Rivoluzione digitale
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Articolo di Milena Fadda

Nell’era digitale, molti sono stati gli stravolgimenti legati al quotidiano.
Da qualche anno, le nostre vacanze si prenotano e si pagano online, stessa cosa vale per la corrispondenza: la posta elettronica ha soppiantato i fax e in alcuni casi, le raccomandate: gli acquisti di ogni tipo corrono col puntatore del mouse e dall’abbigliamento alla tecnologia, è sufficiente munirsi di carta di credito, per dar sfogo al proprio estro sulla rete.
Ma il settore che probabilmente ha subito la trasformazione più significativa, è quello dell’informazione.
Se i social network come Twitter e Facebook stanno via via sostituendo i metodi di informazione tradizionale, non sempre l’affidabilità su quanto circola in rete è garantita.
Caso eclatante è quello di Rossella Urru: l’attivista sarda rapita in Algeria nell’ottobre 2011 e data per libera nel marzo 2012 in un turbinare di festeggiamenti “virtuali”, salvo poi dolorosa smentita da parte della Farnesina il giorno stesso (poi finalmente confermata il 18 luglio 2012).
Circostanza che sta a dimostrare quanto potere mediatico possa vantare il semplice passaparola, purché consumato in tempo reale.

L’affidabilità della notizia, quindi, e la sua verità. Capisaldi del giornalismo congruo, corretto, etico. Altro avvenimento che ben evidenzia a cosa si va incontro con l’uso indiscriminato della mala-informazione. Roberto Saviano (scrittore e giornalista tra i più seguiti in Italia), nel 2003 accusa tale Giorgio Magliocca (ex sindaco del casertano), di favorire il clan locale dei Lubrano e dei Ligato in pratiche edilizie sospette. Perché “tale Giorgio Magliocca”? Perché si tratta di una persona che non si è mai sentita nominare, e che forse non si sentirà nominare mai più, visto il danno d’immagine pressoché irreversibile. Che ha pagato, con una pena detentiva di undici mesi, per qualcosa cui era estraneo. La notizia, come spesso accade per quelle news che vanno a scalfire l’eroe di turno, non ha avuto la giusta risonanza sulla carta stampata. Risonanza, beninteso, imposta dalla legge: con smentita di pari rilevanza, da pubblicarsi da parte dell’organo di stampa coinvolto. In questo caso, sono stati i social network a scatenare le dovute polemiche e senza il tam-tam virtuale la vicenda sarebbe probabilmente rimasta nell’ombra. Il tutto, però, a cose fatte. Si sa, in tempi veloci, il vecchio lavoro sporco della verifica è spesso annoso ed estenuante.
La differenza, ancora una volta, la fa l’editoria tradizionale, per mezzo dell’inchiesta di matrice classica. Anche se, dal Guardian, al Telegraph, ultimamente l’approfondimento va in stampa grazie al metodo del crowdsourcing: i lettori sono direttamente chiamati a partecipare alla nascita della notizia. Procedimento non ancora definibile “giornalismo partecipativo”, ma che pur sempre si avvicina a una democratizzazione della notizia.
Nella rivoluzione digitale, importanza cruciale va data anche e soprattutto al tipo di supporto a mezzo del quale l’informazione viene veicolata.

Nei primi anni 2000, internet inizia a sostituirsi alla televisione per mezzo di contenuti video liberamente consultabili. Il motivo è semplice: il digitale abbatte i costi di distribuzione dell’informazione, il tutto grazie al web-hosting: ci si iscrive a un sito internet di portata internazionale (quest’ultimo punto è di fondamentale importanza, in termini di “spazio virtuale”) che faccia della condivisione video il proprio obiettivo aziendale, si accettano le clausole del contratto (che prevedono, raggiunto un determinato numero di visualizzazioni, l’inserimento di spot pubblicitari prima del caricamento del video), e il gioco è fatto: si può arrivare ovunque, senza mediazioni né vincoli. Ed è questa, forse, la vera innovazione.
La semplicità di distribuzione facilita spesso il giornalismo partecipativo, sarebbe a dire quello messo in atto da non addetti ai lavori.
E qui, come nel caso Saviano e in quello Urru, la bufala è a portata di mano.
Se è vero che “tutto è informazione”, si può affermare anche il contrario. Ed ecco nascere in quantità industriale siti internet che della definizione di “informazione” si ammantano, senza tener conto delle conseguenze. Tra gli esempi più rilevanti, si possono annoverare tutti i contenuti in qualche modo complottisti: ce n’è per tutti i gusti, dal NWO (New World Order, che, partendo dalla massoneria statunitense, teorizza un nuovo ordine mondiale in cui i grandi della terra stanno approntando una nuova tipologia di schiavitù cui ridurre noi comuni mortali), all’impianto di microchip sottocutanei, da parte di varie intelligence internazionali corrotte e miranti al controllo delle coscienze; per non parlare di tutti quei siti che si occupano di informare nel tentativo di sostituirsi alla medicina tradizionale e alla ricerca: in questi casi la divulgazione generalmente interessa gli effetti cui si va incontro con l’uso di droghe, ma persino vaccinazioni e disturbi metabolici come il diabete, non sfuggono al vaglio dei nuovi guru dell’approfondimento online.

Spinosa questione, quella sollevata da centri di ricerca e studiosi dei mass media: è giusto che l’informazione possa essere in balia dell’uomo della strada?
E se sì, quali rischi si corrono? Si sa che, a una democratizzazione orizzontale dei mezzi di stampa fa seguito il quarto d’ora di celebrità, in cui, anche quanti completamente estranei a un determinato ambito, possono, una volta dichiarata la propria opinione, sollevare la facile polemica. Ma è altrettanto vero che, quanti in grado di esprimere un’opinione su fatti e avvenimenti, hanno tutto il diritto di condividerla sulla pubblica piazza. A quesiti del genere pare non esserci via d’uscita, se persino le Nazioni Unite hanno deciso di avviare un forum internazionale, riguardo la condivisione di responsabilità nella gestione della rete globale (si tratta dell’IGF, Internet Governance Forum). Ancora una volta, è la deontologia a poter fare la differenza. L’etica del mestiere, ultimo baluardo di civiltà cui non ci si può sottrarre, in un panorama, quello delle news in rete, ormai sovraffollato.

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