Ceci sardi
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Nel cimitero dei sapori perduti. Un cece piccolo come una lenticchia, una pera che si mangia solo quando è diventata tutta nera, un limone apparentemente deforme e decine di mandorle, susine albicocche. Ma pochissimi ne conoscono i sapori. Sono i frutti in via di estinzione della Sardegna, un patrimonio di geni selezionato in secoli di adattamento che scompare per esigenze di mercato, cedendo il passo ai prodotti standard per gusto, forma e resa dell’agricoltura globalizzata. Gli studi dicono che oltre il 90% delle varietà di albicocco coltivate nel passato sono scomparse, l’84% dei susini, circa il 57% dei meli. È possibile arginare la morte dei sapori? Si, ma solo se si reintroducono nel mercato perchè in caso contrario la coltivazione delle specie non redditizie è un esperimento di breve durata. A cimentarsi in questi recuperi sono spesso le aziende che praticano l’agricoltura biologica, settore in cui la Sardegna ha il primato in Italia per percentuale di superficie interessata e i cui prodotti costituiscono il 20% del totale delle esportazioni all’estero.

Piccolo e testardo: un cece, un simbolo. Musei è un piccolo centro del Sulcis-Iglesiente, 1514 residenti censiti a fine del 2008, di tradizionale agricola, poggiato sulla piana del Cixerri. Qui una famiglia coltiva un piccolo cece che si suppone autoctono, dato che le sementi si tramandano da una stagione all’altra e da una generazione all’altra: è grande come una lenticchia, cotto è più piccolo di un pisello. Il gusto è più delicato di quello di un comune cece – grande cinque volte tanto – e anche la piantina è più minuta, di tronco e di foglie. Il piccolo legume è diventato un anno fa il simbolo di una fiera locale dedicata al consumo responsabile e ora è sotto le lenti di ingrandimento degli scienziati di Agris (l’Azienda regionale sarda che si occupa di ricerca e sviluppo in agricoltura). Si vuole studiare il dna del mini-cece, capirne l’origine. Le analisi sono affidate all’università di Sassari che, dapprima che nascesse Agris, ha avviato un progetto di recupero delle specie di leguminose autoctone e ha censito 73 varietà di fagiolo su cui sono stati eseguiti controlli morfologici del seme e analisi molecolari.

Intanto nel Sulcis si è deciso di incentivarne la produzione e lanciarlo sul mercato. La sfida è stata lanciata da un’associazione locale, il Centro sperimentazione autosviluppo (CSA) impegnata in un progetto di sviluppo economico fatto di consumo critico, rispetto dell’ambiente, ritorno alle produzioni tradizionali. Il Csa ha formato un gruppo d’acquisto e dal prossimo autunno proporrà anche i ceci di Musei tra i suoi prodotti.

Si ricomincia a seminare. Il vero problema non è tanto recuperare le specie e coltivarne i semi, è trasformare questi relitti in prodotti da immettere sul mercato, convenienti e appetibili, perchè non rimangano solo curiosità da laboratorio o, al massimo, da vivaio. E le difficoltà non mancano. Nella fiera di novembre, che ha portato all’attenzione dei partecipanti il piccolo cece, i coltivatori biologici e biodinamici hanno parlato proprio di questo e portato due casi. Il primo, positivo, era quello dell’arancio-vaniglia: per anni non c’è stata richiesta e gli agricoltori hanno smesso di coltivarlo, ma da qualche anno è tornato in auge e la moda alimentare ha costretto gli agricoltori a rivedere i loro agrumeti.

Discorso inverso per i carciofi: il mercato vuole sempre primizie e sempre con maggior anticipo, così si stanno perdendo oggi varietà di carciofo tardivo un tempo diffuse: l’ortaggio matura quando i suoi simili sono già in vendita da mesi e di conseguenza costa come una novità quando le persone si sono già stancate di mangiare carciofi. Non tiene il prezzo, non conviene e nessuno lo coltiva più.

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