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“Va’! Vattene verso te stesso!”: questa è la parola che Dio rivolge ad Abramo in Genesi 12,1-9.
«Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la casa che io ti mostrerò, farò di te una nazione grande e ti benedirò e farò grande il tuo nome, e possa essere una benedizione. Benedirò chi ti benedirà e chi ti maledirà lo maledirò, e saranno benedette in te tutte le famiglie della terra».

L’uomo è strutturalmente relazione, incontro e spesso la ricerca di un lavoro per sostenerci è la molla che ci spinge ad uscire fuori da noi stessi, dai nostri confini, dai nostri angusti orizzonti. Sembra una cosa triste dover “emigrare”, ma, in fondo, è la condizione necessaria per il nostro compimento come uomini pienamente uomini, oggetto di benedizione e portatori di benedizione per gli altri.
Se non fossimo costretti dalle contingenze della vita a “spostarci” non andremmo mai verso questa realizzazione. L’uomo è costituzionalmente “straniero” nella sua patria e in quelle geograficamente distanti da quella natia. L’importante è il viaggio, verso gli altri e quindi verso se stessi.

Non importa se il viaggio è verso la città o verso la campagna: la cosa necessaria è lasciarci gettare fuori dai nostri confini verso il mondo pieno di contraddizioni ed ingiustizie, perché siamo chiamati dall’urgenza di un appello interiore (o esteriore) a “spostarci” dalle nostre certezze, dalle nostre abitudini. Pena sarebbe il lento ed inesorabile morire, diventare sterili, mancare quell’appuntamento gravido di promesse, mancare quell’occasione, quel momento opportuno (kairòs= tempo opportuno/propizio, in contrapposizione a chronos, il tempo che si divora tutto) e che interpella la nostra libertà di rispondere sì o no a quell’offerta di benedizione per sé e per gli altri.

A volte questo imperativo “lek lekà!” può esser semplicemente un invito ad andar ad abitare luoghi di lavoro molto burocratizzati o alienanti, come i tanti uffici o anche i call center delle nostre città che son diventati ormai i non-luoghi della nostra società occidentale. E anche Abramo, infatti, fu chiamato a recarsi in un non-luogo perché il Signore gli promise una terra in cui veramente non entrerà mai, ma in cui invece entrerà la sua innumerevole discendenza (innumerevole come le stelle del firmamento). Eppure Abramo va, si fida, crede a questa promessa e spera in questo impossibile. L’ impossibile è il nostro futuro, è ciò che ci muove davvero, perché se fosse possibile sarebbe già fatto ed allora non varrebbe la pena far un passo!

Mossi quindi da questo anelito per un di più, un oltre che ci supera, allora finalmente ci incamminiamo come nomadi in cerca di una terra promessa, una casa, che poi scopriamo essere il viaggio stesso. In questo viaggio avviene la trasformazione/formazione dell’uomo chiamato a diventar figlio e padre, avviene il miracolo di un compimento, di una pienezza.
La separazione dalla propria terra o parentela o, ancora, semplicemente, da una certa sicurezza e stabilità, crea una ferita, uno strappo, un vuoto di senso: è qui, in questo spazio, in questo limite nel senso di punto di confine, in questa debolezza insomma, che possiamo essere incontrati e visitati da un Altro. Il limite è il luogo dell’incontro. Esilio, esodo, estasi son tutti termini che indicano una “uscita”, perché è proprio in questo sradicamento che si crea lo spazio, la capienza necessaria perché vi entri la speranza, la fede, l’abbandono. In questo non-luogo in cui mi affaccio posso finalmente accogliere l’altro. In queste ferite che sono aperte ci possiamo incontrare, perché se i nostri confini non fossero minacciati non ci muoveremmo mai di un passo. Da queste feritoie possiamo finalmente sbirciare oltre ,intravvedere nuove terre e spingerci in esse diventando noi stessi “stranieri” e “forestieri”.

L’assunzione della condizione di straniero oltre che renderci vulnerabili, ci rende anche consapevoli del dono ricevuto e ci libera dalla tentazione di dominio e possesso della terra e dell’altro. L’uomo infatti corre sempre il rischio di volersi impossessare di ciò che gli è stato donato e renderlo, così, strumento di morte. Già ad Adamo era stato affidato tutto il creato con la natura e gli animali, in qualità di “giardiniere”, cioè con un titolo regale secondo la tradizione semitica. Ed invece vediamo come da allora trattiamo questo dono che ci è stato affidato…

Verso la fine di questo viaggio scopriremo la nostra missione come Elia che, stanco, deluso e costretto a ripercorrere le proprie ribellioni, si sente tentato ad accomodarsi nella propria caverna e perciò si sente dire ancora una volta “Esci!”. Noi usciremo e tutto tacerà, ma, se accetteremo di ascoltare questo sconcertante silenzio, ci sentiremo dire “Torna sui tuoi passi” (1Re19), torna dagli altri, nel deserto, nella città, non importa, ma torna tra quelli che ti son stati riservati, perché non sei rimasto solo: c’è un popolo, una comunità, che ti aspetta, che ha bisogno di te, perché soltanto nell’incontro con gli altri potrai essere veramente te stesso; soltanto con gli altri scoprirai la tua vocazione, soltanto con gli altri riceverai la tua missione.

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