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Ricordi, realtà che resistono e si tramandano. “Lavoro” è la parola d’ordine, “felicità è un diritto” il naturale approdo. Per tutti gli uomini, in ogni epoca.

……”GOOD DAY SUNSHINE…GOOD DA”…
5:45 am Suona la sveglia. Nonostante le mille preoccupazioni durante la notte ha suonato. Ora sono sveglio. Credo.
6:00 am Davanti a una tazza di caffè. Stanco. In mezzo alla nebbia dei miei pensieri vedo solo un riflesso nel cucchiaino. “Sono io?” “Sto davvero per farlo!?” Si, andrà tutto bene. Sarà un successo.
6:30 am Troppo tempo per la colazione. Cerco il passaporto. C’è. Lo ricercherò ogni 3 minuti. Mi da sicurezza. Lo sto facendo. I bagagli sono in macchina.
7:00 am Cullato dal dondolio della macchina stavo per riaddormentarmi. Non ho chiuso occhio tutta la notte. Mi viene sonno solo ora. Spero di poter dormire in aereo e… Il passaporto, controllo. C’è. Come le altre 13 volte c’era. Usare il passaporto mi infastidisce. Sono Europeo. Posso entrare ovunque, a che serve!?!
9:30 am Sono in aereo. 30 minuti per i controlli di sicurezza. Assurdo. Ho sentito dire che sono inutili. Utili o meno, sono fastidiosi. 18 ore di volo davanti a me. Dormirò. Spero.

Davanti a me si espandono i sogni, le proiezioni. “Amo l’Italia ma… Amo il mio lavoro ma…” una volta arrivato svaniranno tutti i “Ma” non ci sarà più ne Italia ne lavoro. Farò fortuna.
Chissà come hanno fatto i miei nonni in Francia!? Ora il mio viaggio sembra risibile in confronto al loro. Uno sguardo su internet e puoi vedere le strade, i volti e i nomi che incontrerai. Tutto facile.
Loro partirono nel 1957.
In Francia, in uno stato ancora da ricostruire dopo l’ultimo conflitto mondiale i miei nonni, i signori Maxia, presero parte a un fenomeno tutto Italiano: l’immigrazione. Il flusso migratorio di metà ‘900 coinvolse principalmente le isole e il meridione. Il sistema politico liberal-borghese, infatti, spinse ciecamente per lo sviluppo del famoso triangolo nord-ovest, tralasciando il resto d’Italia.
Il flusso migratorio, inizialmente un fenomeno nazionale da nord a sud, presto divenne europeo e in seguito intercontinentale. Un fenomeno che coinvolse oltre 4 milioni di connazionali diretti in Francia dal 1876 al 1976.
La classe politica della giovane democrazia italiana non fece niente per limitare l’evento. E in alcuni casi spinsero la migrazione per ottenere, attraverso trattati commerciali, prezzi di favore dalle nazioni richiedenti manodopera a basso costo.
Fra questi i miei nonni. Il primo fu mio nonno Mariano. Partì con 7 compaesani. Prima il traghetto da Olbia verso Civitavecchia. Nel quale vide svanire lentamente la madre terra. Poi il treno da Roma a Milano. Li fece le visite mediche per richiedere il visto. “Les italiens”, controllati uno dopo l’altro. Prima il peso, poi i test medici. Come animali.
Da Milano furono portati a Saint Etienne. Un altro mondo. Un’altra emigrazione.
Accatastati nelle case popolari. Italiani, Spagnoli, Algerini, Marocchini… una lista che potrebbe continuare all’infinito.
In questa globalizzazione primitiva Mariano a testa bassa conquistò un suo ruolo, una sua identità. Arrivato a Saint Etienne gli chiesero quale fosse la sua occupazione “Bâtisseur” rispose. E lui, nato a Meana Sardo, aveva sempre vissuto come Servo pastore. Più che un lavoro, una sentenza per la vita.

Spinto dalla resilienza e tenacia che lo portarono fino in Francia, cercò di imparare un mestiere. Per anni tra un lavoro e l’altro per Don Ciccittu, un proprietario terriero locale, occupò i pochi momenti liberi come apprendista muratore; in francese “Bâtisseur”.
Mentre Mariano apprendeva l’arte, il fratello Peppino cercò di spingerlo verso la Francia. Lui arrivato di recente scriveva lettere piene di entusiasmo. La terra della cuccagna.
Mariano non si fidava: “Po’ gadangiai tocca a’ traballai” (“per guadagnare bisogna lavorare”), pensava ciò che in seguito divenne quasi il suo mantra.
Ma si fece convincere, e così dopo due anni di lontananza poté riabbracciare il fratello.
Da lì a Saint Etienne si spostò a Lione, gli promisero 50 franchi al mese. Uno stipendio incredibile. La sentenza per la vita era finita. Era possibile pensare al futuro.
Visse da solo per due anni, risparmiò ogni centesimo del suo duro lavoro. Nella sua mente c’erano soltanto lei: Anna, la lasciò che aveva appena 17 anni. La amava ma non poteva sposarla. Non aveva niente da offrirle.
In breve però riuscì a racimolare abbastanza da costruire una casa a Meana.
Quella piccola dimora nella quale vissero in seguito brevemente rappresentò per lui come una scintilla di orgoglio. Aveva qualcosa da donarle.

Era il 1960, si sposarono il 20 aprile. Non ebbero il tempo di festeggiare: erano già diretti in Francia.
Olbia, Civitavecchia, Roma e Milano. Tutte città volti, storie viste e lasciate passare. Tutto di un fiato. Un solo obiettivo: Lione.
Lì ad attenderli c’era la casa popolare:
Un edificio fatiscente con mura nere dalle cimici e appartamenti senza servizi igienici.
Il bagno comune nelle scale era anch’esso fatiscente: “Non c’era serratura, bisognava tenere la porta con un dito fuori per far capire che era occupato.” Ama raccontare divertita Anna. “Per farci il bagno bisognava andare ai bagni pubblici. Qualcosa di impossibile durante i giorni lavorativi. Per quelli vi era un catino in cucina.”
Queste difficoltà la spaventavano, il cielo torbido di Lione era lì come a rappresentare i dubbi e le incertezze che l’avvolsero in quel luogo. Nei primi 3 mesi perse quasi 20 kg.

Mariano, vide nei suoi occhi e parole le genuine preoccupazioni per la nuova consorte. Non sapendo come consolarla uscì da casa rassicurandola sul suo repentino rientro.
Tornato le diede la sua busta paga dicendo “Questo è quanto ho. Fanne buon uso”
Da lì lei divenne il contabile della famiglia. Spaccando ogni centesimo con in testa un solo obiettivo: fare fortuna per poter tornare in Sardegna.
All’epoca il fenomeno migratorio rappresentava più un sacrificio da fare per poter dare un futuro alla propria famiglia. Più della metà dei nostri connazionali partiti in Europa durante gli anni ’50 e ’60 fecero, in seguito, ritorno in patria. Con loro i miei nonni.

Le prime spese furono atroci per Mariano, abituato come era a risparmiare su tutto, non faceva che ripetere in continuazione “Anna, sei sicura non sia troppo?”. Prima dell’arrivo della consorte si arrangiava alla meno peggio. Essere immigrato da solo, all’epoca rappresentava quasi un viaggio all’interno di un convento di clausura. Spesso le mortificazioni sensoriali; cibo poco e scadente, letti sudici e stanze in rovina avevano una semplice ragione che oggi ci appare ovvia, parte dei diritti di ogni persona: il poter sognare un futuro.
I giorni seguiti uno dall’altro si fecero mesi, e Anna comprese presto che l’unico modo per poter farsi strada in quella nuova spaventosa realtà era quello di apprendere il prima possibile la lingua.
L’integrazione non era una scelta bensì una necessità.
Sotto casa vi era un bar italiano. Lì per imparare il francese Anna spese 3 mesi aiutando e districandosi fra i doveri domestici e il lavoro. Non vi era una paga. Sapere la lingua era più importante dei soldi.
La proprietaria del bar ripeteva in continuazione :“Non dobbiamo parlare italiano, non devono sapere che siamo italiani”.
Mia nonna non comprese mai quel sentimento di vergogna per la propria nazionalità. Per lei le sue origini erano un motivo di orgoglio, non di sconforto.
“Integrarsi non significa cambiare chi tu sia. Bensì fare in modo che venga accettato e apprezzato dagli altri” ama ancora ripetere.
Presto venne una difficile prova per la sua dignità patriottica. Nacque mia madre, all’epoca lo stato francese offriva sovvenzioni e aiuti per crescere l’infante. Tutto a un prezzo. Il neonato doveva essere dichiarato “Francese”. Lei si rifiutò di “farla francese”, come ricorda ancora con orgoglio.
Una scelta che oggi molti immigrati vorrebbero poter compiere in Italia. Magari per poter rendere i propri figli “italiani”, garantendo loro un futuro migliore e, in una nazione in cui l’età media in continuo aumento rappresenta un problema, forse anche regalando noi un domani come nazione.

Nonostante la scelta di continuare a essere Italiani, l’impegno per inserirsi in quella nuova cultura non venne meno.
Anna, nata a Serri e arrivata frettolosamente a Lione, dopo i tre mesi di “studio” del francese decise che era arrivato il momento di emanciparsi. Quel ruolo di massaia le stava stretto.
Grazie ad un’amica trovò lavoro come stiratrice per un’azienda tessile. Un lavoro che ancora oggi ricorda come estenuante e mortificante. “Testa bassa e poche chiacchiere”. Il datore di lavoro presto riconobbe tra le lavoratrici l’importanza di Anna, la quale, oltre lavorare dalle 6 alle 15, tornava a casa e si occupava di far quadrare i conti tra le mura di casa. Soprattutto in cucina, grazie alla scienza del Quinto quarto, una tradizione italiana che oggi appare lontana e dimenticata.

Fu questa la chiave per il successo assieme all’abilità nella lingua.
“Sapere il francese fu una benedizione”. Promossa alla linea di produzione fece amicizia con le prime francesi. La presero in simpatia e la indirizzarono in quel labirinto di regole e burocrazia aliena che può essere un nuovo stato.
Grazie a loro trovarono una casa da comprare. 1500 franchi.
Mariano lavorò duramente per ristrutturarla. Per mesi non ebbe un giorno libero. Tutto quel lavoro, tutti quei sacrifici furono premiati dall’ottenere un bagno in casa.
“Era una reggia” ama ancora definirla.
Ma quella terra continuava a pesare nel cuore di Anna. “Guardavo la strada sotto casa e mi domandavo se, in qualche modo, potesse portarmi indietro a Serri”.
Con la resilienza che li contraddistinse continuarono a lavorare. 7 giorni su 7 in molti casi. Tanti sacrifici e tanto impegno per integrarsi nella nuova nazione. A casa si doveva parlare francese. Mia madre Paola non imparò mai nei primi anni di vita l’italiano.

Con il successo e la nuova casa iniziarono a esserci le prime soddisfazioni, ma con queste anche le invidie dei conterranei. “Il meanese è geloso. E osserva con invidia ogni centimetro conquistato da un suo pari.”
Nacque il secondo figlio Silvano. Anche lui nacque italiano.
Nonostante la bella casa e la famiglia i dubbi su quella nazione restavano tanti. La sentivano come un bel paio di scarpe strette. Amavano indossarle ma iniziavano a fare male.
Si insinuò un pensiero tra di loro: forse con i soldi guadagnati potevano desiderare un futuro pure in Sardegna. A Cagliari.
Tutto avvenne di fretta. In due mesi decisero di partire.
Vendettero la casa e spedirono i mobili. E dopo più di dieci anni di vita in Francia tornarono nella terra natia. Era il 1969.

Le recenti migrazioni ci pongono davanti allo stesso problema da una prospettiva diametralmente opposta. Come italiani pretendiamo che arrivati all’estero ci si debba onore e rispetto per una semplice parola sul passaporto, dimenticandoci di tutto il sudore che hanno versato i nostri connazionali per essere rispettati come lavoratori all’estero.
Allo stesso tempo sembriamo non vedere le fatiche di tanti immigrati in Italia. Persone che lavorano 14 ore al giorno quasi tutti i giorni, come i nostri connazionali negli anni ’50, a cui non vogliamo dare alcun diritto. Anzi, non vogliamo proprio che abbiano la possibilità di entrare.
Noi popolo di migranti contro i migranti.
Solo attraverso le storie dei nostri amici, parenti e conoscenti possiamo ricordarci chi realmente siamo. Ascoltarli rappresenta un obbligo non solo per noi in quanto persone ma un dovere come nazione.

Mia nonna prima che partissi mi ricordò la sua storia e mi disse: “Tutti i sacrifici che abbiamo fatto in Francia per poter dare ai nostri figli e ai nostri nipoti un futuro. E ora quel futuro dovete di nuovo andare all’estero a conquistarlo.”

Apro gli occhi. Sono arrivato. Farò fortuna, come i miei nonni.