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Questo vino è dedicato agli uomini ed alle donne della GRANDE GUERRA 1918-2018, così c’è scritto sulla retro-etichetta dell’ultima referenza nata in casa Tecce.

La Cyclope, vino rosato prodotto con l’Aglianico, esordisce nell’autunno dello scorso anno e per molti costituisce la versione al femminile del Taurasi Poliphemo di Luigi Tecce, per tali altri un ciclope evirato delle sue componenti maschili ed una bella costruzione enologica. Una bella costruzione enologica che strizza con buona probabilità l’occhio ad un pubblico trasversale, quello che ama il vino contadino, quello che predilige la macerazione in rosso anche per i vini bianchi, quello che segue la corrente dei Triple A e quello che insegue le novità ed i vini interessanti.

Ma La Cyclope è davvero un vino interessante? Per certi versi certo che lo è! Scordiamoci però il vino contadino perché non è il vino crudo che principiava la fermentazione per un paio di giorni e finiva subito nella damigiana da 55 litri senza pigmentare, damigiana scolma per evitare che il nettare trabordasse proprio perché la fermentazione la terminava in vitro, assumeva tutte le caratteristiche del vino rosato, poiché tale era, e che il legno non lo vedeva proprio. In egual misura si eviti di pensare ai grandi macerati perché a contatto sulle bucce ci resta poco. Si sostiene che è un rosso in abito rosa e che lo si possa bere sin anche ad una temperatura compresa tra i 16 ed i 18 gradi. Una simpaticissima trovata che vede addirittura integrato in sé un qualche misurato difetto olfattivo e che certo non sfoggia evidentissimi sentori lignei, giusto perché non starebbe bene dimenticarsi neanche di coloro che col legno preferirebbero farci il tetto o dei bellissimi intagli.

Non esattamente un vino del ‘900 ma sicuramente frutto dell’anarchia enologica di un produttore che sa essere custode della viticultura di quell’epoca e che sa fare grandissimi vini rossi.

La bottiglia è figlia dell’uva Aglianico, come si diceva prima, proveniente dai terreni di Paternopoli e raccolta da viti ventennali allevate a cordone speronato con una densità di impianto di 2500 piante per ettaro, le quali affondano le radici in terreni di natura calcareo-argillosa, ricchi di sabbia e materiale piroclastico. Dopo la vendemmia le uve fanno fermentazione spontanea con macerazione breve sulle bucce in vasche di acciaio per poi affinare, senza filtraggio, un intero anno in tonneau di rovere da 500 litri.

La Cyclope Doc Irpinia 2018 possiede il colore del succo di melograno e di rosa antico assieme, dando vita a riflessi ramati, preludio dell’aspetto che sarà e della freschezza del presente. Per un rosato si può dire che la consistenza è da tagliarsi col coltello in effetti.

La prima parte della degustazione della venticinquesima di 2600 bottiglie vede una temperatura di 18° centigradi…

Sentori empireumatici di manto di cavallo e nota sulfurea sono ben integrate nell’effluvio alcolico, quasi da Marsala secco, che risale le narici con il balsamico del talco mentolato, poi la canfora ed un timido rintocco di rosa canina, la quale cede subito il passo al pepe verde ed al rosmarino essiccato, poi al boisé recondito di tostature e tabacco. Sorso decisamente sapido, quindi fresco e con una discreta presenza astringente ad asciugare il palato con un umami da pomodoro essiccato.

Ad una temperatura di 13° invece le note diversamente gradite si ricoverano da qualche parte nel calice, lasciando comunque la percezione di zolfo e volgendo in bosso, poi resta il pepe verde, la rosa canina ed il sentore di tabacco nero in lontananza. In bocca la temperatura più bassa fa percepire un’acidità disarmante e che tiene meglio testa alla sapidità, un’acidità che si fa più viva anche grazie al retronasale di pompelmo rosa e bergamotto, con un piccolo scampolo di tè incuso nell’astringenza, anch’essa amplificata. Insomma, ciò che olfattivamente vien meno e non è del tutto convincente il sorso lo restituisce con gli interessi, se così si può dire, e con una beva piuttosto succosa. Bevuta ad una temperatura più fredda sarebbe l’ideale sia con la caratteristica palatella con la ‘mpupata, ossia il panino con melanzane sottaceto, origano ed alici di Cetara sotto sale che si consuma a Ferragosto dopo aver visitato il Santuario di Materdomini a Nocera Superiore, che con l’altrettanto tipico panino con la milza che si consuma sia nell’Agro Sarnese Nocerino che nella Valle dell’Irno.

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