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Una particolare tipologia di vendetta è quella che, silenziosa, subdola ed indomita si consuma nell’ambito familiare.

Il sentimento vendicativo, in questo particolare “habitat”, è spesso alimentato ed accompagnato dai sentimenti di invidia e di gelosia. In tante famiglie, il momento delle divisioni ereditarie si trasforma nell’anello centrale di un meccanismo distorto, per cui diviene pretesto per scatenare ripicche e regolamenti di conti, oppure il momento in cui il piano vendicativo può trovare massima espressione. Questo impulso primordiale trova terreno fertile in questo particolare momento della vita familiare, soprattutto quando i capostipiti non assumono a se la responsabilità della ripartizione dei beni.

Molte famiglie tramandano memorabili aneddoti sulle vicende di famiglia in cui la vendetta si manifesta in piccoli o grandi gesti. Spesso i racconti, dopo qualche passaggio nella tradizione orale, vengono amplificati nella loro teatralità o crudeltà, per portare acqua al proprio mulino, anche se a scapito dei fatti realmente accaduti che nel racconto passano in secondo piano rispetto alla capacità di riscatto e di rivincita delle parti coinvolte.

Quello familiare è anche l’ambiente dove attecchiscono le vendette sottili e soprattutto psicologiche fatte di piccoli dispetti, come non invitare i propri fratelli al matrimonio dei figli; di mancate disponibilità con frasi brevi e vaghe ma dall’effetto sicuro, come “Mi dispiace ma proprio non ho tempo”, che danno il loro risultato quando si scopre l’indaffarato in totale relax nel momento della disponibilità negata; di ricatti morali e affettivi, come quando nei casi di separazione non si consente all’altro genitore di vedere i figli. Tutte guerre sotterranee, che si combattono anche con l’interruzione di rapporti un tempo forti o con il semplice silenzio.

Il gesto vendicativo è vissuto anche come una sorta di riscatto agli occhi della “gente” della propria comunità di riferimento e, soprattutto, delle persone a vario titolo coinvolte, con un meccanismo in cui, nell’intento di placare la sete di rivalsa, il soggetto offeso si deve confrontare con l’interrogativo d’orgoglio: “Cosa ne sarebbe del mio onore e della mia rispettabilità se non gliela facessi pagare?…”

La vendetta è un meccanismo perverso che si autoalimenta e, dopo un percorso più o meno simile e più o meno lungo, può culminare nell’autoestinzione con due distinte ed antitetiche conclusioni. Il percorso comune è quello per cui le persone coinvolte restituiscono l’offesa ricevuta, con una successione di gesti subdoli o palesi, alla vittima della rivalsa con l’intento di ristabilire un equilibrio. Lo scambio di “cortesie” si autoalimenta in un circolo perverso in cui vittima e carnefice si scambiano di ruolo nel momento in cui il primo subisce il torto. La percezione del gesto ricevuto, valuta la gravità anche rispetto al tipo di orgoglio o sentimento stuzzicato e ferito: la riservatezza, la sfera economica, la rispettabilità agli occhi della comunità o degli affetti. Non sempre chi si vendica è pienamente consapevole degli effetti della sofferenza causata al destinatario.

Una prima tipologia di autoestinzione del perfido ricorso alla vendetta, sicuramente la peggiore e spesso la più drammatica, è quella che degenera in atti delinquenziali, che vanno dal graffiare la carrozzeria dell’auto, all’incendio di una casa, fino a sfociare nei delitti cruenti ed efferati di cui, troppo spesso, le pagine dei giornali ci raccontano e che, nei rari casi limite, ancora si verificano in alcune parti del Mediterraneo, proseguendo fino all’estinzione delle famiglie attraverso le vendette di sangue: le faide.

Nel secondo caso, l’autoestinzione che segue al straziante periodo di sfilacciamento dei rapporti umani tra i soggetti coinvolti, si realizza attraverso l’istituto del “perdono”, visto come unica strada per interrompere la spirale perversa di gesti che perpetuano reazioni che, a loro volta, generano altra sofferenza. Spesso, ad insinuare il germe del perdono finalizzato all’interruzione di questo meccanismo prolificamente malvagio, sono persone vicine ai protagonisti, sufficientemente distanti dai fatti accaduti, ma emotivamente coinvolte, come le nuove generazioni che hanno assistito alle tremende sofferenze dei propri cari inviperiti per il male ricevuto.

Le strategie ed i mezzi per mettere in atto azioni vendicative sono le più diverse. Quelle a breve termine o immediate, come le ripicche, oppure a “lunga conservazione”, secondo cui “la vendetta è un piatto da servire freddo”. Le vendette possono essere palesi e teatrali, oppure infime e capaci di affondare il coltello nell’anima del solo destinatario, costretto ad incassare il colpo in solitudine per non far trapelare l’offesa amplificandone gli effetti; possono colpire la persona o il patrimonio, l’individuo o una comunità più o meno ampia.

Il meccanismo della vendetta potrebbe essere così schematizzato: esistenza di un diritto vantato; elaborazione dell’offesa per il diritto leso; desiderio di vendetta; elaborazione del progetto vendicativo; attuazione del gesto; osservazione degli effetti con o senza appagamento; eventuali rimorsi di coscienza. Partendo dall’esistenza dei protagonisti, singoli o gruppi, il desiderio di rivalsa si origina nel momento in cui un protagonista ritiene leso un proprio diritto (o vantaggio acquisito o anche solo potenziale), che viene percepito come lesivo dell’immagine che di sé ha costruito e difende, per sé stesso o per rapportarsi alla società. Dall’offesa si genera il desiderio di ripagare con la stessa moneta, (o altra più cara), il torto subito o quello che si ritiene tale.

Dal momento in cui si percepisce di aver ricevuto l’offesa, a cui segue l’elaborazione del progetto di vendetta, alla sua attuazione possono trascorrere addirittura anni, come nel romanzo “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, in cui il protagonista ha elaborato un piano spietato e molto articolato; oppure, attraverso comportamenti istintivi possono trascorrere pochi istanti, saltando la fase di elaborazione del piano.

Il “gusto” della vendetta può avere anche il retrogusto della paura di esser scoperti, per cui spesso viene pensata per non venire scoperti da terzi e colpire solo il destinatario; in altri casi, vuole essere palese ed “ammirata”, quasi come vessillo di un potere raggiunto, un monito a chiunque volesse frapporsi tra i propri obiettivi ed il modo ritenuto più giusto per raggiungerli.

Vi è poi la parte finale in cui, portata a termine la rivalsa, il soggetto attivo osserva gli effetti causati dal suo piano, con o senza autocompiacimento e quasi mai con rimorsi di coscienza per gli effetti provocati, anche se devastanti a cui seguono frasi, quasi di giustificazione verso il mondo dal tono vagamente ipocrita del tipo: “in coscienza mi sento apposto” oppure dal piglio netto e spietato “la coscienza è morta!”

Il soggetto che subisce la vendetta, nel momento stesso in cui è colpito dal gesto, ha in mano l’anello decisivo della catena ed ha il potere di trasformarlo nell’ultimo anello attraverso il perdono, oppure in uno dei tanti anelli di una catena di lunghezza indefinita se invece decide di vendicare il torto, perpetuando un moto ciclico che produce sofferenza per sé e per le persone a lui vicine, il tutto senza fare tesoro di alcuni insegnamenti della saggezza popolare ben sintetizzata da Jean Monbourquette, il quale afferma che “Nella danza delle vendette è più facile subire che condurre il gioco”.

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