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In un precedente articolo, a cui è possibile accedere da qui, si è già provato ad affrontare la questione dei cambiamenti climatici partendo da diversi punti di vista, in rapporto alle cause più evidenti ed in considerazione del temporaneo miglioramento dovuto alla prima fase di confinamento umano per limitare la propagazione del covid-19 con la drastica riduzione delle attività economiche e quindi delle relative conseguenze sull’impatto ambientale.

In particolar modo si è parlato della qualità dell’aria, della precessione degli equinozi, del pozzo di assorbimento di carbonio e dell’acidificazione delle acque marine, della temperatura dei mari, dell’effetto dei gas serra e, inevitabilmente, della Corrente del Golfo: questo complesso sistema di correnti oceaniche che trasporta acque superficiali calde verso l’Atlantico settentrionale, un meccanismo di vitale importanza per la ridistribuzione del calore a livello globale e quindi per il clima del mondo, noto anche come Atlantic Meridional Overturning Circulation, è ormai al collasso e si teme, come evidenziato da una recentissima ricerca tedesca da parte del Potsdam Institute of Climate Impact Research, di essere quasi al punto di non ritorno, oltre il quale sarà difficile scampare ad una catastrofe climatica.

Naturalmente il quadro è drasticamente peggiorato rispetto allo scorso anno, anche perché, tra la ripresa delle attività economiche e le relative emissioni di anidride carbonica, l’uomo ha assunto una condotta decisamente più forsennata al fine di recuperare la lunga fase di inattività subita in precedenza e questo senza che i governi abbiano messo seriamente mano al problema.

Chiaramente, quando si parla di emissioni di co2, non dobbiamo immaginare soltanto quelle generate dagli insediamenti industriali ma bensì alla lunghissima ed articolata rete di trasporti che movimenta cose e persone su tutto il globo, attraverso tutti i vettori possibili ed immaginabili.

Il trasporto intermodale è uno dei processi più attuativi della globalizzazione e quindi della circolazione planetaria delle merci, costituisce un efficace strumento in termini commerciali ma pessimo dal punto di vista ambientale: la sua attuazione, per via delle emissioni di co2 dai mezzi dispiegati, è esattamente agli antipodi con la sostenibilità nella maggior parte dei casi e, più certamente, con la filosofia del consumo a km zero.

Ma cosa s’intende per trasporto intermodale?

Nell’ambito dei trasporti integrati, il trasporto intermodale costituisce la combinazione di una serie di percorsi abbinati alle rotte marittime, impiegando mezzi di trasporto diversi come ad esempio treni ed autocarri. Rispetto al trasporto industriale, facente parte di un processo produttivo, il trasporto intermodale esprime una fase multipla del ciclo distributivo, essendo una vera e propria operazione globale, unitaria ed autonoma che intreccia diverse modalità, traiettorie e vettori differenti. Il target del trasporto intermodale consiste nel raggiungere economie di scala sempre maggiori, riducendo drasticamente la manipolazione del carico e la conseguente eventualità di danneggiarlo, garantendo shipping sempre più rapidi e sicuri, massimizzando i profitti dell’impresa ed il soddisfacimento delle esigenze dell’utente finale. Pertanto con trasporto intermodale, detto anche trasporto multimodale, intendiamo una forma di trasferimento delle merci che, dal punto di partenza a quello di destino, utilizza due o più mezzi di trasporto senza la necessità di spostare il carico più volte ed in diversi contenitori. Infatti il suo principale vantaggio deriva dall’uso di unità di trasporto intermodali standard come il container, il semirimorchio e la cassa mobile. Il trasporto intermodale è dunque una tipologia di trasferimento merci comoda e vantaggiosa che però necessita, allo stesso tempo, di mezzi, attrezzature e infrastrutture idonee, così come di un’organizzazione solida, che sappia coordinare in modo efficiente e puntuale i diversi spostamenti e la gestione correlata.

L’intermodalità, o meglio la sua assenza, è un gap nella programmazione dei trasporti in Italia e non solo, proprio per via della scarsa rete infrastrutturale, fatiscente in molti casi e che di poco assottiglia le distanze tra porto, rotaia e rete stradale, ed a causa di un’incapacità organizzativa compensata soltanto, se così si può dire, da una contorta burocrazia alimentata dal Ministero dei Trasporti e dall’Autorità Portuale.

La scarsa gestione della logistica e dei trasporti deraglia tutt’oggi via mare una quantità di merce ed un volume di affari immane verso i porti del Nord Europa, malgrado il posizionamento geografico del nostro Paese nel cuore del Mediterraneo.

Un passo indietro sul fattore ambientale e su quello economico…

Si sostiene che grazie al trasporto intermodale l’incidenza inquinante dei mezzi di trasporto su gomma sia diminuita del 55% grazie ai trasporti marittimi. Forse, prima di presentare certi dati occorrerebbe chiedersi quante navi da carico transitano per il globo e quanti container precipitano sui fondali degli oceani ogni anno a causa di condizioni meteomarine avverse. La sovrapproduzione ed il consumismo, ad oggi sempre più smodati, dovrebbero rientrare nel ragionamento.

È stato già fatto intendere che il trasporto intermodale è pratico, veloce, sicuro ed economico, soprattutto quando si parla di container. Purtroppo è dagli inizi della pandemia da covid-19 che il fattore economico ha subito delle variazioni sostanziali dal punto di vista del prezzo dei noli: se prima del lockdown spedire un container di 40 piedi dalla Cina all’Europa costava mediamente 2000 dollari, oggi si arriva a superare anche i 10 mila, per non parlare della capacità di stiva ridotta, dunque meno navi e meno partenze, con estensioni di queste ultime da una settimana ad un intervallo che si estende anche fino a quindici giorni.  Da ciò ne consegue il fenomeno del blank sailing, cioè la cancellazione di rotte programmate, e che la domanda di stiva e containers ne risulta sbilanciata: quindi le navi partono piene, come spesso avviene nei porti cinesi e dell’Estremo Oriente, ma ritornano indietro sulla stessa tratta con un carico ridotto, senza poter compensare la richiesta di nuovi vuoti e subendo l’incidenza del costo del fuel con un riscontro economico parziale rispetto alla capacità di carico; altre cause dell’incremento di spesa riguardano certamente la ripresa economica della Cina, dopo il disastro di Wuhan, e l’incidente nel Canale di Suez provocato dall’incaglio della Ever Given, nave portacontainer della compagnia Shoei Kisen Kaisha, fatto quest’ultimo che deve poter far meditare anche su un’altra cosa: non esistono tantissimi mestieri al mondo come quello del comandante di una nave in cui l’operato e le responsabilità di una sola persona possono avere ripercussioni a livello planetario, riflessione questa che dovrebbe richiamare un’attenzione maggiore sul ruolo degli equipaggi marittimi rispetto all’economia mondiale.

Le difficoltà di natura logistica e le scelte politico-commerciali hanno inevitabilmente un fortissimo impatto anche sulla movimentazione di persone e sul turismo.

Senza dover specificare quanto l’assenza di corridoi normativi a carattere internazionale abbia reso complicato sia il transito dei passeggeri che l’avvicendamento degli equipaggi marittimi ed il loro rimpatrio, soprattutto durante la prima ondata del coronavirus, gettando un ragionevole dubbio sull’operato organizzativo e la capacità di coordinamento con i vertici sanitari dei vari governi da parte dell’OMS, che resta pur sempre un ente che vive di finanziamenti privati ed i cui fondi vengono indirizzati verso progetti specifici scelti dai donatori, è bene soffermarsi su alcuni aspetti legati al turismo crocieristico.

Il concetto di crociera nasce con la progettazione avviata al fine di riconvertire i transatlantici, impiegati dapprincipio nel 1830 per il trasporto di persone e prodotti postali, riducendo al minimo i disagi causati dall’andar per mare grazie alla distrazione procurata dall’intrattenimento e dall’effetto coreografico degli ambienti e delle eleganti cabine. Naturalmente le crociere furono concepite esclusivamente per passeggeri facoltosi, lo sfarzo non era apparente ma tangibile, esattamente come la professionalità di tutte le maestranze in forza all’hotellerie ed alla ristorazione, ma erano al tempo stesso un mezzo per vivere il viaggio, la scoperta e la vacanza più a misura d’uomo. Eccezion fatta per le compagnie di crociera in stile luxury e per la classe elitaria, la cruise industry propone oggigiorno vacanze di massa a prezzi contenuti, ha drasticamente ridotto il numero del personale impiegato, la qualità delle materie prime e si risolve in visite “mordi e fuggi” nelle città di approdo.

Il risultato di tutto ciò è quello di riversare da queste navi, sempre più affette da gigantismo navale, un turismo affrettato nelle città di mare, cosa che ha portato comunque ricchezza economica in buona misura alle località rivierasche ed alle mete più ambite, senza prendere in considerazione l’entroterra e la sua ricchezza culturale. Ma a questo punto non sarebbe bene chiedersi dov’è la sostenibilità del turismo se esso non è turismo lento, se non ha tappe nella ruralità, se è consumista e favorisce la plastica, se promuove lo junk food e lo spreco, piuttosto che l’enogastronomia, se si compie nelle sue accelerazioni per una fretta vacanziera che non profuma affatto di relax e fa tornare a casa con lo stesso bagaglio culturale col quale si è partito?

Occorre una rivoluzione di pensiero ed essere innovativi per il bene della sostenibilità e dell’ambiente…

Un pensiero intermodale potrebbe essere una maniera per rendere più innovativa una crociera: facendo vivere una località al turista prima che imbarchi, riducendo le tappe marittime e aumentando le visite nell’hinterland e la loro durata, dotando gli scali portuali di “people mover” metropolitani, facendo convenzioni con gli agriturismi e le guide turistiche locali, fino a riprendere il passeggero a bordo addirittura da un altro versante costiero e con un’altra unità della stessa compagnia di crociera dislocata in quell’area, come in un ideale “coast to coast” dal Mar Tirreno al Mare Adriatico ad esempio, alla scoperta di tutto quel che vi è in mezzo. Interessantissimo da questo punto di vista, immaginando anche un’interazione porto-rotaia, è il progetto Treno della Dolce Vita, pensato un po’ sul modello dell’Orient Express ma in chiave romanticamente felliniana, impiegando entro il 2023 cinque mezzi che toccheranno 128 città per promuovere al giusto passo le eccellenze italiane. Da questo punto di vista non possono essere esclusi i trasporti pubblici e l’intermodalità tra di loro ed i macro-vettori, chiave di volta fondamentale per la valorizzazione di territori meno battuti ma dall’altissimo potenziale turistico. Da questo punto di vista è innegabile l’importanza di iscriversi a piattaforme come Google Transit e di aderire agli standard del General Transit Feed Specification, un feed che consente in tempo reale di ottenere informazioni aggiornate su tutti i veicoli in movimento, per aggiornamenti più celeri e di utilità per il passeggero, utilità che dovrebbero scaturire da collaborazioni che mirano a servizi innovativi per noi ma già diffusi in altri paesi europei: si pensi a degli autobus dotati con dei semplici portabici, oppure al trasporto bagagli per cicloturisti e fruitori del turismo religioso che attraversano diverse città con traiettorie transregionali come lo è, ad esempio, la Via Francigena.

Certamente l’Italia è ancora al 19° posto al mondo stando al Logistics Performance Index della World Bank rispetto a tutti gli altri Paesi europei, ma si cerca di migliorare questo posizionamento, cercando di pervenire all’ancora lontano modello di “Porto 6.0”… lo si vede comunque dai segnali positivi lanciati da alcuni investitori turchi di Yilport a Taranto, dalla MSC che strizza l’occhio a Gioia Tauro, dalle società di shipping di Amburgo che puntano su Trieste e chissà che nel breve termine il Porto di Amsterdam non voglia dotarsi di un hub proprio a Cagliari, Il tutto secondo un piano per il rilancio delle Zone Economiche Speciali al Mezzogiorno e delle Zone Logistiche Speciali in Nord Italia.

Il fatto è che tra la programmazione e l’attuazione c’è di mezzo il mare e non sappiamo quanto il federalismo regionale nel nostro Paese possa essere un ostacolo nell’attrarre investimenti produttivi cospicui nelle aree portuali; sappiamo bene però che la nostra economia si basa sull’industria di trasformazione del prodotto e che potremmo vivere di turismo con maggior slancio se si volesse, sempre ammesso che le autorità, supposte competenti, sappiano imparare ad essere lungimiranti e comprendano quanto un’ottima strategia portuale abbia delle ripercussioni positive su un’intera regione.

In definitiva, per quanto mediterranei e nonostante l’Italia sia una piattaforma logistica naturale, tendiamo ancora a ragionare in funzione di un eurocentrismo che di certo non giova ad un cambio paradigmatico del cluster marittimo-portuale e della gestione del turismo in chiave sostenibile: il semplice rilancio degli scambi commerciali ed una programmazione dell’export filo-mediterraneo ribalterebbero sicuramente il tavolo geopolitico, purtroppo al momento siamo così obnubilati che non ci è neanche dato di comprendere che il ponte di Messina non collega il continente alla Sicilia ma apre il Mare Nostrum all’intera Europa.

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