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Sin dagli albori della storia, la specie umana ha condotto una lotta con l’ambiente circostante per risolvere i problemi della propria esistenza e sopravvivenza in un mondo in continua evoluzione. I nostri antenati dovettero impegnarsi a procacciarsi il cibo, a mettere a punto un metodo per procurarselo, nonché far fronte alla necessità di adattarsi a nuovi cibi e a nuove quantità di alimenti (Mabilia, 1991).

Questo bisogno di nutrizione è comune a tutti gli esseri viventi. Negli animali, più che nelle piante, la nutrizione si verifica come pratica comportamentale attuata in risposta ad uno stimolo soggettivamente avvertito sotto forma di “fame”. Pratica comportamentale che sin dalla nascita è geneticamente sostenuta, cioè, prevista da meccanismi ereditari. Detto questo, è possibile identificare la prima tappa significativa del processo alimentare con l’allattamento, con cui il bambino è vero che ingurgita il cibo perché elemento necessario, ma lo usa anche come primo elementare sistema di comunicazione: il suo modo di comunicare e il modo della madre di comunicare con lui, avvengono attraverso il cibo. E’ qui che finisce la natura e comincia la cultura, nonché ciò che realmente differenzia l’uomo dagli altri esseri viventi. Il cibo non è più solo un modo per soddisfare un bisogno fisiologico, ma diventa un sistema di comunicazione, di usi, di situazioni, di comportamenti, in sintesi: un fatto culturale. Ciò porta a concludere che le “forme dell’alimentazione”, che per l’appunto sono nell’uomo socialmente e culturalmente prodotte, risultano eterogenee nelle differenti società e il regime alimentare si diversifica in ciascuna società in correlazione con i suoi processi storici di cambiamento (Seppilli, 1994).

Parlare di consumo di cibo significa, dunque, anche parlare di specifici modelli organizzativi, economici, politici, parentali, ideologici e delle relazioni e interrelazioni alle quali danno vita (Mabilia, 1991). Alla luce di ciò, il vecchio detto “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”, è straordinariamente adeguato se inteso proprio come un atto esclusivamente sociale: mangiare diventa un atto di autoidentificazione (Friedmann, 1996). L’uomo è veramente ciò che mangia, perché scegliere ciò che si vuole mangiare, se ciò è possibile, è sinonimo di scegliere uno stile di vita, anzi, l’arte del vivere. Il cibo diventa, quindi, uno status symbol come gli altri segni esteriori quali l’abbigliamento, la macchina, etc., nonché, come dice Bourdieu, uno strumento per sottolineare le differenze tra gruppi, culture, strati sociali; serve inoltre a rafforzare l’identità di gruppo, a separare il “noi” dagli “altri” (Bourdieu,1983).
Nella post-modernità consumare non rappresenta più semplicemente un’attività economica legata al reddito e all’esistenza di un bisogno funzionale insoddisfatto, ma porta con sé anche valenze di tipo simbolico (significati e segni culturali attraverso cui l’uomo può esprimersi e costruire la propria identità): l’individuo è portatore di molteplici identità coesistenti che prevalgono alternativamente nelle diverse sfere della vita quotidiana.
Molto spesso queste identità si formano e si manifestano attraverso atti di consumo: consumare non significa soddisfare solo dei bisogni di tipo utilitaristico, ma anche di tipo simbolico e relazionale; l’individuo entra in contatto con altri soggetti in un gioco di reciproca influenza culturale e identitaria (Dalli e Romani 2004).

Infatti, l’alimentazione è anche e inevitabile apertura verso l’esterno: essa è una delle più convincenti affermazioni dell’importanza insostituibile degli “altri” per la sopravvivenza di un qualsiasi “noi” (Remotti, 1996). Da Platone a Fichte, infatti, qualsiasi concezione organica del noi ha dato quasi sempre luogo a prescrizioni autarchiche: un noi che voglia considerarsi tale, per difendere la propria individualità e la propria identità deve innanzitutto provvedere in modo che sia bastevole a se stesso, deve ridurre al minimo i rapporti di dipendenza verso l’esterno. In questo modo ecco che la concezione organica entra in una forma di auto-contraddizione, nel senso che essa spinge verso l’autarchia, verso la chiusura nei confronti di ciò che è esterno; tuttavia, questa concezione evoca inevitabilmente anche l’esigenza dell’alimentazione, nel senso di dipendenza verso l’esterno. Se si eliminasse questa dipendenza, se si rispondesse no all’esigenza dell’alimentazione, muterebbe l’immagine della società: si passerebbe da un’immagine organica di un noi vivo che difende i propri confini e la propria integrità, a un’immagine inorganica di un noi pietrificato, più adatto a rappresentare una realtà passata che non una situazione presente.

L’alimentazione è un’attività che ha di mira l’identità e la salvaguardia del noi, un’identità precaria e mai garantita. Infatti, sussiste sempre una conseguenza dell’atto alimentare che è sempre in qualche modo contraria alla salvaguardia di questa identità: l’alterazione, la trasformazione in altri a causa dell’alimentazione. Con l’immagine dell’alimentazione, dunque, si arriva a sostenere l’inevitabile presenza e la necessaria introduzione degli altri in noi, tuttavia si ritiene che gli altri, per quanto indispensabili al noi e alla sua sopravvivenza, siano pur sempre qualcosa di esterno e che solo attraverso l’assimilazione entrino davvero a far parte della sostanza del noi, perdendo in buona parte la loro alterità.

La condivisione dello stesso cibo introduce le persone nella stessa comunità, le rende membri della stessa cultura, le mette in comunicazione, anche se solo temporaneamente. Questo fenomeno è ravvisabile in particolare durante i viaggi, o nell’ambito della cucina etnica e regionale. Il cibo, infatti rappresenta uno dei comuni denominatori delle “visite tra culture”, al pari della musica e dell’abbigliamento; luoghi comuni della differenza, perché facilitano l’incontro, ma anche perché offrono degli stereotipi come primi appigli per un contatto. Il cibo in questo caso può essere considerato come un esempio di “muretto basso”, di confine facilmente superabile, di pretesto, di minimo comune denominatore della differenza, che si manifesta in maniera visibile, ma non come barriera. Del resto si può far visita ad un’identità altrui, la si può “assaggiare”, o meglio si può credere di farlo, perché in fondo, le cucine altre sono sempre una “versione per noi” delle cucine altrui (La Cecla, 1998). Pensiamo infatti, alle cucine etniche: esse sembrano costituire una sorta di interfaccia che mette in comunicazione gli abitanti delle città occidentali e gli immigrati. I ristoranti inizialmente vengono aperti per rispondere alla domanda dei propri connazionali, tuttavia, ben presto divengono luoghi e spazi in cui si mettono in scena le differenze, e in cui “con un felice malinteso” è possibile entrare in contatto con un’altra lingua e un’altra cultura, attraverso l’assaggio dei suoi piatti tipici, i quali sono portatori di processi identitari estremamente complessi (l’identità del produttore e del luogo di produzione, con i caratteri naturali e culturali che gli sono propri), i quali non vengono meno nel momento in cui sono “offerti” o “scambiati”.

La conoscenza di una civiltà, di una cultura passa anche attraverso la riscoperta dei suoi rituali e dei suoi gesti quotidiani.
L’alimentazione è il primo confronto che bisogna affrontare quando si visita un Paese, che permette di “aprire” il palato a nuovi sapori e la mente a culture “altre”. L’alimentazione, infatti, ci racconta, più di ogni altra cosa, la cultura, il clima e la geografia di quel Paese.
Le tradizioni alimentari sono probabilmente l’aspetto più facilmente avvicinabile di un popolo: il cibo è la soglia più accessibile di una cultura. E’ la soglia più bassa di un confine. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare quella soglia (La Cecla, 2009).
Provare cibi tipici di paesi diversi dal nostro è certamente strumento di scambio culturale, prima forma di contatto tra due civiltà o tra due individui.
Attraverso il consumo di un alimento appartenente a una cultura diversa dalla propria, si compie un atto motivato, prima di tutto, dal desiderio di conoscere e di entrare in relazione con qualcosa di nuovo, un gesto di fiducia verso chi prepara e offre un alimento “sconosciuto”, un “abbandono” delle proprie categorie culturali.
Il cibo è la soglia più sensibile e più bassa del rapporto tra culture. Più sensibile perchè registra variazioni, permanenze, incontri e scontri più di altre manifestazioni di una cultura. Più bassa perchè è la faccia più praticabile dagli estranei. Gli estranei possono assaggiare una cultura senza esserne minimamente affetti. Si va in un ristorante arabo o cinese senza dover necessariamente avere una predisposizione a capire la cultura araba o cinese. Ma quando sorgono i conflitti la cucina è la prima zona affetta dall’intolleranza.

Essendo una soglia, la cucina di una cultura può essere assaggiata da un’altra, può essere espulsa o divorata. Ma può anche accadere che ci si mangi la propria identità se questa, ad esempio, deve dimostrare una apparente o reale sottomissione ad un’altra cultura.
La cucina è il luogo degli scontri e degli incontri e soprattutto dei malintesi. Una cucina può servire a delimitare una identità che all’interno non è poi così sicura (le proibizioni servono a questo) e altresì può consentire giochi di stereotipi, imitazioni, vendite della propria immagine all’altro.

La cucina non richiede un’adesione alla cultura di chi cucina, mentre invece leggere un libro, perfino guardare un film sono gesti di maggiore compromissione. Perché? L’assaggio è un biglietto di andata di cui è stato già pagato il ritorno, è il dare “un breve sguardo intorno”. L’assaggio è una fruizione passiva, come è passiva la fruizione di chi ascolta un disco della “world music” perché la melodia gli piace o lo incuriosisce. Siamo in visita ad un’altra cultura, ma è una visita che non ci obbliga ad una relazione interpersonale. Per questo la cucina rappresenta la prima base del contatto interculturale. Quando mangio giapponese, marocchino o messicano mi trovo in una “zona di traduzione”. Il testo da tradurre col mio assaggio è un gusto. E’ un testo ambiguo, perché il gusto, come lo definisce Brillat-Savarin, “est celui de non sens qui nous met en relation avec les corps sapides” (1840). Ma cosa sia la sapidità in un’altra cultura rimane sempre un po’ un mistero. Ogni cultura ha una sua scala di valori in cui pone “il salato”, “il piccante”, “il crudo”, “l’agro”, “l’agro-dolce”, “l’amaro”, “l’insapore”.

I turisti tutto questo lo sperimentano sulla propria pelle (della lingua) e a volte ne rimangono confusi e disgustati. Ma il disgusto è spesso l’anticamera della curiosità e dell’esotismo. Più nell’immaginario una cucina è strana e disgustosa e più attira. E anche il conoscitore di cucine altrui rimane pur sempre un “amateur”, un collezionista, un “flâneur” del gusto. Spesso non si va oltre la prima impressione. Gli elementi sono lì nel vostro piatto, ma manca il contesto in cui quel piatto si iscrive, i paragoni con altri piatti della stessa cucina che gli consentono di essere una “specialità” per gli indigeni di quella cucina.
La cucina, tra i fenomeni della cultura, è, perciò, quello che più si presta alla simulazione “concertata”. In una certa misura è così da quando almeno esistono i ristoranti. In un ristorante non si può capire la cucina di un’altra cultura. Si può solo fare esperienza di una zona di contatto in cui qualcuno (di un’altra cultura o che finge di esserlo) mette in scena un “contesto”. In altre parole, ci si ritrova su un piccolo palcoscenico in cui ci si divertite a fare finta, per una sera, di essere “come i cinesi”, “come thailandesi”, o “come gli arabi”. La simulazione giova al mantenimento di una convivenza tra culture diverse e alla meravigliosa illusione che, approfondendo, ci si potrebbe anche capire.

Il consumo di cibo come esplorazione, del resto, riflette il bisogno dell’individuo di conoscere, esplorare, indagare il mondo che lo circonda (Flight, Cox 2003; Funk, Brunn 2006), un processo gnoseologico che può passare anche attraverso il cibo. Da un lato, il gusto è un senso fondamentale attraverso cui esperire e apprendere, dall’altro, nella preparazione e nel consumo dei cibi individui e culture riversano la propria natura, i propri valori e tradizioni, sotto forma di sapori, accostamenti e modalità di consumo (Ford 2002). Il cibo può essere il primo aggancio con un ambiente poco conosciuto, affascinante, ma in parte temuto; è il primo passo di avvicinamento all’altro, consente di misurarne differenze e somiglianze, può essere mezzo di evasione per cui l’anelito verso l’esotismo sottintende un desiderio di fuga, anche momentaneo, dall’esistente conosciuto (Tirelli 2006).
L’apprendimento sull’altro (in questo caso le altre culture) passa per la frequentazione di ristoranti etnici e l’adozione di modalità di consumo tipiche dell’altro (mangiare con le mani o con le bacchette, mangiare insetti). Alcuni individui possono dilettarsi nel replicare i piatti conosciuti altrove a casa propria o scelgono di recarsi nei luoghi originali dove certi elementi sono stati “concepiti” (si pensi al turismo enogastronomico).
Dall’altro lato, il cibo, in quanto strumento di classificazione, può essere funzionale a confermare l’appartenenza al gruppo dei pari, alla comunità o a una subcultura (Holt 1995, Kates 2004, Arnould e Thompson 2005). Condividere il cibo ribadisce, infatti, la partecipazione ad un gruppo, ad un branco. Il cerchio di appartenenza delle relazioni si restringe a chi partecipa al banchetto. In certi casi i criteri di appartenenza possono essere idealistici ed irreali: il regionalismo, la cittadinanza, il ruralismo o al contrario la xenofilia. I prodotti, le marche e i luoghi preferiti sono quelli di riferimento della “tribù” a cui si appartiene (Cova 2003, Schouten e McAlexander 1995).
Ostentazione e appartenenza, spesso, sono due facce della stessa medaglia. Attraverso certi comportamenti di consumo di cibo si può, allo stesso tempo, distinguersi da alcuni, assimilarsi ad altri ed, eventualmente, evidenziarsi all’interno dei pari (Jackson 2002, Jamal 2002).

Fonti
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