Una delle trincee in corso di scavo
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Alghero (ITALIA)

Foto di Marco Milanese

Scoperto un cimitero medievale nel centro storico di Alghero

Hai scoperto qualcosa di bello? Domanda cult, a cui nessun archeologo può sottrarsi. Di solito per «bello», l’interlocutore intende un oggetto di seducente fattura artistica, meglio ancora se realizzato con materiale prezioso e ben conservato. E non importa se le informazioni che il reperto trasmette siano storicamente rilevanti, giacché nell’immaginario comune il ruolo dell’archeologo è di stupire raccontando e non di raccontare creando stupore. Così ciò che l’archeomania televisiva dimentica spesso di insegnare è che dietro le piramidi di Giza e i corpi fossilizzati di Pompei c’è sempre lo stesso uomo, sia esso faraone o individuo qualunque. L’approccio filantropico che sfugge ai più è invece l’alchimia dell’archeologo, la pietra filosofale che permette di trasformare anche un «mucchio d’ossa» in una storia d’ordinaria straordinarietà.

Significativa ed emozionante è in questo senso la scoperta, effettuata nella città di Alghero (costa nord-occidentale della Sardegna) di un cimitero medievale. Gli scavi sono siti presso un ex Collegio Gesuitico, costruito a partire dal 1589 sul luogo di un grande cimitero urbano ed attualmente in corso di restauro. Le ricerche, iniziate nel giugno del 2008 e proseguite con crescente intensità fino allo scorso settembre, sono state temporaneamente sospese. Quello che un’équipe di archeologi ed antropologi, diretti da Marco Milanese – Ordinario presso l’Università di Sassari e medievista di fama internazionale – ha messo in luce è un ritrovamento finora unico in Italia e nel Mediterraneo.

Si tratta di 14 sepolture collettive a «trincea», ciascuna contenente in media i resti composti di 10-15 individui (fino ad un massimo di 30). Una decina di sepolture a fossa, le quali includono 4-6 scheletri (fino ad un massimo di 17), completano la facies funeraria del XVI secolo. Il seppellimento pressoché simultaneo dei corpi ha fatto supporre agli archeologi una tragica fatalità, verosimilmente la devastante peste che colpì la città di Alghero negli anni 1582-83. Ma mentre l’implacabile morbo della Yaersinia pestis ci evoca immagini di camusiana memoria, dove alla solitudine della lacerazione si contrappone il crudele destino delle fosse comuni, non possiamo che sentirci partecipi della pietas che ha sovrainteso la deposizione degli appestati di Alghero. Chiaro è infatti l’intento di proteggere l’individualità dei defunti, con l’esposizione non solo del volto di ciascuno di essi, ma della maggior parte del corpo, dal bacino o dai femori in su. Lo scavo delle sepolture ha permesso inoltre di documentare legami familiari esistenti fra gli inumati: adulti che cingono con le braccia bambini o ragazzini, bambini molto piccoli deposti fra le gambe del genitore, interi gruppi formati da adulti di ambedue i sessi associati a bambini di varie fasce d’età. Di particolare impatto emotivo è lo scheletro di una donna che racchiude nel ventre un feto di sette mesi. I caratteri della popolazione rappresentata nel cimitero sembrano riconducibili ad un gruppo etnico alloctono, appartenente a quell’enclave catalana stabilitasi ad Alghero dopo il 1354. Avvenimento che diede avvio all’espulsione dei sardo-liguri (la fondazione di Alghero risale agli anni intorno al 1260, ad opera della famiglia genovese dei Doria) e all’immigrazione di coloni catalano-aragonesi provenienti dalle città di Barcellona, Valencia, Tarragona e Maiorca. Il processo di «sardizzazione», avvenuto alla fine del Cinquecento, fu dunque preceduto da una dimensione mediterranea, che ancora oggi caratterizza profondamente la cultura di Alghero.

Amuleto di corallo
Amuleto di corallo

Le frequenti carie riferibili ad un’alimentazione ricca di zuccheri e l’apparente assenza sulle ossa degli inumati di segni dovuti ad attività lavorative usuranti, suggeriscono agli antropologi che le persone deposte nelle sepolture collettive appartenessero ad un ceto sociale medio. Le tracce lasciate sulle ossa da attività fisiche ripetute nel tempo hanno permesso perfino di attribuire ad alcuni personaggi del cimitero mestieri singolari, come quello del corallaro, attività testimoniata anche dal ritrovamento di un rametto di corallo con una capsula d’argento finemente lavorata. Un amuleto non molto efficace, ma rispettosamente lasciato sul petto del defunto.

Presenti inoltre fra gli inumati cavalieri e arcieri, figure leggendarie che già nel XIV secolo avrebbero strenuamente difeso la città dall’attacco del re aragonese Pietro IV. Intrigante la scoperta dello scheletro di una quindicenne che portava un misterioso collare di ferro: potrebbe trattarsi di un oggetto taumaturgico, usato per liberare ossessi e indemoniati da presunti malefici. Una statuina di legno fossile raffigurante San Giacomo di Compostela, souvenir di un pellegrinaggio in terre lontane, è stata trovata al collo di un’altra donna. Ma c’è chi agli amuleti preferiva i propri risparmi, come testimonia un fagottino in stoffa contenente alcune monete e appartenuto ad un’anziana, ribattezzata dagli archeologi «l’avara».
«Le ossa sono come dei registratori – dice Marco Milanese – capaci di restituire la storia della società. Per questo il nostro intento è quello di far confluire i reperti del cimitero medievale in una sorta di archivio biologico. Un luogo aperto al pubblico, che sia funzionale sia alla ricerca che alla didattica, e contribuisca a sviluppare la coscienza dell’identità etnica e culturale della città di Alghero». Memorie e identità. Anche questo è il bello dell’archeologia.

* articolo originariamente apparso su Alias del 19/12/2009 e riportato anche su http://tysm.org/?p=3957

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