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La Primavera dei popoli preme sempre di più alle porte e la politica, purtroppo confusa, non riesce a leggere gli avvenimenti; la metamorfosi in atto è nel desiderio di un nuovo stile di vita; è sempre più percepibile il processo di rivalutazione e modernizzazione che va investendo antichi mestieri rispettosi dell’ambiente, dell’agricoltura, della cultura del cibo. Sono proprio i più giovani a sentire impellente questa necessità di cambiamento, questo ritorno alla madre terra che solo può salvarci.

Profetico Ermanno Olmi quando, nel lontano 1956, scrivendo “L’albero degli zoccoli” pensò al futuro con la speranza del mondo rurale. La metamorfosi è in atto, ma politici ed economisti continuano a parlare di crescita, senza voler focalizzare la genesi dell’attuale crisi; è crisi strutturale, profonda, dove la logica dei consumi illimitati, promotrice della crescita illimitata in una realtà dalle risorse limitate, è ormai un meccanismo inceppato, un ingranaggio dalle dentature consunte.

Serge Latouche parla di scommessa della decrescita, di un mondo dove tutto dovrà modificarsi e il nostro modello di vita, fondato sulla crescita, dovrà traslare gradualmente verso il modello della decrescita. Al di là della proposta rimane ferma ed incontestabile l’esigenza di una ridistribuzione delle risorse, di un uso razionale delle stesse, in armonia con un Sud del mondo che preme sempre più incessantemente.

Nel 2050 saremo dieci miliardi ed il concetto guida del vivere guarderà allo stretto necessario come nuovo parametro di una ricchezza diffusa! La stessa idea di proprietà privata, difficilmente sostenibile con i redditi attuali, sta svanendo; il sociologo Barberis parla di rivincita della campagna; è in atto, infatti, un controesodo alla ricerca delle cose buone di un tempo, che dovrà necessariamente essere regolato socialmente ed urbanisticamente. Si dovrà restituire senso al luogo oggi sostituito dalla localizzazione, un luogo da reinventare fisicamente e nella nostra psiche; un luogo rapportabile ad una società globale dove sono sempre più incidenti il movimento e i grandi spazi.
L’arte, da sempre, anticipa i tempi; gli artisti hanno il sentore delle situazioni a venire e quando immaginano scenari tragici, operano con segni premonitori. E’ il caso, ad esempio, dell’artista americano John Ratner che da anni volge le sue attenzioni iconografiche, ad alta identificabilità, verso il mondo animale, in particolare quello degli insetti, scegliendo, come compagne di viaggio, monumentali scritte latine, in gran parte estrapolate dal De Rerum Natura. Una proposta artistica che tratta la questione ambientale con scientificità e originalità, con un approccio fortemente eco-antropologico.

E’ una testimonianza, questa, che sottolinea sul piano artistico quanto detto dalla fisica Vandana Shiva: “…l’aumento di catastrofi naturali dimostra che l’uomo non può trascurare come ha fatto per due secoli il rapporto con madre natura. Abbiamo dimenticato di essere cittadini della terra e la crisi climatica è una conseguenza del nostro distacco da uno stile di vita ecologico, giusto, sostenibile.”
Il fattore antropico rimane determinante nei processi di cambiamento climatico. I deserti si stanno spingendo nel cuore dell’Europa meridionale; sono pochi a parlarne, a sottolineare che nella sola nostra Italia il 21% del territorio è a rischio desertificazione.
Una problematica questa che può trovare, proprio nell’arte e più specificamente nell’arte ambientale, una cassa di risonanza non solo in termini di denuncia ma, anche e soprattutto, di testimonianza direttamente connessa al territorio.
Si tratta di operazioni artistiche che abbandonano il quadro e le forme d’arte più tradizionali per immergersi in una dimensione spazio/tempo quasi senza confini. Elemento unificante del processo creativo diviene l’ambiente che ne rappresenta, al contempo, il contesto storico e formale.
Sono opere che, ancorate fortemente al luogo di posizionamento, trovano anche negli elementi prodotti in natura da quel contesto, i materiali privilegiati sui quali intervenire.

Si pensi ad artisti quali: Walter De Maria, che ha realizzato una linea di circa 5 Km. nel deserto di Tula o a Christo che, tra le tante opere, ha innalzato tra i due versanti di una vallata del Colorado una tenda larga ben 400 mt., o Robert Smithson che, nella distesa del Grande Lago Salato nello Utah, ha creato una spirale gigantesca. E ancora Jason Taylor de Caires che ha realizzato, a largo dell’isola spagnola di Lanzarote, una serie di sculture ispirate al tema dell’immigrazione nell’ambito di un suo progetto, ancor più vasto, di Museo Atlantico.
Sono opere create in grandi spazi naturali, sovente spopolati, ma che grazie all’intervento artistico, possono diventare poli di attrazione e, non da ultimo, magneti di ripopolamento e di qualificazione identitaria di un territorio.
Ci si muove tra le varie declinazioni dell’arte ambientale: la Land art, con alterazioni e modificazioni su grandi spazi senza vincoli ecologici; la Eco Art, con forte rispetto ai dettami dell’ecologia ed, infine, la Bio Art che agisce sul piano del restauro ambientale utilizzando elementi naturali per trovarsi, così, a stretto contatto con la Econvention, tutta ispirata ad interventi finalizzati alla sola riparazione di danni naturali.

Siamo in presenza, dunque, di espressioni d’arte al momento circoscritte ai grandi spazi naturali ma che, in sinergia, ad esempio, con la Street Art, possono intervenire su aree urbane diffuse fornendo identità di luogo a spazi oggi sovente spopolati socialmente e ancor di più psicologicamente in quanto presenza di una ‘folla solitaria’..
E’ auspicabile, quindi, che sempre più artisti siano portatori di espressioni d’arte maggiormente in sinergia con le sfide climatico-ambientali. Una sorta di risposta allo slogan emblematico di Guido Segni : “Caro Internet, sii paziente, non avere fretta, il deserto sta arrivando”.

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