Fig. 1 Paul Cézanne L'Estaque
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“La mer/Qu’on voit danser le long des golfes clairs/A des reflets d’argent/La mer/Des reflets changeants/Sous la pluie…” (“Il mare/Che vediamo danzare lungo i golfi luminosi/Ha dei riflessi d’argento/Il mare/(ha dei)Riflessi che cambiano/Sotto la pioggia…”): così cantava Charles Trenet in una celebre canzone degli anni ’40 da lui composta mentre, in treno, percorreva la costa del Mediterraneo.

E sempre al mare un altro francese, Claude Debussy, aveva dedicato, a ‘900 appena iniziato, una delle sue composizioni più famose, La mer appunto, definita dai critici “il miglior poema sinfonico mai scritto da un francese”. Si era nel 1905, e mentre a Parigi veniva eseguita l’opera di Debussy per la prima volta, Paul Cézanne compiva una letterale rivoluzione in arte eseguendo il primo dei dipinti da lui dedicati a La montagna Sainte-Victoire nella sua Aix-en-Provence posta a pochi chilometri da quel Mediterraneo che anni prima aveva non solo ammirato, ma dipinto.

Il mare di L’Estaque,(fig. 1), località del golfo di Marsiglia dove la famiglia Cézanne usava passare le estati, fu, infatti, rappresentato negli anni ’80 dell’800 dal giovane pittore che così ne scriveva all’amico Camille Pissarro: “… È come una carta da gioco. Tetti rossi sul mare blu…”. La località marina, cara alla giovinezza di Cézanne, tornerà ad essere al centro della rappresentazione pittorica agli inizi del ‘900 grazie ai colori decisamente fauve di André Derain (fig. 2) e alla visione cubista da Georges Braque (fig. 3). Cagnes-sur-Mer (verde e assolato villaggio di pescatori che accolse Renoir – fig. 4 -), Antibes (dove Matisse e Picasso dipinsero le loro rispettive interpretazioni de La gioia di vivere rappresentata, per Matisse, da figure colorate, distese al sole e immerse nella natura in piena libertà con il mare lontano a fare da sfondo – fig.5 – e per Picasso da una realtà marina a tutto tondo, capace di tingere di blu l’intero paesaggio, esseri viventi compresi – fig.6 -.

Che notevole differenza dalla descrizione pittorica che Boudain aveva dato di Antibes – fig. 7 – mezzo secolo prima e Signac – fig. 8 – solo trenta anni prima!), Colliure (da cui Matisse – fig. 9 -, Picasso e Derain – fig. 10 – trassero le loro fantasmagoriche esplosioni di colori) nonché Céret, località della Catalogna, posta appena dopo il confine francese (Braque, Gris – fig. 11 – e Picasso ne rimasero incantati) sono solo alcuni dei nomi delle località di mare che affascinarono artisti giunti da varie parti, soprattutto dal Nord i cui grigiori volevano lasciarsi alle spalle per immergersi nel felice, quasi carnale oblio della luce, del calore e del colore della costa mediterranea. Anche Pierre Bonnard, nato non lontano da Parigi e formatosi nelle brume della Bretagna con il gruppo dei Nabis, non sfuggì alla magica fascinazione che il mare del Sud francese operava sui pittori e, trasferitosi sulla Costa Azzurra, a Le Cannet, località non lontana da Cannes, incominciò a dipingere incantate e colorate visioni marine, osservate attraverso finestre quasi sempre spalancate (fig. 12) come a voler testimoniare il desiderio, davanti a tanta rigogliosa bellezza della natura, di apertura gioiosa verso l’infinito esistente anche in chi, come Bonnard, amava vivere appartato negli interni della propria casa. Come non pensare ad Emily Dickinson che, chiusa nella sua piccola stanza di Amherst nel Massachussets, spalancava le finestre del suo cuore e della sua anima all’immensità scrivendo: “Come se il mare aprendosi/svelasse un altro mare,/e questo un altro ancora/e i tre presagio fossero/d’infiniti mari/mai toccati da riva./Come se mare/a mare fosse riva./Questo è Eternità”? Concetto profondo e splendido, già espresso prima di lei in pittura agli inizi del XIX secolo da Caspar Friedrich le cui figure di spalle, senza differenza di sesso (precorrendo notevolmente i tempi, Friedrich riconobbe alle donne non solo il possesso di un’anima, ma la capacità di pensare e di indagare con la ragione la realtà) meditano sull’esistenza contemplando, in un irrefrenabile desiderio di spiritualità ed infinito, la grandezza sublime della natura rappresentata dal mare che si estende davanti ai loro occhi divenendo tutt’uno col cielo (figg. 13 e 14).

La luce dei mari del Nord così fredda e ben lontana dall’esplosione di colore che caratterizza le sponde del Mediterraneo simboleggia la ragione che viene rischiarata dalla luce della fede. L’immagine poetica dell’essere umano che aspira all’infinito viene magnificata da Friedrich in un’altra sua celebre opera, Monaco sulla spiaggia (fig. 15), dove la minuscola figura del religioso si trova a fronteggiare e a perdersi in un immenso vuoto formato da mare e cielo che inghiottendolo gli da la dimensione della sua pochezza davanti alla grandezza di Dio. Apprezzata da Kleist e Schopenhauer, questa opera è ricca di quella spiritualità e mistero di cui è carica la natura che influenzò anni dopo un altro pittore, William Turner, che la pose al centro della sua ricerca pittorica rappresentandone come nessun altro mai gli umori “in modo emozionante e sincero” come ebbe a dire il suo connazionale John Ruskin. La natura imprevedibile, violenta e selvaggia è da Turner perfettamente rappresentata attraverso un mare in tempesta in balia del quale si trova una piccola imbarcazione (fig. 16), soggetto che meglio di qualunque altro riesce ad esprimerne al contempo il potere distruttivo che la spiritualità. La stessa spiritualità alla quale, in modo decisamente meno impetuoso, aspira anche lo svizzero Arnold Böcklin nel suo L’isola dei morti (fig. 17) che tanto colpì Freud, Lenin, D’Annunzio e persino Hitler. Nel dipinto ritorna la bianca figura di spalle del monaco di Friedrich nell’atto di raggiungere a bordo di una barca un’isola caratterizzata da rocce e cipressi. Il mare che la circonda è nero come l’inchiostro ed aumenta in chi guarda il senso di mistero che pervade il dipinto.

A quale paesaggio marino si è ispirato Böcklin? Corfù? Capri? Ischia? Poco importa. Quello che colpisce è che i colori cupi e freddi del Nord e della ragione si sono impadroniti dei quelli smaglianti del Mediterraneo spiritualizzandoli. Il dipinto di Böcklin sembrerebbe indicare che quel mare da cui, pare, anche noi proveniamo non solo può dare gioia di vivere, ma, nella sua simbologia di liquido amniotico, è in grado di produrre nuova vita in quanto capace di condurre l’essere umano verso quella spiritualità foriera d’infinito a cui noi tutti tendiamo.

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