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Scorgere tra gli angoli più reconditi della cantina una bottiglia quasi dimenticata, una bottiglia magari non sfiorita col passare degli anni, può diventare un’esperienza interessante ancor prima dell’assaggio: la metafora del tempo che scorre così come il vino fluisce nel calice è calzante, soprattutto quando la nostra visione umana non è incentrata sull’inesorabilità del primo né sulla fretta di stappare il secondo bensì sul diritto all’attesa, per volontaria o casuale che sia. Bisogna essere ottimisti e guardare tanto al tempo quanto al vino come ad entità galanti che alla fine di un ciclo lunghissimo ci concedono piaceri e risposte inaspettate.

Stappare una bottiglia che viene da un’epoca ormai lontana comporta sempre delle sorprese, si spera in positivo, ed inevitabilmente i pensieri non potranno che andare verso quel periodo ed ai ricordi di cui è foriero. In questo caso si tratta del 1998 e la bottiglia in questione ci dà una buona scusa per rammentare l’ottimismo dei viticultori altoatesini per la sanità delle uve, per la buona piovosità nei periodi giusti e per l’incremento del raccolto attorno al 15% a quel tempo rispetto agli altri anni, e costituisce anche una buona occasione per ricordarne le origini ampelografiche e meditare sull’evoluzione delle caratteristiche del vino…

Per quanto il nome possa richiamare la Vallagarina quale areale di origine, così come ipotizzato da Norberto Marzotto, in realtà il vitigno in questione, ossia il Lagrein, vede nell’antica varietà greca Lagaritanos un’etimologia del nome ed un’assonanza genetica molto più accreditata: Il Lagarino era infatti il vino che ne derivava e prodotto a Lagaria, insediamento della Magna Grecia posto sulle sponde del Mar Jonio in Lucania ove, con buona probabilità, gli stessi colonizzatori posero a dimora i semi che, a poco a poco nei secoli ed in forma di tralci, risalirono fino alle regioni più settentrionali lungo il Mare Adriatico. Il percorso dell’uva Lagarino la porta a risalire nel tempo il fiume Adige, a sostare dapprima nelle pianure di Verona e sulle colline di Rovereto, attraversando l’Altipiano del Brentonico per poi trovare finalmente la sua terra più vocata nella conca di Bolzano.

In effetti non mancano le citazioni di questo vitigno nelle fonti storiche di questa regione: l’editto dei monaci di Gries del 1097, che fissava le regole di vendemmia,ne è un chiaro esempio e non a caso il cuore del Lagrein è situato tutt’oggi nei tenimenti del monastero benedettino. Nel 1370 un’ordinanza di Carlo IV di Lussemburgo interruppe la distribuzione di vino Lagrein tra le fila del suo esercito, sostituendolo con quello fatto con l’uva Schiava, più leggero e meglio indicato per l’allerta durante le campagne militari. Per quanto a partire dal Medioevo e per tutto il XVIII con Lagrein si intendeva una varietà a bacca bianca, precisamente il Lagrein Bonum o gueten weissen Lagrein, fu proprio a causa dall’antico divieto dell’imperatore che il vino Lagrein, il rosso potente e strutturato per intenderci, venne riservato ad uso esclusivo della nobiltà e dell’alto clero, mentre si dava inizio alla fase produttiva del Lagrein Kretzer così come lo conosciamo oggi, il rosato frutto della separazione delle bucce dal mosto mediante l’uso di graticci di vimini, denominati appunto kroizere. L’alto pregio del Lagrein verrà rivendicato nel 1526 durante la rivolta contadina capeggiata da Michael Gaismayr, il quale chiese ed ottenne che venisse diffuso anche tra il popolo… appena un anno prima apparve la dizione roter Lagrein, ossia Lagrein rosso, antesignano del Lagrein Dunkel.

Dopo essere entrato nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970, il Lagrein verrà vinificato in purezza soltanto a partire dagli anni ’90.

La Tenuta Erbhof Unterganzner di Josephus Mayr è ubicata a Cardano nei pressi di Bolzano a 285 metri sul livello del mare, vicinissima all’area di confluenza del fiume Ega nell’Isarco, ed è proprietà di questa famiglia a partire dal lontano 1629, quando venne acquistata da Simon Mayr. La storia di questa cantina, che è anche storia del Lagrein, si potrebbe così semplificare: un maso, quattro vigneti e dieci generazioni dedite alla viticultura, che oggi hanno anche il merito di aver prodotto il primo olio evo sudtirolese.

Frutto di una filosofia agronomica ed enologica tutta fondata sulla consapevolezza, sull’etica ambientale e sull’ostinazione a perseguire un modello produttivo sostenibile, capace di ascoltare e possibilmente prevenire le esigenze della vite, senza alcun uso di prodotti di sintesi, il Lagrein Dunkel Unterganzner vede in vinificazione sia il biotipo corto che lungo. Le viti, vecchie anche oltre i trent’anni, sono allevate a pergola su terreni di natura alluvionale di origine porfirica e morenica, per una densità di impianto variabile dai 5000 agli 8500 ceppi per ettaro che, grazie ad un diradamento dei grappoli, consente di ottenere i giusti quantitativi di materia prima con un elevato fattore di qualità, materia prima che viene vendemmiata in maniera scalare dalla seconda all’ultima settimana di ottobre.

Effettuata la pigiadiraspatura, la fermentazione alcolica avviene a temperatura controllata in serbatoi di acciaio inox con un contatto sulle bucce di circa dieci giorni, a seguire fermentazione malolattica e l’affinamento in barrique di rovere per un arco temporale compreso tra i 15 ed i 18 mesi, infine il filtraggio e quindi l’imbottigliamento.

Il tappo del Lagrein Dunkel Unterganzner Riserva 1998 ha mantenuto una buona tenuta, visto il livello del vino ancora presente entro il collo della bottiglia, aperta e quindi verticalizzata per 24 ore. Dopo aver sistematicamente evitato il decanter si è provveduto ad avvinare il calice ed ecco fermarsi il tempo…

Colore rosso granato, naturalmente “dunkel”, con unghia lievemente aranciata e giochi di consistenza ad archi stretti e discesa lenta. Timo essiccato e cardamomo risalgono col lieve balsamico della canfora, lieve ma sufficiente a veicolare senza alcuno sforzo il profumo dell’oliva nera, del sigaro spento e del fondente di cioccolato. La gioia dell’attesa è stata già ripagata per la buonissima conservazione, ma tanto vale aspettare ancora un po’ e percepire note di liquirizia e salsa teriyaki. Al palato la struttura è quella di un tannino levigatissimo, da trama vellutata e quasi impercettibile vista la sapidità, una freschezza ancora vivida ed il tocco umami. Con un po’ di tempo, oltre all’affumicato, arrivano note fungine e di terra umida. Un finale decisamente lungo e persistente.

La descrizione di un attimo lungo 23 anni, il tempo cairologico che all’assaggio diventa per davvero quel momento giusto ed opportuno non programmabile, dall’apertura di un sigillo che restituisce il liquido alla luce al sorso, dal piacere sensoriale fino alla riflessione su quanto il vino sia un elemento per niente immutabile e men che meno prevedibile nella sua evoluzione, capace di spiazzare ogni convinzione e di rendere l’esercizio del pronostico e della critica enologica affrettata un semplice esercizio di presunzione, di marketing e di vanità, quasi quanto l’americanata di stabilire a priori quale debba essere un’annata migliore rispetto all’altra, dimenticando di dare invece tempo al tempo e lasciare che il vino faccia il suo corso. Ottimo con le Confessioni di Sant’Agostino mentre si fuma un Davidoff Escurio Gran Perfecto.

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