L’antropologo Claude Lévi-Strauss, nelle Strutture elementari della parentela (1949), sostiene che la proibizione dell’incesto è la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. Il tabù dell’incesto, dunque, ha segnato la nascita della cultura, la quale inizia tracciando un “confine” che prima di allora non esisteva: le donne vengono divise tra quelle con cui è proibito unirsi sessualmente e quelle con cui è permesso. Una distinzione artificiale creata e imposta dagli uomini che va ad aggiungersi alle somiglianze e differenze naturali. La cultura che da sempre ha a che fare con la gestione delle scelte umane, fin dalla sua nascita insiste sullo stesso modello: usa e costruisce segni per classificare e separare sia gli oggetti della percezione e valutazione che i modi raccomandati e imposti per rispondere a quegli oggetti; traccia confini per creare differenze, distinguere un luogo specifico dallo spazio restante, un periodo dal resto del tempo, una categoria di individui dal resto dell’umanità.
Attraverso la costruzione dei confini il mondo si semplifica, diviene più comprensibile. Si ritiene, infatti, che i confini proteggano dall’imprevedibile, dall’inatteso e da tutte quelle situazioni che potrebbero originare in noi timori tali da impedirci di agire, soprattutto in quella maniera che siamo soliti definire “ragionevole”. Se i confini sono visibili e i segni di demarcazione chiari, allora Spazio e Tempo nell’ambito dei quali ci muoviamo risulteranno più ordinati. In questa prospettiva i confini garantiscono sicurezza, impongono ordine al caos e rendono il mondo comprensibile e vivibile, consentendo a noi tutti di sapere sempre come, dove e quando muoverci. Affinché si possa pervenire a questo risultato, tuttavia, i confini devono essere tracciati concretamente, materialmente, non solo simbolicamente. Ignorare questi segni equivarrebbe a disobbedire alle regole, una trasgressione dalle conseguenze certamente imprevedibili, non calcolabili, dunque incontrollabili, ingestibili e per questa ragione temibili.
Va da sé che creare differenze significa anche modificare le probabilità, rendere cioè alcuni eventi più probabili o meno di altri, se non addirittura impossibili. Ma ciò che è fuori posto è sinonimo di sporcizia e in quanto tale deve essere spazzato via, rimosso, eliminato, quantomeno trasferito nell’altrove cui appartiene, se esiste e quando esiste (i senza fissa dimora e rifugiati politici testimoniano che non è sempre così).
Comunque stiano le cose, affinché l’ordine possa essere ristabilito, è necessario rimuovere l’indesiderato, fare pulizia, tracciare dei confini perché ci si possa garantire l’ordine spaziale. Operazione questa che implica la raccolta di cose e/o persone in luoghi specifici mentre altre sono lasciate fuori.
Qualsiasi modello di ordine, verosimilmente, contribuisce a dividere esseri umani e oggetti in “desiderabili” e “indesiderabili” e ogni confine deve evitare la mescolanza delle due categorie nel medesimo spazio.
Tuttavia, sebbene i confini, da una parte, intervengano a dividere lo Spazio, non sono sempre da considerarsi come semplici barriere: sono anche interfacce tra i luoghi che separano e in quanto tali risultano, altresì, soggetti a pressioni contrapposte, e dunque, almeno potenzialmente perfino fonte di conflitti e tensioni.
Il prezzo da pagare, nel momento in cui si sceglie di procedere a segnare e proteggere i confini è la perdita della libertà di movimento che diviene il fattore discriminante tra i diversi gradi sociali e insieme il criterio attraverso il quale un individuo o una categoria sono misurati nell’ambito della gerarchia sociale.
Il diritto di ignorare il confine, di oltrepassarlo, diventa una delle questioni più contestate, così come la capacità di sfidare il divieto diviene una delle principali forme e armi di dissenso e resistenza rispetto all’ordine prestabilito e alla gerarchia di potere esistente. Pressioni queste che sfociano in un paradosso sempre più evidente nel nostro mondo globalizzato, che fa corrispondere alla diminuzione dell’efficacia dei confini (anche ad opera di quella distanza spaziale che ha sempre minor valore difensivo), la rapida crescita di significato che gli si attribuisce. Lontani dalle pesanti e pressanti ingerenze dei governi, sembrano moltiplicarsi, infatti, confini di tipo differente, spontanei, privi di demarcazioni, conseguenza del crescente processo di urbanizzazione.
I confini spontanei, costituiti dal rifiuto di una commistione e non più da muri e cancelli, svolgono un ruolo duplice: separano e contestualmente si fanno interfaccia, in altre parole, promuovono incontri, incoraggiano interazioni, favoriscono scambi, determinando in tal modo una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane.
E’ proprio in questo ambito micro-sociale che si incontrano e interagiscono culture, tradizioni e stili di vita differenti, gli stessi che a livello macro-sociale i governi cercano di tenere distinti e separati, attraverso i confini. Incontrandosi le culture inevitabilmente dialogano tra loro, ingaggiano una qualche forma di comunicazione, non importa se in maniera pacifica o contrastiva; ciò che conta è che questo dialogo possa stimolare continuamente una forma di conoscenza e familiarità reciproca e di conseguenza faciliti, favorisca e incoraggi (almeno potenzialmente) una qualsivoglia forma di comprensione, rispetto e solidarietà.
Il confine materiale rappresenta senza dubbio la realizzazione più semplice, fisica, del margine. Tuttavia, confermare uno spazio, segnarlo, non vuol dire necessariamente chiuderlo, impedirne l’accesso agli altri. Non bisogna, infatti, dimenticare che un confine esiste solo in funzione di un centro e spesso questo è stabilito in maniera molto più precisa e ha un’importanza maggiore dei segni che delimitano i suoi margini sfumati. Un confine non garantisce la sua totale impermeabilità, anzi tutt’altro. Non possiamo ignorare il fatto che il confine sia uno strumento di interazione e di scambio tra mondi diversi, mettendo in scena le diverse forme dell’alterità, tanto da poter portare a costruire a cavallo di esso una nuova identità, che prende e lascia qualcosa di entrambi i versanti. Se scavalcando il confine i singoli individui possono tradire le permanenze di braudeliana memoria, viceversa le civiltà continuano a vivere di vita propria aggrappate ad alcuni punti fissi, poiché ci sono limiti culturali, spazi culturali di straordinaria perennità, rispetto ai quali nulla possono tutte le mescolanze del mondo, anche se l’identità sostanzialmente è conseguenza di un’interazione e non di una separazione. Naturalmente la presenza di un confine è la condizione che trasforma qualcuno in straniero e non c’è dubbio che la presa di coscienza dello straniero e del “diverso” come il modo di atteggiarsi rispetto ad esso sia in ogni epoca un aspetto e una componente essenziale dell’opinione pubblica. Quando compare all’orizzonte del “nostro” mondo, lo straniero è un essere “incomprensibile”, tant’è che a volte si stenta perfino a riconoscergli la caratteristica stessa di uomo. Tutto in lui “fuoriesce” dalla misura, dai canoni che noi riteniamo essere quelli “giusti”. L’immagine dell’altro finisce per essere irrimediabilmente investita dall’angolazione ideologica dello sguardo osservante, investita e contestualmente irretita entro le anse ideologiche che motivano le spinte conoscitive, che disciplinano l’esercizio di una conoscenza dell’altro mai avulsa da ragioni storiche complesse, dunque, mai neutra.
“Excludere”, del resto, significa letteralmente “chiudere fuori”, separare, tenere lontano, effettivamente una delle conseguenze naturali connesse alla costruzione di un confine è quella di limitare uno spazio, portando qualcuno verso il margine e la marginalità, che non va sempre e solo colta in un’accezione negativa, dal momento in cui può divenire un modo per manifestare la propria identità. Un modo per non stare né dentro, né fuori, o anche una maniera per entrare in contatto con una cultura, rimanendovi e garantendosi allo stesso tempo una distanza. In tal senso il confine può essere allora inteso come una “sfasatura”, una sorta di incoerenza e incongruenza tra le parti che non sono misurabili con lo stesso metro.
Questo può essere a volte causa di conflitto, soprattutto quando di fronte si trovano culture differenti.
Parlare di confini significa anche parlare di “recinti” mentali, culturali, religiosi, ideologici ed è solo nella volontà di chi lo costruisce che sta il limite del potere di un “recinto”, che può farsi la raffigurazione vivente dello scontro tra due modi opposti di stare nel mondo, di occupare uno spazio. Uno dei compiti del confine è mettere in scena le diverse forme dell’alterità, provocare continuamente qualcosa che ci permette di dire che “noi” non siamo proprio uguali agli altri, ovvero provocare il malinteso. Se chiudere il confine e occultare il malinteso, lasciando l’altro fuori dalla “porta”, vuol dire creare una continua minaccia, allargando, invece, sempre più lo spazio del confine, avendo l’altro di fronte si può elaborare un percorso per attraversare il disordine. Ciò richiede l’intuizione del relativismo culturale, la dilatazione, implicita e inaugurale, del concetto di cultura oltre i confini geografici e storici dell’osservatore. In altre parole, i confini, le frontiere materiali e immateriali e simboliche se in alcuni casi sono dei campi di battaglia, in altri dimostrano di poter essere dei laboratori creativi della capacità del vivere insieme, terreni in cui possono germogliare i semi delle future forme di umanità.
Ma in che modo si può pervenire alla convivenza tra culture diverse senza che si corra il rischio di perdere o di dover abbandonare la propria identità?
Una spiegazione l’ha fornita il sociologo Zygmut Bauman una delle voci più autorevoli nell’analizzare le contraddizioni e i timori della condizione umana contemporanea. Il sociologo “liquido” che parla di modernità, intervenendo a Bergamo nell’ambito del festival Internazionale della Cultura per la Lectio Magistralis “I confini del mondo e le speranze degli uomini”, lo scorso 9 maggio, ha sostenuto la necessità per l’umanità di imparare a collaborare attraverso un dialogo aperto, informale, privo di procedure fisse. Solo in questo modo, per essa sarà possibile il dialogo tra le diversità, diversità che non separano ma arricchiscono e rendono creativi gli uomini.
“Restituire speranza all’umanità – ha precisato – è un processo che non deve esaurirsi mai, perché l’homo sapiens è l’uomo che spera. L’uomo moderno è sfiduciato, vaga smarrito nel terreno vuoto lasciato dal divario tra politica e potere, non più interconnessi nei confini di un unico stato nazione. Il tentativo di mantenere viva la speranza si lega al ruolo dei confini, che possono separare o avere una funzione osmotica, invitando a scambi e idee. Nell’agenda del prossimo secolo – ha proseguito Bauman – c’è la necessità di unire in un nuovo matrimonio potere e politica e di sviluppare l’arte del coabitare tra culture diverse. Come sostiene l’economista Jeremy Rifkin, dobbiamo passare da una società capitalistica a una collaborazione attraverso l’idea dell’internet delle cose, ovvero la rivoluzione del digitale e dell’interconnessione della rete si deve trasferire come modello organizzativo nella società per risolvere problemi comunicativi, energetici e di mobilità”.
Fonti
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