Quanto accomuna il mare alla vite e al vino è un patto d’amore ancestrale
e incondizionato destinato a riecheggiare nella memoria storica e collettiva dell’uomo dalla nascita della civilizzazione ad oggi. Un grande amore che vive di forza e fragilità al contempo, basato su contrasti e delicati equilibri, tanto da farlo sembrare inesplicabile, tanto che per decifrarne il senso occorre fare un viaggio a ritroso nel tempo e partire dal terzo millennio a.C.; precisamente dall’ascolto di versi antichi, epici e melodiosi contenuti nella prima opera letteraria dell’umanità, l’epopea di Gilgamesh di Uruk. Versi diluiti in un sussurro: “vive presso il mare la donna della vigna, colei che fa il vino. Siduri siede nel giardino sulla riva del mare con la coppa d’oro e i tini d’oro che gli dei le diedero”… versi che fanno presagire quanto sia prossima la comunione tra il vino e il mare durante l’interminabile ricerca dell’uomo verso la conoscenza e l’eternità.
Quando venne ultimata la stesura del “Gilgamesh” i popoli mesopotamici avevano già scoperto la vocazione per la vitivinicoltura da almeno duemila anni; nei secoli successivi il vino era penetrato a fondo nel tessuto della società nobiliare quale simbolo di vita per via del suo colore simile al sangue, per il suo essere medicamento portentoso e afrodisiaco, diventando indispensabile soprattutto per i rituali religiosi; l’allevamento della vite si diffuse presto e, indipendentemente dall’avvicendarsi dei popoli al potere, dal Caucaso a tutta la costa orientale del Mediterraneo, fu foriero del grado di conoscenza superiore e prova di naturalistico sapere di chi era in grado di realizzarlo. Notevole fu l’impulso commerciale che il vino diede all’economia dei sumeri, degli assiro- babilonesi e degli egizi. E in Fenicia la vite rigogliosa, foglie e viticci ondeggianti nella brezza, cominciò a guardare davvero al mare, orgogliosa e desiderosa di intraprendere con gli antichi naviganti il suo lungo viaggio verso le future Cartagine, Trapani e l’isola di Sardegna.
Un viaggio enoico attraverso la storia delle civiltà mediterranee, un viaggio per mare.
Grazie al mare e a coloro che lo solcarono, rendendo possibile la traversata alla vite, nel 2000 a.C. in tutta la Grecia si spandeva un profumo dolce di mosto selvatico. Infatti la vite dell’età Minoica, non addomesticata del tutto, produceva grappoli capaci di conferire al vino un’accentuata dominanza tannico-acida oltre ad un’alta percentuale di etanolo tali da doverlo ammorbidire con acqua di mare durante la fermentazione alcolica oppure in aggiunta al vino stesso.
E il vino unito al mare si fonde nella coppa ad ogni sorso.
Persino in età omerica non mancano i riferimenti letterari a questa millenaria unione: “o noj òntoj”, ossia “il mare color del vino”, era metafora in voga tra i lirici greci riferita alle analogie tra il vino ed il mare durante i simposi e i convitati venivano paragonati spesso all’equipaggio a bordo di una nave. Il vino divenne collante sociale, segno di profonda ospitalità e convivialità oltre che veicolo per filosofiche dissertazioni, pur mantenendo il suo carattere erotico, sacro e misterioso nel culto di Dioniso, anzitempo diffuso in Lidia e in Tracia e poi venerato dai greci. L’importanza che essi attribuivano a Dioniso è ancora tangibile grazie alle rovine dei templi edificati in suo onore presso i grandi scali commerciali marittimi dell’Asia Minore, della Grecia continentale e delle isole egee, la cui rinomanza dei vini era indiscussa. Neanche Dioniso si estrania al mare e la leggenda narra di imprese e fatiche che il dio dovette compiere per guadagnarsi la vita eterna e un posto nell’Olimpo: scoperto il complotto ordito dai pirati per ridurlo in schiavitù Dioniso, che precedentemente aveva chiesto loro di essere condotto da Argo a Nàxos, adirato trasformò i remi in serpi, fece crescere una coltre d’edera su tutto lo scafo e avvinghiò l’albero della nave con la vite, mutando infine i pirati in delfini.
Tale racconto è inciso su una coppa a figure nere rinvenuta a Vulci datata intorno al VI sec. a.C. e l’allegoria del dio adagiato sulla nave, con prua rivolti a occidente, al centro di un mare senza limiti né orizzonte è emblematico e traduce artisticamente l’espansione della civiltà ellenica e della viticoltura verso nuove inesplorate terre attraverso il Mare Nostrum. Infatti, per quanto gli Etruschi e i Celti avessero già cominciato a coltivare vigneti e a vinificare non si può tralasciare di riconoscere ai coloni greci di aver contribuito a impiantare la vite e divulgare tecniche di vinificazione e potatura più avanzate nel Sud Italia, in Francia presso l’antica Massalia e lungo le coste ispaniche intorno al 1000 a.C.
Dal 146 a.C. in poi, con la vittoria definitiva di Roma sulla Grecia, la vite ha continuato a viaggiare per le vie marittime e terrestri dell’impero non senza difficoltà e tentare di descriverne il cammino che essa ha intrapreso nei secoli significherebbe dipanare un dedalo intricatissimo di rotte e percorsi intessuti con la storia; ma non si può fare a meno di citare le attività marinare degli arabi che contribuirono a diffondere il moscato d’Alessandria sull’isola di Pantelleria e in Sicilia intorno all’ VIII sec. d.C., di riconoscere che furono gli inglesi del ‘700 a proseguire con le loro navi l’opera di globalizzazione del commercio dei vini avviata nell’antichità da fenici, greci e romani; opera incentrata soprattutto sulla diffusione di celebri vini liquorosi che altrimenti sarebbero stati confinati nel loro ambito locale e senza alternative di sviluppo economico e culturale per le zone produttive.
Al mare certo si potrebbe imputare di essere stato vettore dei peggiori nemici della vite quali oidio, peronospora e, tra il 1859 e il 1863, della micidiale fillossera, ma un analisi più oculata probabilmente sortirebbe il seguente esito: chi cerca di perfezionare ciò che è già di per sé perfetto ingenera caos. E a quei tempi il vigneto Europa certo non necessitava di perfezionamenti in termini di nuove introduzioni varietali. Per fortuna non tardò ad arrivare, sempre via mare, la soluzione al problema della fillossera che consentì il reimpianto delle viti europee, quasi decimate e molte delle quali estinte per sempre, grazie al portainnesto su vite americana, precedentemente portatrice del parassita assieme ad altre specie botaniche provenienti dal Nuovo Mondo.
Del resto anche oggi l’uomo tenta di migliorare le cose cercando di piegare la natura piuttosto che assecondarne le esigenze e limitarsi a comprenderne il ciclo; la natura impone i tempi faticosi all’uomo e l’uomo esige tempi commerciali sempre più convenienti, escamotages e ottime annate di routine, ecco perché dal Sud Africa partono navi cisterna colme di vino che in Francia, con la magia delle etichette, prenderanno la cittadinanza e magari l’ A.O.C. ( pur certo è che anche in Italia accade che certi vini del Sud diano corpo e sostanza a prodotti di altre regioni…pur non viaggiando per mare).
Ed il mare come il vino esige pazienza e dedizione senza infingimenti.
In realtà il mare è capace di preservare il vino aiutandolo a superare la prova del tempo: grazie a ricerche fondate sullo studio di testi storici, antiche rotte marine, portolani e bolli mercantili è stato possibile svelare la traccia lasciata dal traffico di vino dalla Campania verso la Gallia e la Spagna e la specializzazione per tale carico del porto di Ostia ad esempio; l’archeologia subacquea ha saputo individuare al largo di Gibilterra, delle coste francesi, della Cirenaica e della Grecia non pochi relitti di quelle fiere galee che coi rostri e con apotropaici occhi trasportavano vino e civiltà in tutto il Mediterraneo sfidando flutti e tentando di scongiurare i naufragi; negli anni ’50, non molto lontano dalle coste dell’isola della Gallinara, venne localizzato un relitto romano risalente al I sec. a.C. contenente 728 anfore molte delle quali contenenti vino intatto; nel 1980 avvenne un simile ritrovamento a Ladispoli, i cui reperti si possono ammirare presso il castello di Santa Severa; il 7 Dicembre 2003, grazie alla segnalazione del Gruppo Operativo Subacqueo della Lega Navale Italiana d’Agrigento venne localizzata un’altra antica imbarcazione di 20 metri adibita a mercantile e giacente sui fondali sabbiosi della Maddalusa, mentre il 13 dicembre dello stesso anno i carabinieri del Centro Subacquei di Genova scoprirono una nave oneraria romana a 50 metri di profondità nel tratto di mare antistante Albenga dello stesso periodo del relitto scoperto poco più di 50 anni prima alla Gallinara.
Nel 2008 vengono ritrovati ben 5 relitti a Ventotene ed un altro l’anno successivo in acque ponziane. Ma le ricerche non terminano di sorprendere neanche nel 2010, quando a 600 metri di profondità al largo di Civitavecchia viene individuato un relitto romano di età augustea ( I sec. a.C. – I sec. d.C.) in cui era stivato un grande carico di “dolium”, vasi di forma sferica e grande capacità usati per il trasporto di vino. Infine, tra Maggio e Luglio 2010, altre 6 navi romane databili dal I sec. a.C. al IV sec. d.C., tra i 18 e i 20 metri, vengono scoperte nelle acque pontine; dallo studio delle anfore contenenti un carico di conserva di frutta, olio e vino perfettamente conservati è stato possibile accertare che 2 di esse provenivano dalla Spagna e le altre 4 dall’Africa prima del naufragio.
L’archeologia marina pertanto ha saputo restituire non solo frammenti di storia marinara, di ardimentose imprese e traffici commerciali ma ha potuto farci intendere l’identità, la provenienza e la longevità dei vini del passato e quanto il mare sia adatto per natura a proteggerlo dall’ingiuria del tempo grazie ad alcuni fattori fondamentali: temperatura costante, carenza di luce e, conseguentemente, di effetti ossidanti.
Forse è per queste ragioni ( e per il ritrovamento nel Baltico di 30 bottiglie di champagne del 1780 in ottime condizioni al largo delle isole Aland) che il mare oggi più che mai sa essere un’inesauribile fonte di ispirazione per artisti e poeti, certo, ma anche per i viticoltori più innovativi che sperimentano la produzione di bollicine tra Cala dell’Oro ed il faro di Portofino, sfruttando le incontaminate acque della “Cala degli Inglesi”, il bilanciamento della pressione e della contropressione equivalenti a 7 atmosfere a 60 metri di profondità, temperatura costante di 15° e l’effetto culla delle correnti marine sulle gabbie contenenti le bottiglie, un vero e proprio “remuage” che tiene i lieviti in sospensione continua, capace di relegare sensazioni organolettico- tattili con un finissimo “perlage”; del resto anche nella laguna, nei pressi di Caorle, il mare non manca di cullare un vino rosso direttamente in botti da 235 litri, per un lungo affinamento ad una profondità media di 2 metri (variabile per via delle escursioni di marea) e 10° di temperatura, preservando tannini e vivacità, conferendo morbidezza, sentori salmastri e d’alghe e un rapido processo di polimerizzazione.
Virtuosismi e fantasie enologiche a parte è giusto ribadire che al mare non occorre l’innovazione per estendere la sua influenza su vino e vigneti, un’influenza che non conosce limiti e confini, capace di penetrare nei terreni e condizionare microclimi di zone anche lontane dalla costa; si pensi all’enorme bacino circolare di pietra calcarea e argilla formatosi nel giurassico ove il mare ha lasciato la sua memoria in forma di gusci di ostriche e crostacei intrappolati nel gesso, nelle pietre bianche dello Champagne, al di sotto dei pendii del Sancerrois, del distretto di Pouilly-Fuissé coi suoi cristalli di silice o dello Chablis; terre che, per composizione e tessitura, rendono uniche le caratteristiche dei loro vini di vigna in vigna, di dettaglio in sfumatura, per magrezza o corpo, per acidità e sentore di uva spina, d’erboso o salmastro grazie anche alla capacità di trattenere calore piuttosto che acqua, condizioni che a Kimmeridge, famoso sito di interesse geologico e patrimonio dell’umanità situato oltre Manica, sono ancora oggetto di studi.
Talvolta il mare infuria con passione vorace e fragorosa destando l’uomo e invitandolo a ovviare alla pesante umidità in vigna, causa di marciume, e dalla salina irruenza nel vento che comporta bruciature ai grappoli; ma il mare difende la vigna anche da sé stesso quando il caldo influsso mediterraneo si spinge fino a Logroño e a Elciego nella Rioja per scongiurare le intemperie provenienti dall’Atlantico. E l’impeto che il mare profonde alla viticoltura non solo fa ondeggiare i vigneti di Trieste, nascosti tra le rocce calcaree o nella zona del Sulcis, battuta dal Libeccio e dal Maestrale, ma è capace di mitigare le temperature e attutire gli sbalzi termici durante la maturazione delle uve, regolarli poi per favorire alla vite l’assorbimento dell’acqua di rugiada mattutina, di spazzare i cieli dagli acquazzoni estivi. Tale forza è pari solo alla delicatezza che imprime alla brezza con cui accarezza i grappoli sotto al Sole delle Cinque Terre, della Maremma toscana o della Costiera Amalfitana; la stessa delicatezza con cui leviga i tannini nei rossi dell’anconetano e con la quale, pur affievolendo l’intensità olfattiva in certe varietà, condensa note suadenti nei passiti. Il mare sapientemente invita, attraverso le parole di Leonardo Sciascia, a meditare nuovamente sulla metafora “il mare color del vino”, sull’importanza del rispetto per le forze della natura, della prudenza, della sobrietà e degli insegnamenti che ha da offrire a quanti desiderano apprendere a conoscere e amare il vino unito al mare …” forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce: non ubriaca, si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza”.