Il mito della bellezza
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La favola di Biancaneve è nota a tutti: la matrigna cattiva cerca di eliminare fisicamente la sua rivale ritenuta, dallo specchio magico, la più bella del reame.
L’invidia suscitata dalla bellezza altrui – benché la favola dei fratelli Grimm sia stata pubblicata nell’Ottocento – è un fenomeno di estrema attualità anche se con un risvolto ovviamente diverso: il pedissequo tentativo di emulazione, con tutte le conseguenze negative che esso comporta.

Il sistema economico contemporaneo mostra un’incredibile abilità nel pilotare i desideri delle persone e delle donne in particolare, tant’è che le industrie cosmetiche, la chirurgia estetica e i guru delle diete sembrano immuni alla crisi. Il rapporto annuale dell’UNIPRO – Associazione Italiana delle Imprese Cosmetiche – relativo al 2016, ha infatti dichiarato oltre 10,5 milioni di fatturato, con un incremento del 5,3% rispetto all’anno precedente. Questi dati ci confermano che, seppure ancora avvolti nella nube nera della crisi economica, le persone non rinunciano alle cure estetiche. Ma occorre domandarsi da cosa scaturisca tanta attenzione verso il proprio corpo.

Nel 1991 la scrittrice Naomi Wolf nel suo saggio Il mito della bellezza mette in luce gli effetti negativi della proposta continua di modelli di bellezza inverosimili e irraggiungibili. Secondo la Wolf il fine ultimo sarebbe, ancora una volta, la discriminazione nei confronti delle donne – se si vuole andare avanti nella vita e nel lavoro occorre essere belle – e nel contempo il foraggiamento economico delle industrie cosmetiche e delle diete. Dopo le lotte femministe, sostiene la Wolf, le scelte politiche ed economiche hanno trovato nuovi strumenti per imprigionare le donne.
Se le posizioni della scrittrice sono da alcuni considerate esagerate, è pur vero che gli effetti negativi dei modelli che i mass media continuano a proporci sono incredibilmente reali e pericolosi; basti pensare a disfunzioni alimentari come l’anoressia, derivante dalla profonda incapacità di vedere il proprio corpo per come è e non per come dovrebbe essere secondo canoni estetici che non hanno fondamento alcuno se non il puro interesse economico delle lobby in alcuni settori chiave. Anche l’industria dell’abbigliamento si è adeguata ai nuovi modelli: negli anni le taglie si sono progressivamente ridotte e per vestire le rotondità – e non mi riferisco a obesità gravi – occorre spesso andare in negozi specializzati. La ghettizzazione delle formose, anche nel vestiario, instilla ulteriori insicurezze e senso di inadeguatezza rispetto alla società che ci circonda e mentre le donne si affannano a inseguire un mito di bellezza costruito a tavolino dai poteri forti, tolgono tempo prezioso al miglioramento della propria condizione.

Il business delle diete viene costantemente alimentato da nuovi guru che spacciano i loro rimedi come la panacea al grasso imperante, provocando talvolta danni irreparabili con consigli alimentari sbagliati e squilibrati. A questo fenomeno se n’è aggiunto un altro, in anni recenti: la diffusione dei cosiddetti coach alimentari, nutrizionisti improvvisati e alternativi privi di un titolo di studio adeguato e quindi di competenze nel settore. Si tratta quasi sempre di giovani ragazze assoldate dalle multinazionali dei prodotti dietetici dopo aver provato, su di loro, l’efficacia degli stessi. Si può presumere che sia il miglioramento delle abitudini di vita a incidere sulla diminuzione del peso, a prescindere dai prodotti dietetici assunti. Introdurre meno calorie e praticare attività sportiva funzionano già da soli, quindi è lecito domandarsi quale ruolo possano avere i preparati ipocalorici, a parte quello di alleggerire sensibilmente le finanze di chi li acquista. È pur vero che le coach non si limitano alla vendita dei prodotti ma supportano le loro clienti nel loro processo di dimagrimento, con una comunicazione costante e una spinta emotiva che dà loro la forza per andare avanti nel percorso. Rimane il nodoso problema della mancanza di preparazione di base, che non può essere certamente sostituita dai corsi tenuti dalle stesse multinazionali, finalizzati prevalentemente alla vendita. Lo dimostrano le continue richieste di amicizia su Facebook, il canale prediletto dalle coach per mostrare foto di clienti prima e dopo il percorso di dimagrimento, con post che invitano a scoprire di più contattando direttamente chi gestisce la pagina. Nei post non si fa mai riferimento all’azienda e ai prodotti, si fa leva solo ed esclusivamente sul desiderio delle persone in sovrappeso di essere magre. Una chiara strategia di marketing che agisce sul bisogno – o che ne crea uno –, prima ancora che su ciò che si vuole vendere.

Il senso di inadeguatezza derivante dal sovrappeso è oggi più che mai sentito non solo perché il falso mito della bellezza viene riproposto in maniera assillante, ma anche perché l’opulenta società odierna spiana la strada all’obesità: dal fast food, generalmente a buon mercato e di scarsa qualità, al junk food a cui si viene iniziati fin dalla tenera età, l’industria alimentare causa il male a cui altri settori fingono di porre rimedio.

Il fine ultimo non è però mai il benessere fisico e psichico delle persone, ma solo il loro adeguamento ai canoni delle riviste patinate, del cinema e dello show business, dove le modelle sono esseri imperfetti, come è normale che sia, a cui Photoshop toglie i difetti.
E in questa folle corsa a giovinezza e bellezza eterne la chirurgia estetica rappresenta un altro importante business. Secondo la Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica in Italia sono sessantamila ogni anno gli interventi di liposuzione in varie parti del corpo e venticinquemila quelli di inserimento di protesi mammarie, per lo più richiesti da giovanissime. Anche la fragilità dei rapporti di coppia spinge le donne a volersi sentire sempre desiderabili, non solo dal proprio compagno ma in generale. Se un tempo, infatti, il matrimonio era per tutta la vita – seppure talvolta nell’infelicità – oggi i rapporti duraturi sono sempre più rari e per le donne diviene importante continuare ad essere competitive dal punto di vista estetico e questa insicurezza si aggiunge a quella fomentata dal mito dell’apparire, da cui nessuna donna è immune.

Fin da bambine ci vengono propinati modelli sbagliati; persino nelle favole, che tanta importanza hanno nell’infanzia, la protagonista è sempre indiscutibilmente bella. Basti pensare, oltre a Biancaneve la cui bellezza è all’origine dello scontro, alla Bella Addormentata nel Bosco, che bella lo è per definizione, o nel cinema per bambini al film La bella e la bestia in cui il messaggio positivo di Belle – bella di nome e di fatto – che si innamora della bestia, allontanandosi quindi dal modello di bellezza imperante, alla fine ripiega su se stesso perché la bestia in realtà è un bellissimo principe vittima di un incantesimo.
E come non considerare la bambola che tutte le bambine desiderano, ossia la Barbie? Bionda, snella, occhi azzurri, perfetta nella sua anima di plastica. Non per niente l’intervento chirurgico maggiormente richiesto dalle giovani donne orientali è il mutamento dei lineamenti verso una progressiva occidentalizzazione. Si potrebbe dire che da noi succede il contrario perché con i continui stiramenti della pelle del viso per appianare le rughe, gli occhi diventano invece sempre più a mandorla.

Il benessere fisico e psichico cui ogni persona dovrebbe tendere non può e non deve risiedere nell’inseguimento di una bellezza inconsistente e surreale. E mentre si rincorre un sogno di perfezione irraggiungibile, con conseguente aumento del senso di frustrazione, non ci si preoccupa affatto di alimentare a dovere le uniche parti che rendono le persone oggettivamente belle: un cuore capace di amare gli altri e se stessi, un cervello per non cadere vittima dei tranelli di una società priva di scrupoli e un’anima per essere sempre in grado di sognare e di guardare il mondo oltre ogni apparenza.

Fonti:
Naomi Wolf, The beauty mith – How images of beauty are used against women, 1991.
www.frequenzedigenere.wordpress.com
www.rivistapaginauno.it
www.unipro.org

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