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Ma la terra
con cui hai diviso il freddo
mai più

potrai fare a meno di amarla.

Vladimir Majakovskij

Essere terreni è la nostra condizione biologica, concreta e definita. Essere in relazione con la terra, invece, è un lavoro continuo di riconciliazione. Per recuperare questo rapporto, perduto nello sviluppo della vita urbana, si alternano nella loro ricerca: filosofi, sociologi, psichiatri e poeti.

L’esigenza di rivivere la ruralità, la natura nella sua espressione più selvaggia, è forse dettata dalla volontà di ritrovare la parte spontanea e sincera di noi stessi, quella più sana. Immergere le mani nella terra, sentirne la consistenza e l’odore fa si che il corpo viva un’altra dimensione. Si allontana quella sociale, ingessata da secoli di regole formalizzate dalle comunità. Immersi nella natura si respira finalmente liberi da ogni pre-occupazione.

La poetica della natura

Nelle sterminate pianure americane la poesia di Walt Withman diventa grande. Foglie d’erba è forse per i nord americani l’opera che unisce tutta la nazione, una dichiarazione d’amore alla natura a cui lo scrittore dedicò tutta la vita, opera che è diventata universale.

Io sono innamorato di quanto cresce all’aperto,

della gente che vive tra il bestiame, che sa d’oceano o di boschi».

«O buoi che fate tintinnare il giogo e le catene, o v’attardate,

in un’ombra di foglie, che mai esprimete con i vostri occhi?

Mi pare valga assai più d’ogni pagina a stampa, che abbia

mai letto in vita mia».

(W. Whitman, Il canto di me stesso, Foglie d’erba)

La Natura, per lui, aveva un potere vitale, curativo. «Tu possiedi, Natura, elementi, parole, che per il mio cuore/superano ogni altra». Uomo e Natura fanno parte di un orizzonte sconosciuto: «c’è sempre qualcosa – non so dire che cosa sia, la storia non ne descrive che i risultati – paragonabile all’indescrivibile espressione di certi visi umani. Anche la natura, nelle sue forme, ne è pregna, ma per i più rimane un segreto» (W. Whitman, Visioni democratiche).

La poesia che diventa prosa inaugura una fortunata scuola di scrittura, e anche una certa idea di mondo. Duecento anni dopo Franco Arminio, il poeta italiano più innamorato della ruralità, fondando il suo movimento “paesologia”, sembra seguirlo da vicino:

Curarsi con la bocca,
con gli occhi,
curarsi con il cielo,
accordare il cuore
con le foglie
con le formiche.
Curarsi
con la preghiera,
leggendo poesie,
curarsi col sole,
col vento,
prendere la medicina
dell’alba
lo sciroppo della lingua.
Tornare agli occhi,
allo sguardo,
il tuo sguardo salvavita.

Franco Arminio, Il tuo sguardo salvavita, tratto da Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere editore

Il ritorno alla terra porta sempre buoni frutti, parafrasando un famoso slogan pubblicitario. La poesia ha il potere germogliare in ogni lettore una sua visione della natura. La poesia soddisfa, in mancanza di esperienza diretta, la necessità di spazi aperti, una prospettiva negata dalla città. Per Arminio immergersi nella paesitudine può avere l’effetto di un sano innamoramento:

“Abbiamo bisogno di contadini,

di poeti, gente che sa fare il pane,

che ama gli alberi e riconosce il vento.

Più che l’anno della crescita,

ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.

Attenzione a chi cade, al sole che nasce

e che muore, ai ragazzi che crescono,

attenzione anche a un semplice lampione,

a un muro scrostato.

Oggi essere rivoluzionari significa togliere

più che aggiungere, rallentare più che accelerare,

significa dare valore al silenzio, alla luce,

alla fragilità, alla dolcezza.”“La prima volta non fu quando ci spogliammo

ma qualche giorno prima,

mentre parlavi sotto un albero.

Sentivo zone lontane del mio corpo

che tornavano a casa.”

La poesia della natura cura l’apatia della nostra epoca, l’allontanamento dalla parte migliore di noi stessi, quella legata alle sensazioni e alle emozioni, da cui dipendono la salute fisica e psicologica. Naturalmente è un invito a vivere la natura, rispettandola e accudendola come faremmo con le persone amate.

Poesia e psichiatria

La natura, in particolare l’agricoltura, è sempre stata considerata la migliore terapia per molte patologie. Malattie fisiche, ma soprattutto malattie della mente. Per Walt Withman era importante superare la forma, trasformare le regole ferree della metrica in prosa popolare. Allo stesso modo, chi si occupava di malattia mentale voleva superare il metodo “normalizzante” dei manicomi. La poesia e la psichiatria sono due ambiti molto diversi, ma l’obiettivo è lo stesso: fidarsi della natura. Per entrambi in qualche modo era importante rompere la forma sociale dettata dall’illuminismo, quell’utopia che progetta una società perfettamente razionale dove tutti dovevano raggiungere gli stessi parametri dettati dalla scienza. Chi non raggiungeva gli standard decisi dalla rivoluzione scientista doveva essere corretto, curato in appositi centri, nel caso delle malattie mentali. Tutto questo rivelava però un errore di fondo: il metodo positivista non poteva spiegare e soddisfare ogni ambito della vita dell’uomo. C’è un’evoluzione naturale che deve rispettare l’individualità, l’interezza della persona, nel Settecento come ai giorni nostri.

Relazione tra malattia mentale e industrializzazione

Lo sviluppo delle città determinò, e determina ancora oggi, un lento e progressivo abbandono delle campagne. Una trasformazione culturale e antropologica, una mutazione radicale dei ritmi di vita, prima affidati a quelli della natura. I malati mentali, prima della rivoluzione industriale, venivano accuditi in casa, coinvolti nelle attività agricole e domestiche trovando nelle stesse una ragione di vita. L’attività fisica a contatto con la natura, seguire tutte le fasi dell’attività agricola, partecipare al raccolto e vivere insieme ad una comunità, consisteva di per se in una terapia di straordinaria efficacia. Il trasferimento in massa dei contadini, con il loro impiego nel lavoro industriale, fece registrare nelle città un notevole incremento di persone affette da disturbi mentali. I ritmi di vita, profondamente diversi da quelli del lavoro dei campi, causavano diversi disturbi e forme di straniamento nei nuovi abitanti. La nuova organizzazione sociale non includeva spazi e tempi in grado di includere nel contesto sociale le persone affette da disturbi mentali, la società doveva essere pronta, nella sua totalità, alla produzione e al progresso. Così erano in molti a varcare i cancelli degli spaventosi cronicari dell’epoca ed a rimanervi reclusi e incatenati per il resto della loro vita.

Rifiuto del manicomio come struttura correttiva

Samuel Tuke fonda nel 1796 il Ritiro di York in Inghilterra. Tuke faceva parte della Società dei Quaccheri, un’aggregazione religiosa che fin dal 1649 si era occupata degli infermi di mente. Il Ritiro era una casa di campagna dove gli infermi mentali avevano la possibilità di vivere all’aria aperta e coltivare orti e giardini in contatto con il mondo esterno, ricavandone indubbi benefici per le proprie condizioni di salute. Un metodo in controtendenza alle politiche di reclusione dei malati, che da li a poco si sarebbero sviluppate in tutta Europa.

Il manicomio in Europa diventa istituzione totale nelle prima metà del XIX secolo, trovando una ampia approvazione scientifica e sociale. Sicurezza che però cade negli anni cinquanta dello stesso secolo, per la progressiva coscienza delle condizioni disumane dei reclusi, e la fallacia della dimostrazione scientifica: il manicomio non curava. Vasti strati di opinione pubblica si mobilitarono per la chiusura del manicomio, denunciando il carattere repressivo del sistema, soprattutto in Francia e Germania. Si arrivò a dire che i manicomi furono il più grande errore dei tempi moderni. Wilhelm Griesinger fu uno degli scienziati che più si adoperò in quel periodo per modificare radicalmente il metodo di cura della malattia mentale (si perché per lui esisteva un’unica malattia che poi si diversificava in varie patologie, teorizzò per primo il legame tra danni cerebrali e malattia). Sostenne che la differenza tra manicomi buoni o cattivi era superata, “non era la specifica struttura spazio-temporale, il manicomio, capace di operare come principale agente terapeutico, ma al contrario qualsiasi sito, grazie all’opera di un buon medico, poteva diventare un luogo di cura”.

Le colonie agricole come alternativa

Nel 1866 Griesinger si recò in visita presso la colonia agricola di Gheel (un villaggio del Belgio centrale), dove gli ammalati erano ospitati nelle case degli abitanti del villaggio. La visita colpì profondamente Griesinger, che legò strettamente la sua ipotesi di un percorso di “liberazione” dei malati cronici a programmi di “colonizzazione”, come veniva chiamato l’affido dei malati a famiglie di contadini o la loro collocazione in fattorie.

Il suo obiettivo sembrava essere quello di abbattere i muri carcerari dei manicomi per tornare alla natura, risolvere il problema dell’aumento dei malati cronici delle aree urbane recuperando i valori della vita all’aria aperta, del rapporto libero con la natura, del lavoro terapeutico per antonomasia: quello agricolo. Ma nonostante la sua instancabile opera di convincimento a livello politico del nuovo metodo, ci furono solo una serie di sperimentazioni in alcuni paesi.


In Italia, solo agli inizi del Novecento, si promulgò la legge Giolitti che formalizzava il metodo manicomiale. Una legge già fuori tempo massimo, che non teneva conto delle recenti scoperte in ambito scientifico. Bisognerà aspettare la riforma di Franco Basaglia (1978), per vedere finalmente chiusi i manicomi, e orientare le cure in altre direzioni. Considerare il malato come una persona capace di guarire, restituendogli diritti civili e sociali. Il principio che fonda la legge non ha più come obiettivo la “normalizzazione” dell’alienato, come nei progetti riformatori ottocenteschi che seguivano l’utopia positivista, ma il diritto alla “risposta al bisogno”. La persona deve vivere nel territorio, seguito dai servizi sociali, di cui fanno parte anche le fattorie sociali, spazio di vita ed attività da privilegiare per le persone con disabilità mentali.

Oggi queste intuizioni sono diventate una prassi, soprattutto negli Stati Uniti. Il paradigma in campo medico negli ultimi anni è cambiato, ad iniziare dal linguaggio (che è sempre lo specchio della società) all’azione: dal verbo “to cure” a “to care”. Dalla cura, come momento definitivo e imperativo, al prendersi cura come azione in continua maturazione, in continuo dialogo con il paziente, compreso il dialogo con se stessi.

A questo proposito, il prendersi cura del paziente si può trasferire nell’azione che il paziente può compiere con la natura che lo circonda. Prendersi cura delle piante equivale al prendersi cura di se stessi.

Le funzioni terapeutiche e riabilitative dell’agricoltura moderna, sono state studiate e messe in pratica già dagli anni trenta del Novecento. In alcuni paesi anglosassoni si sviluppa nel primo dopoguerra una vera disciplina curativa, che univa le competenze mediche a quelle botaniche: l’Horticultural Theraphy, e poi tradotta in Italia recentemente con “Terapia assistita dalle piante”. C’è quindi una evidenza empirica, dimostrata dalla ripetizione di risultati incoraggianti.

Il rapporto tra la cura di sé e cura della terra

Immergersi nella natura vuol dire anche mitigare l’esigenza della forma, la forma in cui ci siamo abituati a vivere nel contesto sociale urbano o rurale.

Certo, anche la natura ha una sua forma; anche un’anima, se pensiamo alle società arcaiche. La natura ha una forma di vita indipendente dall’essere umano, che al contrario ha bisogno della natura per vivere. Si deve recuperare una relazione, un dialogo.

L’uomo vive immerso nella forma: regole comunitarie, individuali, estetiche, legislative. La civiltà industriale, quella post-industriale, e a maggior ragione quella digitale ci impone una serie di comportamenti che ci allontanano dalla natura e contemporaneamente da noi stessi. Lo straniamento è generale, non bastano le regole condivise per raggiungere il ben-essere.

Tornare alla natura per recuperare un rapporto con se stessi, favorire l’isolamento da abitudini incancrenite, da ritmi dettati da un sistema di vita disgregante.

Psichiatri, medici e scienziati hanno intuito che il ritorno alla terra, il contatto con i ritmi dettati dalla natura può essere un aiuto al recupero dell’equilibrio mentale. Costruire una motivazione, essere partecipi e responsabili della crescita, dello sviluppo di una attività, è quindi fondamentale. L’agricoltura richiede, perlomeno nelle piccole realtà, una partecipazione diretta a ogni fase della produzione. “Raccolgo quel che semino”, un detto popolare e una metafora che ben si adatta ad ogni sfida.

E anche quando gli eventi catastrofici naturali ci potrebbero far pensare il contrario, nella grande maggioranza dei casi la produzione dipende direttamente dalla misura dell’impegno. Il contatto con il ciclo della natura e della vita insito nell’attività agricola, aiuta inoltre a conseguire maggiori livelli di autonomia e di senso di sé rispetto ad altre attività: da quelle industriali a quelle che si svolgono negli uffici, che sono più ripetitive, frustranti e spersonalizzanti, spesso fonti di disagio. E tutto questo avviene anche perché noi esseri umani siamo portati, per via di un sentimento innato che il biologo Edward O. Wilson definisce “biofilia”, a desiderare di vivere in prossimità di una distesa d’erba verde o di uno specchio d’acqua.

La cura di un essere vivente è essa stessa vita, la soddisfazione di veder crescere qualcosa corrisponde alla crescita di se stessi. Non è infine, solo una soddisfazione per le persone che affrontano un periodo di debolezza e sofferenza, ma un piacere che dovrebbe riguardare tutti.

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