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Nell’ottobre del 2014 sono state inaugurate a Milano due torri residenziali, rispettivamente di 111 e 78 metri di altezza, note come “Bosco verticale” (fig. 1). Progettato dallo Studio Boeri, al di là delle numerose polemiche che ne hanno accompagnato la costruzione, il “Bosco” è stato insignito, nel novembre 2014, del titolo di “grattacielo più bello del mondo”, conferitogli dopo la vittoria del prestigioso International HIghrise Award. Circa mille arbusti – scelti tra ben 50 specie diverse di alberi – arricchiscono e abbelliscono i terrazzi delle due costruzioni divenendo parte integrante di queste due gigantesche sculture che come totem inneggianti alla natura si innalzano fino al cielo nell’utopico tentativo di metterlo in diretta comunicazione con il suolo. Simbolo di quel dilagante desiderio di ritorno alla natura e alla terra che si avverte in questo nostro mondo globale, il “Bosco verticale” sembrerebbe finalmente comporre quell’eterno dilemma tra campagna e città e tra la progettazione, che ha diviso negli anni (e continua a dividere) architetti e urbanisti, di costruzioni di cemento sempre più alte al punto di risultare alienanti (nelle quali, però, si vuole vedere il progresso che avanza) e quella di basse e verdi distese delle così dette “città giardino”, ritenute dai più romantiche rappresentanti di un tempo che fu, ma tanto care a professionisti del calibro di Lewis Mumford che le considerava il luogo ideale dove abitare.

1 – Bosco verticale, Milano
Fig. 1 – Bosco verticale, Milano

Con la coscienza ecologica che avanza ogni giorno di più, non possiamo non notare che la terra si sta pian piano riappropiando della nostra realtà tornando a diventarne protagonista, al punto di assurgere, attraverso le più svariate espressioni artistiche, a manifesto programmatico di un desiderio globale di ritorno alle origini, a quel giardino dell’Eden dove tutto iniziò, nella ricerca comune di una rinascita del pianeta.
Dopo Toronto nel 2009 e Sydney nel 2014, lo scorso 4 marzo, il Parlamento francese ha approvato una legge che impone ai palazzi di dotarsi di verdi tetti-giardino che portano a ricordare i biblici e magnifici giardini pensili di Babilonia, già ripresi nei suoi progetti da Le Corbusier. Dopo i tracciati ferroviari dismessi trasformati in artistici percorsi verdi come a Parigi, la Promenade plantée (fig. 2) e a New York il parco sopraelevato della High line, realizzato anch’esso su un tratto in disuso di una ferrovia, la West Side Lane (fig.3), ecco arrivare i progetti di orti urbani (fig. 4) presenti un po’ ovunque nel mondo. Unendo la bellezza della terra all’utilità dei suoi frutti questi orti, artisticamente allestiti, abbelliscono i centri delle città come quello creato dal Cep di Pisa, nato su richiesta di molti cittadini che, oltre a voler rivivere il contatto con la natura e riscoprire la cultura contadina desideravano, attraverso la coltivazione della terra, contrastare il senso di solitudine e combattere stress e depressione aiutando le persone ad essere attive, stare insieme e socializzare, incuranti delle differenze d’età e di esperienza di vita.2 -  Promenade plantée; Parigi
Fig. 2 – Promenade plantée; Parigi

Fig. 3 – High Line Park, New York
Fig. 3 – High Line Park, New York

Fig. 4 – Orto urbano di Pisa
Fig. 4 – Orto urbano di Pisa

Perfettamente in linea con quanto già citato, è la recentissima presentazione al grande pubblico del progetto “Garden Bridge“ (fig. 5): una nuova area verde nel cuore della città di Londra la cui realizzazione dovrebbe iniziare nel 2016 e concludersi nel 2018. Al fine di confermare la capitale inglese quale città più verde d’Europa, il designer Thomas Heatherwick e i suoi collaboratori hanno tramutato la riflessione sulla variegata flora che da sempre contraddistingue il corso del Tamigi in un giardino sospeso su un ponte di nuova costruzione lungo 367 metri, il Garden Bridge appunto, che unirà, partendo dalla fermata “Temple” della metro e arrivando all’opposta South Bank, le due sponde del fiume. Il ponte-giardino sarà contraddistinto da 270 alberi, due mila arbusti tra piante perenni e rampicanti e oltre 22 mila tipi di felci ed erbe.

Fig. 5 – Rendering del progetto del Garden Bridge di Londra
Fig. 5 – Rendering del progetto del Garden Bridge di Londra

“Da sempre i Labirinti mi affascinano.  Insieme ai Giardini, sono tra le fantasie più antiche dell’umanità.
Il Giardino, o Eden – così bello che Adamo ed Eva, freschi di creazione, continuavano a stropicciarsi gli occhi – incarna l’innocenza e la felicità; il Labirinto è, invece, una creazione del Potere e una fonte di turbamenti.  Riflette la perplessa esperienza che abbiamo della realtà”: ecco come Franco Maria Ricci descrive il suo immenso labirinto (aperto al pubblico dal 1° giugno 2015), realizzato nella campagna parmense, non lontano dalla Rocca Sanvitale di Fontanellato, famosa per i magnifici affreschi del Parmigianino che raccontano il mito campestre di Diana (l’Artemide della mitologia greca, dea della caccia e dei campi coltivati) e Atteone (fig. 6), tratto dalle Metamorfosi di Ovidio.

Fig. 6 – Parmigianino, Storia di Diana e Atteone, 1522-24, Rocca San Vitale, Fontanellato, Parma
Fig. 6 – Parmigianino, Storia di Diana e Atteone, 1522-24,  Rocca San Vitale, Fontanellato, Parma

Il labirinto è un simbolo presente in tutte le epoche e le civiltà dell’universo, usato in differenti rami del sapere ed è proprio a questo simbolo che Franco Maria Ricci si è voluto rifare per realizzare il suo che sarà il più grande labirinto verde al mondo. Ricci, noto per le sue superbe e patinate pubblicazioni d’arte tra cui la storica rivista FMR i cui diritti sono stati da lui ceduti proprio al fine di concretizzare questo sogno, afferma di essere stato influenzato nel concepirlo da differenti fonti culturali. Anche se il suo ideatore non cita tra queste l’Illuminismo, la sensazione che questa realizzazione dà a noi è quella di un illuminato ed utopico progetto settecentesco. Nel XVIII secolo, i principi della Massoneria furono fondamentali per redigere la costituzione del paese che veniva considerato emblematico di un “mondo nuovo”, quegli Stati Uniti d’America i cui primi tre presidenti furono massoni dichiarati. Il dedalo era (ed è) per la Massoneria significativo del lungo, solitario e difficile cammino alla ricerca della verità e di se stessi. Il labirinto di Ricci sembrerebbe la prova che ci troviamo davanti ad una fase nuova della nostra storia che, attraverso un travagliato cammino, porterà verso una più promettente realtà, contraddistinta da quell’equilibrio infinito derivato dalla cultura e dalla bellezza che solo l’arte unita alla natura possono dare. Il parallelo fra il Settecento e i nostri giorni non nasce in noi in modo casuale. È, infatti, sul XVIII secolo che si fonda la nostra modernità ed è proprio in quel periodo che, a seguito di una forte crisi finanziaria (che ricorda la nostra attuale) scoppiata in Francia, nacque la Fisiocrazia, una dottrina economica in aperta opposizione al dilagante Mercantilismo. Basata sulle teorie che il medico François Quesnay aveva tratto dalla fisiologia umana, la Fisiocrazia affermava che il ritorno alla terra e all’agricoltura fosse l’unica, ideale risposta ai problemi del tempo perché solo l’agricoltura, come nient’altro, è in grado di produrre beni e benessere. E il Labirinto della Masone con questo suo diretto contatto con la terra fa, in qualche modo, ripensare a quelle teorie. La forma di questa “cittadella della cultura” (fig. 7) si rifà, come dice lo stesso Ricci, a quella a stella che il Filarete nell’ambito di quel movimento ideologico culturale che fu l’Umanesimo (momento di rinascita della dignità umana posta al centro delle cose), seguendo l’astrologia, voleva dare ai suoi centri urbani in segno di buon auspicio; forma mai realizzata all’epoca, ma che trovò compimento nel XVI secolo con Palmanova (fig. 8). Anche il labirinto, aggiungiamo noi, sembrerebbe diretta derivazione di quello stesso ambito; qualche anno dopo Filarete, infatti, Francesco di Giorgio Martini, nel meditare sulla “città-ideale”, realizzava nei suoi disegni una sorta di labirintici Mandala stranamente comuni anche alla cultura buddista o tantrica (fig. 9). Lo stile architettonico di questa città, però, che comprende al suo centro una fondazione, musei, biblioteche, sale convegno e addirittura una cappella a forma di piramide (fig. 10), nella sua classicità, più che all’Umanesimo, fa pensare al Neoclassicismo in quanto molto simile a quello usato dall’architetto rivoluzionario Claude-Nicholas Ledoux (fig. 11) quando progettava agglomerati urbani come le Saline Reali di Arc-et-Senans nella foresta di Chaux presso Beçancon, uno dei suoi pochi progetti realizzati, seppure in parte (fig.12).

Fig. 7 - Il labirinto del Masone realizzato a Fontanellato (Parma) da Franco Maria Ricci
Fig. 7 – Il labirinto del Masone realizzato a Fontanellato (Parma) da Franco Maria Ricci

Fig.8 - Palmanova
Fig.8 – Palmanova

Fig.9 - Francesco di Giorgio Martini, Schemi di città ideali

Fig.9 – Francesco di Giorgio Martini, Schemi di città ideali

Fig. 10 – Cittadella al centro del Labirinto della Masone con cappella a forma di piramide

Fig. 10 – Cittadella al centro del Labirinto della Masone con cappella a forma di piramide

Fig. 11 - Claude-Nicholas Ledoux, Fabbrica di cannoni

Fig. 11 – Claude-Nicholas Ledoux, Fabbrica di cannoni

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Fig.12 – Claude-Nicholas Ledoux, Le Saline Reali di Arc-et-Senans

Nel progetto di Franco Maria Ricci è la terra, la natura e le piante a farla da padrone. Il simbolico cammino necessario a raggiungere questa “città ideale” è formato da ben 20 mila piante di diverse specie di bambù alte 5 metri e distribuite su 7 ettari di terreno; un percorso complesso che ha però come meta il raggiungimento dell’armonia interiore ed esteriore. Interessante è uno degli scopi che questa realizzazione si prefige: quello di incentivare l’uso del bambù al fine di mascherare i capannoni industriali che, numerosi, deturpano le pianure del Nord contribuendo a migliorare notevolmente il paesaggio riportandolo alla bellezza perduta del giardino dell’Eden.
«Il giardino inizia quando un uomo calpesta il suolo e si inoltra nello spazio del vegetale, del minerale. Gli arbusti spostati da una forza diversa dal vento, le foglie staccate, i rametti spezzati, le erbe piegate e pestate, e la minuscola invisibile vita animale perturbata dai passi testimonia il passaggio, e ricorda il percorso dell’uomo. La percezione di questi innumerevoli piccoli eventi, la riflessione, l’osservazione, lo stupore che accompagna il cammino di chi procede con lo sguardo rivolto alla terra e il pensiero sospeso, impregnato di cielo, armonizzano i sensi… Da quel momento il ricordo della sua presenza si fissa nel luogo. L’organizzazione sistematica di questo ricordo, la sua strutturazione, la volontà di ritualizzare il percorso, la sua ripetizione genera il giardino». Così Giuseppe Penone, uno degli artisti italiani contemporanei più noto, presenta il suo “Giardino delle sculture fluide” (fig. 12). Sviluppato su un terreno che si estende per tre ettari, il giardino presenta alberi in bronzo, fontane e boschetti ed è strutturato sulla base del Giardino delle Fontane che Amedeo di Castellamonte aveva ideato per il parco della Reggia di Venaria dove l’opera di Penone è stata realizzata. Si compone di quattordici sculture, realizzate tra il 2003 e il 2007, ed è pensato come un luogo sensoriale dove i vari materiali utilizzati (alberi, marmo, acqua, bronzo, pietra e granito) scandiscono il passaggio da una scultura all’altra, in un continuo stato di fluidità tra gli elementi, al fine di scoprire le analogie che legano l’essere umano alla terra e ai mondi minerale e vegetale.

Fig. 12 – Giuseppe Penone, Ossa della terra, Giardino fluido, Reggia della Venaria (TO)
Fig. 12 – Giuseppe Penone, Ossa della terra, Giardino fluido, Reggia della Venaria (TO)

L’unione arte/terra è riscontrabile anche in un progetto realizzato nei Paesi Bassi per i 125 anni dalla morte di Vincent Van Gogh. Daan Roosegaarde ha concepito un’installazione luminosa lunga seicento metri, ispirata all’olio del pittore olandese nel 1889, La notte stellata (fig. 13) che si snoda lungo la pista ciclabile che collega Eindhoven a Nuenen (fig. 14) dove, nell’aprile del 1885, van Gogh aveva dipinto I mangiatori di patate. La capacità dell’artista è stata quella di trasferire sul suolo quello che van Gogh aveva rappresentato nel cielo, quello stesso van Gogh che della terra era stato cantore (figg. 15, 16, 17).

Fig. 13 - Van Gogh, La notte stellata
Fig. 13 – Van Gogh, La notte stellata

Fig. 14 – Pista ciclabile di Daan Roosegaarde

Fig. 14 – Pista ciclabile di Daan Roosegaarde

Fig. 15 – Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884

Fig. 15 – Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884

Fig. 16 – Vincent van Gogh, La vigna verde, 1888

Fig. 16 – Vincent van Gogh, La vigna verde, 1888

Fig. 17 – Vincent van Gogh, Paesaggio con covoni e luna che sorge, 1889

Fig. 17 – Vincent van Gogh, Paesaggio con covoni e luna che sorge, 1889

Sin dai tempi in cui i romani erano usi arricchire le loro ville suburbane con camerae pictae dove la natura penetrava la realtà architettonica al fine di favorire il ricordo e la meditazione (capacità ereditata dai chiostri e dai giardini dei monasteri medievali), la terra ha ricoperto un posto centrale nell’espressione artistica. Il magnifico Libro d’ore del duca Jean de Berry, noto anche come Les très riches heures du Duc de Berry, miniato tra il 1412 e il 1415 dai fratelli Limbourg, ci ha donato un vero e proprio inno alla terra grazie alle incantevoli scene campestri difficili da dimenticare per la loro freschezza, grazia e semplicità (figg. 18 e 19).

Fig. 18 – Fratelli Limbourg, Les très riches heures du Duc de Berry, particolare
Fig. 18 – Fratelli Limbourg, Les très riches heures du Duc de Berry, particolare

Fig. 19 - Fratelli Limbourg, Les très riches heures du Duc de Berry, particolare

Fig. 19 – Fratelli Limbourg, Les très riches heures du Duc de Berry, particolare

Quello stesso inno alla terra dei Limbourg si tramutò in mito nelle ville cinquecentesche che Andrea Palladio eresse nella campagna veneta (fig. 20).

Fig. 20 – Andrea Palladio, Villa Barbaro a Maser
Fig. 20 – Andrea Palladio, Villa Barbaro a Maser

Campi e terra circondavano quanto edificato, campi e terra che ritroviamo nelle maioliche seicentesche di Castelli o Montelupo (fig. 21) o in quelle, splendide, che adornano il chiostro di Santa Chiara a Napoli (fig. 22).

Fig. 21 – Maiolica di Montelupo, XVII secolo
Fig. 21 – Maiolica di Montelupo, XVII secolo

Fig.22 – Domenico Antonio Vaccaro, Chiostro maiolicato di Santa Chiara, 1739, Napoli

Fig.22 – Domenico Antonio Vaccaro, Chiostro maiolicato di Santa Chiara, 1739, Napoli

Nell’Ottocento, niente meglio de L’Angelus (fig. 23) e de Le spigolatrici (fig. 24) di Jean-François Millet rese la religiosità, la grande dignità e la forza d’animo che la terra conferisce agli umili che quella terra la lavorano.

Fig. 23 –Jean-François Millet, L’Angelus, 1857-59
Fig. 23 –Jean-François Millet, L’Angelus, 1857-59

Fig. 24 – Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857
Fig. 24 – Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857

Dignità e serenità che la terra è capace di creare ovunque e in chiunque viva in armonia con la natura come ci ha indicato nei suoi splendidi dipinti il pittore russo Alexey Venetsianov (figg. 25 e 26).

Fig. 25 -  Alexey Venetsianov, Primavera
Fig. 25 – Alexey Venetsianov, Primavera

Fig. 25 - Alexey Venetsianov, Estate
Fig. 25 – Alexey Venetsianov, Estate

Per ritrovare l’equilibrio che il nostro mondo sembra aver completamente smarrito, potrebbe il ritorno alla madre terra essere la giusta strada da seguire per andare verso un futuro più semplice e sereno, avulso da crisi?

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