I vendemmiatori siciliani
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di Laura Gatto

Coltura molto antica originaria dei paesi del mediterraneo, la vite mi rimanda agli avi della mia terra: la Sicilia. Un tuffo nel passato ormai lontano si presta come un affascinante viaggio nelle antiche tradizioni della vendemmia siciliana attraverso i meravigliosi racconti tramandati da Giuseppe Pitrè, principale studioso del folclore e fondatore della disciplina da lui chiamata demopsicologia, ovvero psicologia del popolo. La vendemmia, “vinnigna” per il popolo siciliano, iniziava nelle zone marine verso la metà di settembre e finiva nelle zone montane verso la metà di novembre.

“Travagghiu di vinnigna, ti ‘signa, ti sgrigna, t’alligna e ti spigna”, ovvero il lavoro della vendemmia ti ammaestra, ti diletta, ti rinvigorisce e ti leva i debiti. È un antico proverbio in bocca agli antichi contadini di Sicilia per i quali la vendemmia rappresentava la massima aspirazione e la gioia di molti perché rappresentava la maggiore fonte di guadagno tra tutti i lavori campestri. “Cu’ travàgghia la vinnigna, s’arriposa tuttu l’annu” (chi partecipa alla vendemmia può riposare tutto l’anno per i guadagni che essa permette di fare) è un altro antico proverbio che si presta a rendere l’idea di quale opportunità economica rappresentasse la vendemmia per la parte povera del popolo siciliano.

La “vinnigna” raffigurava la gioia di molti proprio perché ad essa prendevano parte, rispetto agli altri lavori campestri, tutti coloro che facevano parte degli strati più umili e poveri della gerarchia sociale del tempo come: contadini, artigiani, mulattieri, carrettieri, giovani e anziani e persino le donne, le quali, a parte la raccolta delle olive, non partecipavano mai a nessun altro lavoro rurale. La partecipazione allargata dipendeva dalla necessità di effettuare la vendemmia in minor tempo possibile.

Grandi ciurme di povera gente camminava a lungo per raggiungere i vigneti dei diversi comuni. Alcuni possedevano una bestia da soma o una carretta e si offrivano di caricare le bigonce di altre persone che non godevano di tali arcaici ma necessari mezzi di trasporto. Altri raggiungevano a piedi il vigneto muniti di un coltello e di una corba, cioè di una cesta bislunga di vimini intrecciato, unici arnesi posseduti e necessari alla vendemmia. Essere forniti di una caretta e raggiungere il vigneto muniti di bigonce e corbe permetteva di guadagnare di più infatti, sulla base di questo, si decidevano i prezzi della giornata di lavoro che si basavano su tariffe consuetudinarie rispettate da tutti. Oltre alla paga giornaliera ognuno riceveva due volte al giorno il companatico costituito da sarde salate e cipolle o da formaggio e, se era previsto il pernottamento al podere, anche da un piatto di minestra; i pasti offerti escludevano il pane che veniva portato alla vigna direttamente dal lavoratore.

All’inizio della giornata, il proprietario assegnava le zone da vendemmiare ai diversi gruppi di vendemmiatori posizionando ai due estremi delle fila dei vigneti due capofila e alternando al centro i più giovani e meno pratici con i più anziani e più adusi alla raccolta. Per ogni otto vendemmiatori c’era un trasportatore a spalla che, raccolta l’uva in un grande corbello, correva a depositarla nel palmento posto al centro del vigneto che veniva poi portato dal mulattiere e dal carrettiere alla fattoria per la pigiatura dell’uva.

Prima di iniziare la vendemmia il capofila pronunciava l’immancabile formula iniziale: “Sia lodatu e ringraziatu lu santissimu e divinissimu Sagramentu!”. Gli altri lavoratori in coro rispondevano: “Sempri sia lodatu!”. A quel punto, esplodeva quella genuina allegria che accompagnava la vendemmia fatta di canti con versi ambigui, frasi allusive, motti a doppio senso e sboccati, nutriti di ardite insolenze e ingiurie aizzati da applausi e risate. Una sorta di rito voluto e permesso da tutti capace di aumentare il clima allegro in cui gli uomini punzecchiavano le donne giovani e anziane, brutte e belle, sposate e nubili: un andirivieni di battute senza badare più di tanto alle gerarchie. A tal proposito, Pitrè così si esprime: “il livore e la maldicenza più raffinata si espandono con argute ed originali forme, condite di brio e non prive di grazia. (…) ma questo c’è di buono e di mirabile, che nessuno se ne prende mai, ed il più bersagliato e maltrattato è quello che più ride. Non mancano, poi, pizzicotti tra i due sessi, od urti e toccatine che si suppongono e pretendono accidentali”.

Durante i pasti terminavano i canti ma non quelli che Pitrè definisce “dialoghi di salsa piccante”. In questi momenti della giornata non venivano risparmiati neanche i padroni che presenziavano alla distribuzione e consumazione del companatico ma a loro erano rivolti in modo indiretto, magari attraverso lodi esagerate al trattamento riservato ai vendemmiatori di altri vigneti da parte dei loro padroni. Il malcontento più diretto era invece manifestato sul companatico, interessanti risultano i seguenti versi:

“Ed ora, ch’àju mangiatu e ch’àju vivutu,
laudu ‘u patruni miu chi mi l’ha datu!
Iddu costi mangiau, vinu ha bivutu,
iu cu ‘na sarda ed acqua m’aju addubbatu.”

(E ora, che ho mangiato e che ho bevuto,
lodo il mio padrone che me l’ha dato!
Lui carne mangiò, vino ha bevuto,
io con una sarda ed acqua mi sono dovuto arrangiare).”

Al calar del sole, si faceva il solito ringraziamento a Dio e poi i vendemmiatori sfilavano verso la casetta a mangiare la minestra, recitavano il rosario e subito iniziavano i canti e i balli per una o due ore accompagnati dal suono di cembali, zufoli, pifferi e cornamuse, fino a quando la stanchezza aveva il sopravvento e così tutti, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, andavano a dormire.

Era tradizione diffusa che, alla fine della vendemmia di un podere il padrone regalasse qualche grappolo d’uva da portare a casa. I vendemmiatori, ricevuti i soldi, si dirigevano presso altri vigneti e questa era la loro vita per circa due mesi.

Mentre la ciurma lavorava, altri uomini venivano impiegati come pigiatori al palmento. Quest’ultimo, secondo la tradizione, era in muratura e sotto aveva una specie di tino incavato al suolo entro cui scolava e veniva raccolto il mosto. Sopra il palmento vi era una piattaforma riparata ai lati su cui veniva pigiata l’uva. Il “pistaturi”, pigiatore, a gambe nude e con indosso degli scarponi a uopo per la pigiatura pigiava l’uva strato dopo strato, coi piedi la spingeva dentro il palmento in cui veniva ripestata. Per evitare di scivolare, il pigiatore si teneva ad una corda appesa al soffitto e nell’altra mano teneva un forcone che gli serviva per spingere gli strati di uva pestati nel palmento.

In alcune parti della Sicilia come a Milazzo, l’uva veniva pigiata direttamente nel palmento. La fatica dei pigiatori era enorme poiché dovevano pestare tutto il giorno e per buona parte della notte, per la durata complessiva di due mesi. Ma lo facevano volentieri, allegramente e cantando specie in vista del buon guadagno. Avevano anche il privilegio di mangiare uva in quantità, di bere il vino anche se un po’ annacquato e di fare quattro pasti, due dei quali comprendevano piatti genuini e nutrienti composti da taglierini con legumi o cavol fiori, pane, un po’ di formaggio o di carne o di pesce.

Finisce così l’antica storia delle tradizioni dei vendemmiatori di Sicilia impegnati nei faticosi seppur allegri e redditizi lavori della “vinnigna”. Una fotografia in bianco e nero e incancellabile di un passato ormai lontano ma sempre affascinante.

1 thought on ““U travagghiu di vinnigna”: tradizioni dei vendemmiatori siciliani

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