer-die-fremden-fuer-toleranz/