“Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. Mi ha sempre lasciato un po’ di amaro in bocca questo detto. Forse perché sono cresciuta con genitori che non si sono limitati ad insegnare la materia, che quella materia l’hanno strappata con decisione alle pagine dei libri e l’hanno condita con una buona dose di domande. Già. 2 domande. Chiedersi il perché, sostare nel dubbio, sospendere il giudizio. E poi tornare sul perché e sorprendersi nel trovarlo cambiato. E’ questo il tipo di domande che bisognerebbe porsi, domande che hanno poco a che fare con l’interrogazione (per restare in tema di “insegnamento”) e molto con l’esistenza.
Ma in una società che punta sempre più sulla specializzazione del sapere e sulla frammentazione delle competenze, il concetto di abilità sembra subire una crisi di identità, crisi che non risparmia nemmeno il presunto soggetto abile, o che si ritiene tale. Così, per non perdere il vizio, richiamiamo in causa le domande e chiediamoci cosa significa essere abili. E’ saper fare qualcosa meglio degli altri? Oppure è imparare a fare qualcosa, cercando di farla meglio degli altri? Il talento va esercitato o basta a se stesso?
E ancora, per raggiungere un obiettivo, riuscire in un compito o in una professione, è sufficiente essere abili, avere talento, oppure c’è bisogno di altre qualità, come ad esempio l’esperienza, la pratica, un certo tipo di “predisposizione esistenziale”, la volontà, l’impegno? E se il problema con l’abilità derivasse da un “sovraffollamento” di questo concetto? O meglio, dalla confusione che questo sovraffollamento rischia di generare? Un utile esercizio in questi casi consiste nell’accostare ad un concetto il suo opposto. Abilità e Dis-abilità. E’ curioso che la parola dis-abile sia entrata nell’uso comune con un significato così totalizzante da “costringerci” ad inventarci una nuova parola, “più corretta”, “meno offensiva”, arbitrariamente rispettosa, come diversamente abile. Ogni volta che mi capita di leggere o udire questa espressione la mia mente non riesce a non fissarsi su quel “diversamente”, e, per quanto mi impegni, non riesco a trovare nulla di buono e giusto in quel “diversamente”. L’espressione “diversamente abile”, che vorrebbe mettere sullo stesso piano, ad esempio, una persona che ha perso (o non ha mai potuto godere) l’uso delle gambe e una le cui gambe funzionano perfettamente, diventa inquietantemente paradossale nel momento preciso in cui ci si convince in tal modo di annullare le differenze e di fare cosa buona e giusta, quando in realtà si sta regalando alla differenza una bella etichetta negativa.
Ed è proprio in questo equivoco che la riflessione sulle abilità che ciascuno di noi possiede o non possiede, scopre, valorizza, ignora, mortifica, ci avverte che essere abili, avere talento, non è mai un evento solipsistico. Quando mi scopro capace di fare qualcosa, la mia scoperta è sempre frutto di un confronto, di uno scambio, di una restituzione che gli altri mi danno in termini di entusiasmo, soddisfazione, piacere, e che è testimonianza di un aspetto fondamentale del talento: la passione. In un contesto, lavorativo o sociale che sia, una persona che ha talento è una persona che ama quello che fa, indipendentemente dalla busta paga, dai riconoscimenti o dal prestigio del ruolo che ricopre.
La differenza tra chi può camminare con le sue gambe e chi non può farlo non è una differenza che riguarda la necessità di una pedana per accedere a luoghi e servizi, necessità che, per inciso, è un diritto di ogni dis-abile (non di ogni “diversamente abile”) e un dovere di ogni società civile. La differenza è tra chi ha la possibilità, la fortuna e la volontà di valorizzare le sue passioni (scoperte per caso o da sempre conosciute) e chi , per una serie di motivi, non ce l’ha. Ma, come per tanti aspetti della vita, anche nel caso del talento è necessario distinguere il vero “saper fare” dall’”abilità all’improvvisazione”.
E qui entrano in gioco diversi fattori, come il tempo, il desiderio di onnipotenza, l’eccesso di ambizione, l’insoddisfazione verso ciò che si è o si fa. Se è vero, come si è detto, che la società si muove sempre più verso un approccio di specializzazione settoriale, è anche vero che noi rispondiamo a questa esigenza dimenticandoci dell’esistenza di un sapere che dovrebbe essere sempre affiancato a quel famoso “saper fare”. Non parlo del rapporto tra teoria e pratica come di quello tra causa ed effetto. Parlo di un movimento continuo, incessante, della curiosità, di un’abitudine al dubbio e alla domanda, del ruolo decisivo della cultura che diventa bisogno, necessità, e che non ha quasi mai una corrispondenza immediata ed evidente col “saper fare”, ma che è l’unica garanzia che abbiamo per difenderci dall’approssimazione e dall’improvvisazione; è l’unica possibilità che abbiamo di diventare ciò che siamo, come direbbe il filosofo Pindaro, indipendentemente dalle aspettative dei nostri genitori, dal narcisismo che ogni tanto ci viene a trovare, dal desiderio di emulazione o da false promesse di ricchezza e prestigio.
Una garanzia che ci mette in guardia non solo sulle nostre abilità, ma anche su quelle di chi ci promette risultati miracolosi in tempi brevi e in percorsi in cui non è richiesta la nostra partecipazione attiva. Lo spazio tra il sapere e il “saper fare” è popolato anche da insuccessi e fallimenti, gli unici però che possono davvero insegnarci l’umiltà del socratico “so di non sapere”, e quindi la possibilità di arricchirci sempre e nuovamente, per poter fare meglio. Questa è un’operazione che richiede tempo, ha bisogno di “soste ristoratrici” prima di ricominciare a “fare”. Ma com’è possibile fermarsi se viviamo in un contesto in cui tutto è accelerato, dalle relazioni professionali a quelle sociali? Torniamo per un attimo al detto che non mi ha mai entusiasmato: chi sa fare fa e chi non sa fare insegna. Bene. Ora pensate ad un mondo in cui gli insegnanti insegnano per passione, e lo fanno perché un giorno hanno scoperto (grazie ad una serie di eventi) di avere questo talento (si, un talento per l’insegnamento).
Pensate a questi insegnanti che fanno il giro della cattedra e se la lasciano alle spalle per confondersi con gli alunni, e cominciano a condividere con loro le esperienze, i timori, i pensieri, le riflessioni con cui si cimentano nella vita di tutti i giorni, e quelle che hanno a che fare con l’insegnamento stesso. Pensate ad una intera classe che si scambia pensieri, riflessioni ed esperienze, e le restituisce, così arricchite, agli insegnanti. Pensate a come potrebbe essere “imparare” in un contesto come questo. Pensate a quando, in una di queste “lezioni” scoprite di avere un talento, che poi è una passione. Insomma, pensate a quando vi sentite bravi in qualcosa e volete condividere questa vostra abilità con gli altri. Alcuni di voi scopriranno che la loro abilità è quella di far appassionare le persone a qualcosa, qualsiasi cosa, non importa se distante anni luce dall’insegnamento.
Ci state pensando? Io invece sto ripensando a quel detto che non mi è mai piaciuto. E penso che per scoprire di essere bravi o capaci in qualcosa, qualcuno, da dietro o davanti ad una cattedra, ma anche fuori da un’aula, una piccola parte in questo processo di scoperta deve averla avuta. Fosse anche perché mi ha permesso di usare correttamente la grammatica per poter esprimere questo concetto che però continua a non convincermi proprio tanto.
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