Pane sardo
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Se è il pane a far la festa, state pur certi d’essere ospiti del Mediterraneo, ma se il pane si maneggia con rispetto e lo si bacia prima di mangiarlo, non c’è dubbio che siate in visita della Sardegna, magari Sardegna di qualche decennio fa, ma i suoi abitanti hanno una buona memoria, e della venerazione che si riservava al pane ricordano ancora piuttosto bene.

Nutre il pane in Sardegna, ma fa anche qualcosa di più. Nei secoli la sua preparazione e il suo consumo hanno compenetrato il vivere di tutti i giorni, hanno scandito i tempi, dato profumo ai luoghi e alle espressioni dello stare insieme.

Nell’isola non è solo buono da mangiare, ma è buono anche per comunicare, e quel che racconta è appartenenza intima ai luoghi, agli eventi, alle storie, alle tradizioni. Quel che dice è del legame della donna che lo produce e dell’uomo che lo consuma alla terra, al paese d’origine, all’isola.

Consumare pane sardo significa essere cittadino di Sardegna, meglio ancora essere figlio di un piccolo o grande angolo di terra con le proprie regole, con il proprio dialetto, con la propria tradizione.

D’altronde il pane in Sardegna comunica da millenni. Già i pani sacri, quelli che per intenderci i bronzetti nuragici offrono ancora oggi alla divinità, raccontavano una storia d’amore e devozione, tutta disegnata in quelle incisioni geometriche a raggiera o a stella. Venivano stampate sui pani grazie all’aiuto delle pintaderas, piccoli timbri di terracotta che dicevano che quel pane non era cosa per gli uomini, ma per gli Dei.

Ancora oggi, seppure meno che ieri, nella Sardegna che osserva da lontano la globalizzazione, il pane non è solo la base dell’alimentazione, ma è anche la coscienza di sé, l’identità.

Non a caso sappiamo bene che chi consuma civraxu, moddizzosu o magari coccoi, insomma pani pagnotta, è sardo delle zone centro meridionali, mentre quelli che optano per le sfoglie sottili, croccanti, che localmente vengono dette pane fresa, pane carasau o pane pistoccu, è sardo delle zone centro settentrionali.

Ma il pane a ben vedere è capace di raccontare anche molto d’altro. Tempi, modi e tecniche di preparazione ad esempio raccontano dalla società che lo ha prodotto. C’era un tempo in cui non solo il pane si faceva in casa, ma in casa si puliva il grano, si lavoravano le farine, si lavorava la pasta, e solo alla fine si confezionavano pani quotidiani, pani speciali, pani cerimoniali e festivi.

Era un’attività tutta al femminile, gli uomini il pane erano buoni solo a mangiarlo, e soprattutto in base alle loro necessità si programmava sa cotta ‘e su pani1. Nel sud della Sardegna, dove si mangiava il moddizzosu, il pane veniva cotto ogni sette giorni, perché in fondo il contadino ogni sette giorni faceva ritorno a casa, s’approvvigionava di pane e ripartiva per i campi. Nelle zone settentrionali il pane doveva durare molto di più, che il nord non era abitato da contadini, ma soprattutto da pastori, che stavano lontani da casa lunghi, lunghissimi mesi. Non è un caso che il pane carasau ed il pane pistoccu sono capaci di durare mesi, anche cinque e oltre quando prodotto con farine d’orzo.

E per le donne era causa d’onore saper gestire l’intera attività panificatoria dalla quale d’altronde dipendeva la capacità lavorativa dell’intera famiglia. E il pane che sfornava sa panettera2 da sa bucca ‘e su vorru3 non doveva essere solo buono, ma anche bello, specie se preparato in occasioni particolari. E’ questo a rendere tanto speciale il pane di Sardegna, ne esisteva uno per ogni evento, per ogni festa, per ogni passaggio. Le forme del pane dicevano che era in corso un battesimo, un fidanzamento, un matrimonio, una veglia funebre o una festa popolare religiosa che conservava quel tanto di pagano da renderla divertente.

Scandiva il ciclo della vita, lo regolava, lo raccontava. Forse proprio per questo in Sardegna si dice ancora oggi di una persona particolarmente buona che è come il pane, e che fino a ieri il luogo dove si conservava il lievito naturale del pane era sacro. Probabilmente per questo il pane si toccava solo con le mani pulite, quando cadeva lo si raccoglieva e prima di mangiarlo lo si baciava, e quello duro era il primo che doveva essere consumato, perché era il più sacro.

Quando mangerete la prossima pagnotta penserete che vi nutrite del vostro essere cittadini di una terra. In fondo non ha torto chi crede che si sia, in grossa sostanza, ciò che si mangia.

Fonti video:

Intervista a Melis Luigina

Il pane dei pastori

1 La cottura del pane.

2 La panettiera.

3 La bocca del forno.

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