Chi può dirsi un cittadino sotto tutti gli aspetti? Colui che abita in una città, ne condivide il ‘tessuto’ socio-culturale, è riconosciuto da uno Stato, gode di alcuni diritti. Chi può dirsi non-cittadino (straniero)? Colui che, pur abitando in una città che non è la sua d’origine, oltre a non condividere (ancora) le prerogative di cui sopra, non sente che solamente una ‘inquietante prossimità’ di coloro che la dimorano precedentemente, una differenza di ‘habitus’ (nel doppio senso di dimora e vestito) mentale e sociale.
Quindi, uno straniero che voglia dirsi cittadino di un luogo non nativo, deve attraversare la possibilità di essere ‘oscurato’ dall’Intorno che lo ‘segnala’ come diverso, che mette una ‘barra’ differenziale tra sé ed il resto, che pretende di definire i suoi limiti, affinché nel suo (possibile) percorso di integrazione, sia sempre chiaro che le radici (culturali, antropologiche, psichiche) appartengono ad una ‘matrice’ che non si è ‘generata’ lì, ma in un luogo altro.
Questo perché, nel tentativo di volerlo ‘addomesticare’ per portarlo verso i propri ‘lidi’ di familiarità con l’ambiente circostante, ci si può poi rendere conto che tale tentativo si ‘vesta’ di im-possibilità, in quanto manca un ancoraggio alla doppia ‘dimora’ del Padre/Patria, e la sua esistenza deve potersi snodare nel campo dell’Altro (sociale), tramite un ‘recupero’ dell’originario Nome-del-Padre collettivo.
Lo straniero che vuole calarsi nell’essere cittadino tout-court, è qualcosa che assomiglia ad un enigma, capace di far provare a chi ‘inciampa’ in lui, una sensazione di ambivalenza, che si manifesta in un impeto di curiosità verso un ‘oggetto’ sconosciuto, ed una diversa percezione, quella di angoscia verso ciò che nel non essere compreso da subito, si palesa come una ‘oscura straordinarietà’, che mette in gioco il proprio equilibrio sia di appartenenza psicosociale che di ‘patritudine’ che sembra albergare nel cittadino ‘conclamato’.
Tale ‘maschera’ straniera, che desideri ‘farsi’ cittadino è spesso sentita come una minaccia, come qualcosa che si imponga come ‘pathos’ da affrontare, da delimitare, e che misura la nostra capacità di affrontare la diversità, senza l’impellenza di dover erigere una ‘barriera’ di distinguo, di ‘come se’, di alterità disturbante, di ‘doppiezza’ irrinunciabile, verso la quale la propria ego-sintonicità tenderebbe a vacillare. Forse, ad una logica che vorrebbe mettere ‘in riga’ il mondo esterno, nel tentativo (vacuo) di voler ordinare un caos primigenio relativo al diverso ‘locus’ di nascita/appartenenza, di psichicità altra, si dovrebbe sostituire una logica di un possibile lasciarsi ‘attraversare’ dal nuovo, di una ‘introiezione’ inter-culturale positiva, non pensando allo straniero come una ‘scoria’ da evacuare, come un ‘rifiuto’ da rigassificare.
Val la pena di riconsiderare il rapporto interno-esterno, tra vicino e lontano, tra ciò che mi è (possibile come) prossimo, e ciò che mi è (delusoriamente) lontano.
Spesso, il non-nativo, colui che si manifesta come una ‘distanza’ dalla propria mente, ‘incespica’ nella rete di ciò che si definisce un ‘sistema doxico-ideologico’, ossia:”un incrocio di opinioni, di traversamenti ideologici (riferiti ad un’idea portante) ed emozionali, che si costituiscono in una comunità o sotto-comunità nella quale vive il singolo o si fonda il piccolo gruppo. Tale sistema diviene, sottilmente, un substrato ideologico condiviso, che si palesa con una serie di comportamenti che si coagulano nella collettività, nella singolarità, nella sovrapposizione tra plurale e singolare.” (S. Piro, 1993). Allora, può scattare un minimo comune denominatore, sottinteso ad una data collettività, che è quello della paura, che si originerà dalla diversa ‘cromaticità’ dell’epidermide, da una lingua non comprensibile, da un credo religioso differente dal proprio, facendo sì che si crei un ‘feticcio’ dell’insicurezza, dell’instabilità dei rapporti inter-culturali, che cominci ad ‘albergare’ nella psiche sociale della comunità in questione.
Jim Morrison, cantante del gruppo pop “The Doors”, asseriva in una canzone: “People are strange, when you’re a stranger” (La gente è strana, quando tu sei straniero) (The Doors, 1967), dando ad intendere che già lo statuto di nascita georgrafica diversa, influenzi in qualche modo la modalità di relazionarsi verso i soggetti stranieri che si incontrano nel proprio Paese.
Ma allora, cosa è uno straniero? Esisterebbero dei termini che contraddistinguono tale significante. C’è un ‘altro’ (eteron, gr.) che è qualcosa di differente da sé stessi, ma non necessariamente avente nazionalità diversa. Viene poi lo ‘xenon’ (estraneo, gr.) (da cui il termine ‘xenofobia’, paura dell’estraneo), che parla un’altra lingua, ‘narra’ un’altra cultura e quindi viene ‘intercettato’ come non appartenente a quella data ‘Gemeinschaft’ (comunità).
Poi, ancora, esiste un soggetto ‘apolide’ (apolis, gr.), che si può paragonare in un certo senso alla figura di ‘atopos’ (senza luogo, gr.), seppur con la constatazione di non avere un luogo di origine di nascita bene definito.Questo accade perché si pensa che il luogo geografico dal quale si origina un discorso sia contiguo a quello dal quale si parli, mentre, seguendo M. Foucault, ciò non appare in tal modo, in quanto il soggetto di un enunciato, non è quello, sempre, dell’enunciazione. Vige, allora, da parte di chi ‘seleziona’ l’estraneità di un soggetto, l’idea di una funzione ‘geo-egoica’ che tenda a dirompere con vigore in una modalità universale della parola, sebbene legata ad un’estrema localizzazione della stessa, quasi che i confini del mondo non possano essere che quelli del proprio ambiente. Quei confini che, prima di palesarsi come ‘terrestri’, si sviluppano come luoghi ‘barrati’ della psiche soggettiva.
In effetti, l’azione di designare un confine è qualcosa che serve a dividere, a far sì che venga scotomizzato l’altro (estraneo), quasi che quella ‘linea’ sia la demarcazione di un ‘contratto’: l’estraneo (se è presente), è fuori dal luogo (simbolicamente) che mi appartiene, e deve restare ‘confinato’ ad un ‘topos’ immaginario. Inoltre, un confine lo si può tracciare non solo come una linea retta o curva, ma anche come una ‘cavità’, qualcosa che separi un dentro (l’appartenenza) da un fuori (l’estraneità) (alcuni autori psicoanalisti definiscono ‘borderline’, proprio quelle possibili dimensioni patologiche che sembrerebbero essere al ‘confine’ tra le diverse strutture nevrotiche, psicotiche, perverse, in quanto, secondo questi, non avrebbero lo ‘statuto’ completo per una definizione precisa. Probabilmente, anche tale ‘confinamento’, ad un’analisi più accurata, potrebbe rivelarsi fittizio), e che ‘marca’ il ‘territorio’ di una possibile preferenza divisoria, ponendo in essere una determinata asimmetria, nella quale debba essere chiaro qual è la posizione del ‘separante’ rispetto a quella del ‘separato’. Il soggetto che separa desidera distinguersi dal soggetto che riceve la ‘separazione’, poiché la sua estraneità deve diventare una ‘insegna’, al di sotto della quale sia possibile ‘catalogarlo’, impedendogli la possibilità di una integrazione (sociale, culturale, linguistica, psicologica), mentre, al contempo, si viene ad originare una ghettizzazione che si vorrebbe addirittura far leggere ai soggetti implicati, non come un’esclusione, ma come una ‘segnalazione’ positiva rispetto alle loro estraneità (tipico è il ‘discorso’, in senso causativo e non soggettivo, delle varie ‘leghe” o associazioni che, relativamente ad un disagio, come gli attacchi di panico o la anoressia, si riuniscono in maniera conforme in gruppi omogenei sotto la ‘bandiera’ del loro ‘sintomo’, ed, anziché riportare tale ‘verità’ rimossa verso un’orizzonte epocale singolare, restano ancorati ad una logica di ‘crociata’ contro tale ‘questione’, nella speranza che l’unione di più ‘crociati’, possa avere ragione della ‘mecca’ della situazione patologica).
Questo starebbe a significare che, a fronte di un’apparente apertura verso lo straniero, la ‘rivelazione’ sarebbe che l’io è già un altro perché l’estraniazione ha il suo ‘cominciamento’ presso i luoghi natii. Il soggetto ‘indigeno’ non desidera, quindi, un ‘rispecchiamento’ verso l’altro straniero, ma, anzi, necessita di un ‘raddoppiamento’, nel senso che l’estraneo non diviene un soggetto/oggetto verso il quale si possa ‘riflettere’, ma il momento di un’adeguata ‘sottrazione’ singolare ad una possibile dialettica inter-soggettiva del riconoscimento, che lascia il posto ad un ‘monadico’ logos intra-soggettivo del godimento ‘escludente’, una sorta di autoreferenzialità sull’essere se stessi senza l’altro (soggetto), che, viceversa, potrebbe diventare soltanto una turbativa dell’ordine (fittizio ed immaginario) di una propria ‘ipseità’ a-xenonica.
Chi rifiuta l’idea di un accostamento dialettico con un cittadino straniero, a priori, sceglie questa possibile ‘Erlebnis’ (esperienza) come un discorso eccedente il proprio ordine stabilito, il proprio riconoscersi come soggetto stabile di una patria definit(iv)a fin dalla nascita, ed anzi, ne sancisce (e, talvolta, sanziona chi li ‘oltrepassa’) i possibili confini.
In via eccezionale, tale soggetto straniero potrebbe essere parzialmente incluso, ma a determinate condizioni, che sarebbero quelle di accettare in toto usi e costumi locali, senza nessuna possibilità di ‘intromissione’ di differenti significanti, così da essere ‘normotizzato’, senza il rischio che la sua parola possa divenire ‘perturbante’ per quell’ordine pre-costituito, e non volutamente ‘open-space’ per l’accoglimento dell’estraneità.
Riguardo a ciò che concerne la sensazione di paura che un cittadino straniero alimenta suo malgrado, ciò accade perché egli è visto (meglio, rappresentato) spesso come un possibile portatore di male, seppur, seguendo P. Ricoeur che afferma: “Il male è una provocazione a pensare di più”, dovremmo chiederci il perché di tale rappresentazione, che sfiora sovente le ‘maglie’ di un irrazionale molto vivido. A tal proposito, in un’analisi che contempli non solo il reale della situazione, ma anche, appunto, l’Immaginario, concorrono, in senso negativo, i mass-media che offrono del ‘materiale’ che, invece di lasciare spazio ad una possibile elaborazione di un fatto accaduto, indicano stili, figure retoriche del negativo, che implementano, nel cittadino autoctono, l’idea di una stigmatizzazione del cittadino straniero, indipendentemente dalla possibilità che gli abbia o meno commesso quel tale reato o atto improprio.
Questo accade perché, probabilmente, già in ognuno di noi c’è il rischio che alberghi l’idea che chi non è nato nella stessa terra, sia, potenzialmente, un nemico, un ‘invasore’ della propria patria natia. E’ apparso spesso emblematico, infatti, come siano state trattate le informazioni a proposito di alcuni fatti delittuosi accaduti in Italia, quando, nelle ipotesi relative agli eventuali autori dei reati, venisse ventilata o indicata la possibilità che a commetterli fossero stati cittadini non italiani. Ad esempio, nella vicenda delittuosa di Novi Ligure, la prima idea che fu recepita, senza nessun beneficio d’inventario, si basò sulle subitanee testimonianze di Erika e Omar (autori reali del delitto della madre e del fratellino di Erika), che indicarono, fingendo sgomento e paura, come aggressori entrati nella casa di quest’ultima, un gruppo di cittadini albanesi, così da far scattare, oltre alle indagini in tal merito, anche le opinioni (quel sistema doxico di cui sopra) sui quotidiani del giorno dopo, che pubblicarono una ridda di invettive contro gli stranieri nel Paese, fino a chiedere eventuali leggi speciali di polizia per costoro. E la differenza tra i media a tal proposito, non fu nel ‘peso’ della notizia, data già per vera, quanto nel minore o maggiore vigore della drammatizzazione, nel ‘fuor di metafora’, nell’imbastimento di una retorica xenofobica, tendente a produrre sempre più uno ‘scollamento’ tra l’opinione pubblica e coloro che venivano indicati come il ‘nucleo’ del Male nella terra a loro straniera.
Così, con una certa manipolazione della notizia in itinere acclarata da una parte dei media, lo straniero viene a rappresentare una simbolica del Male, che non è che una perversa ‘animazione’ di antichi stereotipi, di ri-creazione di pensieri già noti, tesi a sostantivare l’immagine anomica di tali soggetti ‘esterni’ (già presente nel ‘registro’ dell’Immaginario di una comunità), e, nel suo cortocicuitarsi, tendente ad essere re-alimentata.
Concludendo, la corrente retorica dello straniero che ‘produce’ paura, se non resa simmetrica ed inefficace dal concetto di ‘hostis’ (‘lo straniero che alberga in noi’), rischia di diventare un neo-pensiero (e, seguendo l’Orwell di ‘1984’, anche una ‘neo-lingua’), che, anziché dirimere la questione del cittadino proveniente da altre culture e la sua possibile ‘nominazione’ nella comunità visitata, possa ancor di più complicarla e renderla ‘vischiosa’, così da far girare costantemente un’idea ‘gelatinosa’ nel suo essere negativa, sull’auspicabile rapporto tra cittadini indigeni e lo xenos, tra una politica sociale rivolta adeguatamente ad un ‘hospes’ (ospite) e quella relativa al cittadino straniero indicato come ‘hostis’ (nemico).