Hospes
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Straniero, se tu passando mi incontri
e desideri parlare con me,
perché non dovresti parlarmi?
E perché io non dovrei parlare con te?
Walt Whitman

Il termine ospite ha origini lontane e indica colui che sostenta o nutre i forestieri. Essa deriva infatti dalla radice hos/host ovvero «straniero, pellegrino, forestiero» e dalla radice pa, cioè «sostenere, proteggere». Quest’accezione che identifica l’ospite come colui che offre ospitalità esiste ancora oggi, anche se nell’uso comune viene indicato come ospite solo colui che viene ospitato. Probabilmente è un segno dei tempi, ovvero della progressiva incapacità dell’uomo di essere davvero aperto verso il prossimo, soprattutto se non appartiene alla propria etnia o gruppo sociale.

Questa incapacità appare in netta contraddizione con i vorticosi cambiamenti sul piano economico e culturale a cui assistiamo quotidianamente. Parliamo di frontiere aperte, di globalizzazione, ma sembra che questi fenomeni siano legati solamente a un ambito commerciale. Mangiamo cibo cinese ma ci guardiamo bene dallo stringere rapporti con chi li prepara, e d’altro canto anche la loro comunità non sembra particolarmente aperta verso il Paese che li “ospita”.

La storia ci offre grandi esempi di ospitalità, basti pensare alla xenia nell’antica Grecia, quando l’ospite era considerato sacro, ma ci mostra anche il suo esatto contrario: abbiamo assistito e ancora lo facciamo oggi, a fenomeni di totale rifiuto del prossimo. La cacciata e la persecuzione degli Ebrei, che oggi conosce anche il rovescio della medaglia in nome di una terra promessa in cui la contemporanea presenza di israeliani e palestinesi non è pensabile; il muro di Berlino, invalicabile se non a prezzo della propria vita. Oggi tutti i Paesi del mondo parlano di pace e accoglienza, ma la Terra è una polveriera pronta a esplodere; se invece pensiamo alla realtà a noi più vicina, il nostro popolo ha conosciuto l’emigrazione di massa ma poi respinge i profughi africani abbandonandoli al loro destino.

Proprio il nostro Paese è sempre stato considerato accogliente e ospitale, ma oggi questa definizione sembra riferirsi più al clima che all’atteggiamento delle persone. Ci sono famiglie originarie di altri luoghi che vivono nel nostro Paese da decenni, che lavorano, pagano le tasse e contribuiscono all’economia nazionale. Hanno figli nati in Italia mentre intorno a loro sorgono lotte intestine per decidere se concedergli o meno la cittadinanza. Continuiamo a chiamarli “stranieri” e “immigrati” con accezione negativa e se un italiano commette un reato non specifichiamo la sua nazionalità o il colore della sua pelle, ma i giornali ci tengono a sottolineare l’etnia aliena se a delinquere non è “uno dei nostri”, come se lo stesso reato avesse un peso diverso.

Questa mancanza di apertura verso gli altri, soprattutto nella patria del Cattolicesimo, è quantomeno assurda e anacronistica. Siamo diventati viziosi, corrotti nell’animo e non solo, indolenti ed egoisti. Ci sono ovviamente tantissime eccezioni, persone che si sacrificano quotidianamente per rendere più gradevole il soggiorno nel nostro Paese di genti spesso meno fortunate di noi, ma in generale il nostro proverbiale buon cuore sembra essersi impigrito.

E sempre più diventa una guerra tra poveri. Forse abbiamo smesso di essere ospitali perché pensiamo che gli stranieri vengano nel nostro Paese a rubarci quel misero lavoro in nero e la baracca in cui locatori privi di scrupoli li costringono a vivere imponendo loro dei prezzi assurdi.

O forse confondiamo l’ospitalità con l’offrire sontuosi pranzi ad amici e parenti che vengono a trovarci. Ma si può essere accoglienti e ospitali a metà? E magari cedere l’altra metà di noi stessi a sentimenti negativi e di rifiuto verso chi ci tende la mano solo perché è di un colore diverso o perché indossa uno chador o un turbante?

Questa realtà è tangibile come non mai, eppure viviamo nell’era della massima condivisione. Le nostre bacheche di facebook sono un grande esempio di ospitalità: abbiamo centinaia di contatti, connazionali e stranieri, e gli offriamo una parte del nostro spazio per i loro commenti e le loro condivisioni; siamo blogger e pubblichiamo le nostre opinioni nell’open space del web; leggiamo notizie provenienti da tutto il mondo e ci scambiamo informazioni senza discriminazione alcuna. Questo significa che una comunità estesa, multietnica, può esistere solo nel mondo virtuale? E che dire dei viaggi intrapresi in ogni epoca da persone vogliose di conoscere e confrontarsi con altri popoli e culture? Fino a non tantissimi anni fa chi arrivava in un Paese straniero era un viandante, un viaggiatore, un pellegrino intento a raggiungere una meta importante e comunque era sempre ben accetto. Oggi classifichiamo chi arriva da fuori in turisti e immigrati. I primi vengono talvolta raggirati da ristoratori e venditori di souvenir privi di scrupoli; i secondi vengono isolati finché si può perché visti come “invasori”, vittime di un’ospitalità tradita nella sua essenza.

Eppure proprio noi italiani, come tanti altri, stiamo diventando una minoranza etnica e la chiusura che imponiamo a coloro che consideriamo “diversi” finirà col diventare la nostra stessa prigione.

Dovremmo sempre tenere a mente che non abbiamo mai smesso di essere un popolo di migranti e che ogni volta che lasciamo la nostra terra lo facciamo con la stessa speranza di chi viene da noi, ossia quella di trovare un ospite pronto ad accoglierci.

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