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La cooperativa Terre del Barolo intreccia storie familiari dal 1958, anno della sua fondazione, alle zone vocate alla viticultura. È Arnaldo Rivera che decise, assieme ad un gruppo iniziale di 21 viticultori della zona, di fondare un ente capace di dare voce alla territorialità ed alle persone comuni, andando persino contro ad alcune grandi cantine che detenevano il monopolio del mercato del vino in quell’epoca. Arnaldo Rivera, maestro di scuola elementare e partigiano, costituì dunque la struttura a Castiglione Falletto, piccolo paesino in provincia di Cuneo di cui era sindaco, e nell’ottobre del 1959 la cooperativa portò a termine la prima vendemmia, principiando i lavori per la realizzazione della cantina.

Nel ’78, precursori delle vigenti normative, Terre del Barolo avviò un programma di formazione ed assistenza tecnica per tutti i soci produttori, orientandoli verso la prevenzione fitosanitaria e gestendo acquisti in comune di concimi naturali, composti biologici e prodotti agronomici tradizionali, vantando una considerevole estensione terriera, pressoché immutata fino ad oggi, e staccando il miglior prezzo possibile a vantaggio delle economie delle famiglie contadine coinvolte nell’attività della vitivinicultura.

Da allora Terre del Barolo non ha fatto altro che strutturarsi, ingrandirsi, innovarsi ed adeguarsi nel tempo alle esigenze del mercato, mantenendo immutato il fattore più determinante: le risorse umane e l’interazione con tutti gli appartenenti alla cooperativa. Prestando fede alla costante qualitativa dei vini in produzione, Terre del Barolo conta oggi 300 famiglie coinvolte nella società, ben 600 ettari vitati negli 11 comuni nell’ambito del disciplinare del Barolo ed una forza lavoro costituita da 39 dipendenti.

Assaggiare il Barolo del ’74 di quest’azienda, così come ogni vino degno di essere bevuto e che la sorte ha voluto restasse intatto, è un appuntamento con la storia e la possibilità di fare un salto indietro nel tempo a partire dalla considerazione che all’epoca non era ancora stato riconosciuto come docg: bisognerà attendere il decreto del presidente della Repubblica del 1980 infatti. Forse sarà per questo che alle volte mi sovviene, soprattutto nello stappare una bottiglia appartenente ad un’epoca lontana, che se un vino potesse parlare probabilmente direbbe qualcosa del tipo…

 “la lezione sui viaggi nel tempo è spostata a ieri, metta a proprio agio l’olfatto e cominci a rispolverare quel che accadde tanto tempo fa, collegandolo a quanto percepisce adesso, se le aggrada”.

I libri, le bottiglie di vino e l’olfatto hanno in comune proprio questa cosa di essere una sorta di macchine del tempo che d’improvviso ci catapultano nel passato: ricordiamoci che è grazie all’olfatto, tra l’altro il senso più collegato alla vista ed al tatto, che riusciamo a rievocare dalla dimensione inconscia un evento o un’esperienza passata dopo aver sentito un determinato odore e per estensione, potremmo dire, dopo aver percepito un determinato sapore.

Certo che però, degustazione a parte, andarsi a rivedere quello che accadeva al tempo ci fa fare spesso dei pensieri che non condividiamo, o almeno è quello che capita a me visto che il 1974 aveva per certi versi il sapore di una primavera quarantottina, tutt’altro che rosa e fiori, tanto più che il clima di terrore era suppergiù lo stesso:  nel 1948, dopo le elezioni, aleggiava la paura di un colpo di Stato attuato dall’Unione Sovietica per far entrare l’Italia nella sua orbita, mentre nel 1974 la paura era che le forze eversive di destra potessero prendere il potere con la compiacenza di alcuni settori “deviati” del Paese. Fatto sta che dal punto di vista politico il 1974 è passato alla storia per essere una sorta di anno spartiacque, poiché l’estremismo nero e le forze reazionarie decisero di calcare troppo la mano, portando la Nazione sull’orlo del colpo di Stato: la strategia della tensione toccava il suo apice ed il terrore aveva fatto breccia in tutti gli strati sociali; quello fu pure l’anno del referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, dove i no vinsero con il 59,3% e la legge “Fortuna-Baslini” restò in vigore. Nel ’74 accadeva che la Lazio vincesse il suo primo scudetto, per quello che significa, ci fu l’arresto del boss mafioso Luciano Riggio, nacque “Telemilanocavo”, progenitrice delle tv private, ed Indro Montanelli fondò “Il Giornale”. D’altronde poi manco in Nord Europa si può certo dire che se la passavano granché bene: Il 5 ottobre 1974, un’unità di servizio attiva dell’IRA, in seguito nota come Balcombe Street Gang, effettuò due attentati a Guildford, spostando la resistenza irlandese in terra britannica.

Certo seduti comodamente sulla poltrona col nostro calice di Barolo tra le mani, che intanto si schiude, vien facile dire “un anno coi controcazzi” ma a viverci sul serio ci accorgeremmo che quel ’74 starebbe stretto ai più inveterati bastardi, procurando buchi di proiettile e detonazioni come effetti collaterali irreversibili al solo svoltare l’angolo sbagliato, altro che i mal di pancia che vengono a certi “qualcosenni” di oggi.

Però volendola prendere a ridere ce n’era di cose che ti facevano cariare i molari al sol sentirle, tipo Drupi con “Piccola e Fragile”, “Claudio Baglioni con “E Tu” ed i Cugini di Campagna con “Anima Mia”, robe che solo un Riccardo Cocciante con “Bella Senz’Anima” ti poteva raschiare di dosso. Però c’era anche Mina con “E Poi”. Scherzi a parte, erano tutte canzoni bellissime. La letteratura estera tirava fuori libri come “Carrie”, primo romanzo di Stephen King, e “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert Maynard Pirsig, mentre da noi si facevano equilibrismi non poco superbi in biblioteca tra un “Todo modo” di Leonardo Sciascia ed “Il secondo tragico Fantozzi” di quella belva intellettuale di Paolo Villaggio, che poi diverrà il secondo film della saga fantozziana, quello della corazzata Potëmkin per intenderci. Il ’74, un anno tremendo quasi quanto la signorina Silvani insomma, dove ci si prende a cazzotti di brutto come nello storico incontro “The Rumble in the Jungle”, il primo organizzato da Don King, ma dove ci si diverte coi pugni esilaranti in film come “Altrimenti ci Arrabbiamo” con la mitica coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill; uscirono “Profumo di Donna” con Vittorio Gassman, “Assassinio sull’Orient Express”, “Il Padrino parte II”, “Quella Sporca Ultima Meta” con Burt Reynolds, “Pane e Cioccolata” con Nino Manfredi, “Non Aprite Quella Porta”, “I Guappi” di Pasquale Squitieri e “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmüller

E chissà che quel “brutta bottana industriale e socialdemocratica” non fosse stato proprio, oltre al “j’accuse” liberatorio di un proletariato, oggigiorno letteralmente inghiottito assieme alla classe media, nei confronti di una Italia troppo amara da vivere, quel puntare il dito sfrontato e premonitore verso un Paese fatto a pezzi da una sequela di benintenzionati governi, quello dei migliori incluso. Che roba il ’74 ragazzi: e pensare che erano i tempi in cui fare cose di sinistra andava ancora di moda!

In ordine sparso vedono la luce Banksy, Joaquin Phoenix, Leonardo Di Caprio, Penélope Cruz, Christian Bale e Chris Kyle, cioè il cecchino dei Navy Seals che ha ispirato poi il film “American Sniper”. Un anno che vede, a dispetto di tutto quello che si possa pensare dei sopraccitati accadimenti e della grande ondata di freddo ad ottobre, una vendemmia ottima, addirittura maestosa a detta di altri, con un Barolo caratterizzato da profumazioni ampie ed intense, struttura notevole, austera ed armonica, di buona intensità gusto olfattiva e dalla piacevole persistenza.

E com’è andata dopo 47 anni col Barolo Doc 1974 di Terre del Barolo? Un colore non certo baldanzoso eppure rosso aranciato pieno e con tracce di media consistenza… questo dopo che la bottiglia è stata verticalizzata per un giorno intero e stappata il successivo, respirando per altre 24 ore, non senza che dessi prima una “sbirciatina nasale” che registrava una insistente posa di caffè e iodio medicinale. All’indomani del débouchage il sentore di caffè si appiana e si aggrappa a note di cacao e carruba, oliva in salamoia e salsa teriyaki, cenere di sigaro con le note terziarie di quello iodio e il balsamico da eucalipto. La degustazione ha un voluto lento incedere, cadenzato da qualche breve e distanziato sorso, il bouquet resta incernierato in quei profumi ma si cominciano a sviluppare note di melograno, ribes nero e tracce di ematico, ribes e pomodoro secco, il liquoroso e la ciliegia sotto spirito di un trentennale Tawny Port, le note terrose del tartufo nero. In bocca una evanescente quanto mai insospettabile aggressione gengivale cede da subito il passo ad una più evidente e sorprendente acidità contro cui si disintegra, poi al saporito più che al sapido. Tornano in retro olfattiva il melograno e la carruba, si intravvede la china ed il tamarindo, una certa tostatura da nocciola, il glutammico della teriyaki che pure ritorna assieme a quella cenere di sigaro che diventa tè nero però, con ancora cacao e caffè che non vogliono andar via. Piacevole intensità gustativa e media persistenza per un calice che resta comunque una sorpresa, per grazia ricevuta, e che una volta scarico svela una lievissima nota sulfurea, pot-pourri e tanto zafferano. Aperto tre anni prima dei miei 50, guardando scene della stessa annata a volume zero ed ascoltando “Angie” dei Rolling Stones.

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