C’è una Grazia Deledda meno nota e ancora da riscoprire: la saggista, autrice di scritti etnografici riguardanti le tradizioni popolari sarde di fine Ottocento e inizio Novecento. In particolar modo si ricorda il saggio Tradizioni popolari di Nuoro, comparso a puntate sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane diretta da Angelo de Gubernatis raccolto in un volume e pubblicato da Forani nel 1895. In una lunga serie di articoli, nello stile dell’indagine ma dal tratto doviziosamente letterario, molti dei quali pubblicati nelle principali riviste culturali italiane a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la scrittrice ha raccolto con scrupolosa minuzia usi e costumi, poesie, detti popolari, proverbi, filastrocche, giuramenti, persino frastimos e irroccos, descrizioni di tipi e paesaggi sardi, e ancora i canti, in particolare femminili, che scandiscono i cicli della vita, dalle ninne nanne agli attitidos, a comporre un colorito affresco che ci restituisce intatto il colore locale e persino il suono di una terra arcaica i cui ritmi esistenziali erano scanditi da consuetudini e rituali sociali millenari.
Da questi resoconti, ed in particolare dal bozzetto “La Donna in Sardegna”, apparso sulla rivista “Natura ed Arte”, edita da Vallardi, il 15 marzo 1893, emerge una tipologia femminile tipicamente sarda e, allo stesso tempo, dotata di caratteri universali, a partire dalla figura di Eleonora d’Arborea, in cui secondo Grazia Deledda si compendiano “tutti gli splendori, le magnificenze, il senno, la sapienza, la fortezza degli spiriti grandi e tutte le delicatezze, le intime gentilezze, l’aristocrazia delle anime soavi, femminili”. Una donna, Eleonora de Bas-Serra sposata Doria, nota per l’aggiornamento della Carta de Logu, che ebbe una grande rilevanza nella storia della Sardegna giudicale, anche se regnò come giudicessa reggente, e non di diritto, come era previsto dalla legislazione sarda medievale, in nome e per conto dei due figli minorenni. Grazia Deledda si rammarica che non siano state molte le donne a fare la storia, con l’eccezione suddetta e poche altre come la leggendaria Adelasia di Torres, la principessa Georgia di Ardara o donna Lucia Delitala, ma è soprattutto alle donne del popolo, quelle che vivono nelle montagne selvagge o nei piccoli villaggi “accovacciati sulle rupi o tra le agavi e i mirti degli altipiani o fra i lentischi delle pianure”, che la stuodiosa rivolge la sua attenzione. Una tipologia di donna che conserva in sé, attraverso i secoli, il carattere, i tratti fisici e psichici, le passioni e le pulsioni ataviche. Una donna che, nonostante le misere condizioni esistenziali, “ama e odia come nessun’altra donna della terra”; una donna che dà vita a un matriarcato di fatto nell’isola, gelosa custode e dispensatrice amorevole delle cure, delle abitudini, delle tradizioni e del sapere delle madri; una donna, “occulta potenza e spirito delle genti”, che di fronte alle avversità non piega la testa, ma è sempre pronta a levare una voce di protesta o di ribellione contro la società o contro il cielo, disposta anche a farsi giustizia da sé pur di non soccombere.
Ma se la donna sarda è interamente dedita al lavoro, di fatica e di cura, e appare talvolta cupa e pensierosa, con quei suoi occhi scuri e profondi, non per questo, soprattutto in giovane età, disdegna i piaceri, ed è l’amore il suo più alto ideale, “la sola vera felicità nella valle delle illusioni”.
Donne diverse, le sarde, a seconda del luogo di provenienza, perché ogni territorio ha un riflesso nello spirito e lascia un segno nel volto, ma se apparentemente la mite campidanese ha poco a che fare con la fiera e ardente gallurese, tutte hanno un fondo comune e danno luogo a una tipologia femminile che le differenzia, con ostinata e immutabile costanza, dal resto delle donne italiane. Tuttavia, se si dovesse individuare il territorio da cui sia scaturito l’archetipo, secondo Grazia Deledda è senza dubbio quello di Orune e dei paesi limitrofi, laddove la donna appare come l’incarnazione perfetta del paesaggio montuoso e selvaggio, “sublime nella sua desolazione”, altera, superba, arguta, perfettamente calata nei suoi ruvidi panni di orbace. Timorosa di Dio, in balìa di anime vaganti, ha il coraggio, con la gonna avvolta intorno al capo, di sfidare la notte popolata di creature soprannaturali o nemici mortali, se deve andare in città a vendere i prodotti della terra o a visitare un parente ammalato.
Anche in Barbagia le donna è lo specchio del paesaggio: come i secolari boschi di castagni e i monti intagliati da gole e dirupi, è robusta, coriacea, avvezza a ogni fatica e alle tempeste della vita. La donna di Nuoro, invece, è più incivilita nel linguaggio, nei tratti e nel vestire, e non è raro vederla col giornale in mano o con un romanzo che si perde nel paniere del cucito. Non meno passionale, ma meno franca rispetto alle donne di villaggio. E ancora più ingentilite appaiono le donne di Oliena, “miti come il loro dialetto senza consonanti dure, come la tinta azzurra delle loro montagne di calce baciate dal sole”, pittoresche nelle loro vesti barocche, i capelli attorcigliati attorno alle orecchie e le scarpe piene di fiocchi. Rassomigliano alle donne di Dorgali quando si recano a Nuoro trascinandosi dietro un cavallino, con in testa cesti di frutta fresca e sotto braccio, da vendere, un involto di orbace. Più ardite e assai meno leziose sono invece le donne del Goceano, rocciose come gli altipiani di granito che le sovrastano.
Una trattazione a parte merita poi l’attenzione di Grazia Deledda per i costumi delle donne sarde, che rispecchiano anch’essi i tratti della personalità perché, per dirla con la scrittrice, “in Sardegna si deve dire: dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei”. Il costume definisce innanzitutto la condizione sociale della donna. A Nuoro per esempio – riferisce la scrittrice che, per l’occasione veste invece i panni dell’etnografa – le popolane indossano gonne di albagio scurissimo orlate di nastri cremisi che ricadono in eleganti gheroni, mentre quelle delle donne di sangue signorile, o che hanno sposato un nobile, sono di panno o di velluto variopinto, o ricamate d’oro e di seta. Ma non solo le vesti, lo stesso modo di vivere della donna sarda dipende dalle finanze della casa in cui si trova ad albergare. Se è povera, una donna vive di stenti, a meno che non diventi servitrice in una famiglia di più alto lignaggio, ma le madri di famiglia non possono essere serve, e sono dunque condannate a una vita di duro lavoro nelle miniere, nei campi e in casa, oltre alla dedizione amorevole dispensata alla prole. “Non v’ha madre che ami i figli come la donna sarda”, considera la scrittrice.
Lodi particolari vengono poi tributate negli scritti alla raffinata manualità che caratterizza le donne di Sardegna, che spesso fanno del lavoro un’arte. I canestri, le corbe e i cestini intrecciati per essere venduti, l’orbace filato e tessuto per dare pregio ai ricchi costumi delle feste, e ancora le tovaglie, le coperte, le tele finemente ricamate: gemme di un artigianato che nel mondo è ancor oggi rinomato. L’operosità femminile, propulsore dell’economia familiare, è una delle chiavi del matriarcato di fatto: “in molte famiglie essa è la padrona – avverte la Deledda – e si sa far rispettare dal marito; in qualche caso anche temere”.
Della donna sarda ancora si loda l’onestà nell’unione matrimoniale. Anche qualora fosse oltraggiata nel suo atto di fedeltà, la donna di norma non tradisce il coniuge. “Sarà ladra, superba, calunniatrice – si legge nel bozzetto dedicato – sarà addirittura una furia, ma non sarà mai adultera”. Anche se i tempi cambiano, la corruzione dilaga e le giovani donne a volte sono rapite dal “morboso spirito dei tempi” che, secondo la scrittrice ammantata di sardità, viene d’oltre mare. La donna sarda infatti, quando ama, dà tutta se stessa all’uomo prescelto o da cui ha scelto di farsi sedurre. Una delle fonti più autentiche per carpire gli istinti, i sentimenti e i costumi della donna sarda è la poesia. Quando raggiunge il suo ideale più elevato che, dicevamo, è l’amore, la donna diventa poetessa e canta. Specialmente all’aria aperta, immersa nella natura, mentre lava i panni ai bordi di un torrente, spiega la voce al cielo e intona i muttos, stornelli in rima che esprimono moti amorosi talvolta lievi, altre volte impetuosi. La musica in Sardegna è donna in ogni rituale della vita sociale, dalla culla alla tomba, e così a lei spetta anche attitare i morti. Talvolta è una parente del defunto a intonare il dolore della perdita, ma più spesso si ricorre alle prefiche, che vengono pagate per piangere i morti cantandone le virtù in vita con un linguaggio immaginifico e ridondante di metafore bibliche, contrappuntate da un coro di pervenute singhiozzanti.
Così Grazia Deledda tratteggia il bozzetto della donna sarda, con caratteri di atavica modernità, se mi si vorrà perdonare l’ossimoro, che la stessa scrittrice adombra quando, parlando di donne che dipingono, che cantano, che suonano, che pensano, che scrivono e si preparano in vario modo alle “lotte della scienza e dell’arte”, prefigura un nuovo Risorgimento femminile sardo fatto di donne “destinate qual sono ad essere madri, mastre, guide ad una nuova, sante, forte e intelligente generazione che solleverà la Sardegna dal tenebrore letterario, artistico, politico, economico e sociale in cui giace”. L’augurio è che la donna possa realizzare la propria emancipazione intellettuale preservando gli antichi valori dell’onestà e della fierezza e “senza perdere la gentilezza, il profumo e il fascino soave della femminilità”. Che l’insegnamento di Grazia Deledda possa ispirarci nell’affermazione di un futuro più femminile, o almeno paritariamente femminile, tanto auspicato.