Ghaza
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È stato commovente vedere entrare in vigore il cessate il fuoco su Ghaza da parte di Israele durante la notte. Dopo 22 giorni di guerra, le immagini che trasmetteva la TV satellitare al-Jazeera sembravano quasi surreali: la città, non più illuminata dalle esplosioni, era finalmente silenziosa e sembrava di poter immaginare gli abitanti che forse, per la prima volta dopo tre settimane, riuscivano a dormire.

Perfino il corrispondente, senza più il sottofondo di bombe, ambulanze e urla, parlava sottovoce raccontando gli sviluppi della situazione, quasi a non voler rompere quel silenzio così fragile. Sembra che Ghaza stia ricominciando a vivere, con la gente che esce nuovamente per strada a contare i danni, vagando incredula fra cumuli di macerie dove sono sepolti i ricordi di una vita. Quelle stesse macerie da cui continuano a venire fuori corpi di vittime che fanno aumentare il prezzo di vite umane pagato per questa guerra.
Secondo le Nazioni Unite sono morti almeno 1300 palestinesi, fra cui oltre 400 bambini e più di 100 donne, mentre i feriti sono circa 5500, di cui circa 1900 bambini e 800 donne. Il direttore del UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo e l’assistenza a Ghaza, ha dichiarato che le armi usate da Israele hanno causato lesioni “orribili” nei bambini. Almeno 100 mila persone sono state cacciate dalle loro case e l’80% della popolazione di Ghaza si trova ora sotto la soglia di povertà.

Anche le perdite materiali sono enormi e si stima che occorreranno miliardi di dollari per ricostruire le infrastrutture. L’acqua corrente è tornata in circa 100 mila abitazioni, ma 400 mila ne sono ancora sprovviste e l’elettricità è disponibile per meno di 12 ore al giorno. Secondo fonti palestinesi sono state distrutte circa 4000 costruzioni e seriamente danneggiate almeno 20 mila, fra cui 21 strutture mediche e 50 delle Nazioni Unite, oltre a circa 1500 fra industrie e negozi, 20 moschee, 31 impianti di sicurezza e 10 condutture di acqua e fognature.

Da parte israeliana si contano 13 morti, fra cui tre civili.
La sproporzione nel numero delle vittime è il risultato della sproporzione di potere economico e, dunque, militare, fra i contendenti. I razzi caduti su Israele per la maggior parte sono esplosi lontano dalle case, mentre Ghaza è stata attaccata con bombardamenti aerei, marittimi e di terra che hanno utilizzato, fra l’altro, bombe al fosforo bianco.
Una sproporzione che non si giustifica nemmeno con il diritto di Israele ad esistere (come dicono in molti) se questo significa l’annientamento della Palestina e dei suoi abitanti. Uno squilibrio esistente da sempre e che già in passato, in particolare durante la prima intifada del 1987, aveva preso il nome di “rivolta delle pietre”, l’unica arma di cui i palestinesi disponevano contro Tsahal, una delle forze militari più potenti al mondo, che vanta uno sterminato arsenale aereo, marittimo e di terra (comprese, pare, diverse testate nucleari di cui Israele non ha mai ammesso l’esistenza).

La disparità fra la potenza economica israeliana e le difficoltà della vita palestinese è evidente e diventa quasi fisicamente fastidiosa se provata di persona. Senza mettere in discussione il diritto di un popolo all’autoaffermazione, ad avere un proprio stato, all’esistenza stessa, ci si chiede come debbano sentirsi i palestinesi che, dopo aver visto nascere sulle loro terre lo stato di Israele ed essere stati cacciati dalle loro case, devono sopportare una vita di serie B. Perché di questo si tratta. Il senso di impotenza e frustrazione generato dal continuo sfoggio di ricchezza e potenza che Israele fa è difficile da capire se non lo si è vissuto.

La prima cosa che colpisce è l’umiliazione che i palestinesi subiscono nel passaggio dei checkpoint disseminati un po’ dappertutto nel paese. Il muro di separazione che Israele ha creato per difendere i propri confini si snoda infatti nelle terre insinuandosi fra le case come un disegno sulla carta piuttosto che come cemento fra i campi. Le famiglie sono state divise, i figli che abitano a Gerusalemme non possono andare a trovare i genitori che stanno a Betlemme, molti ragazzi escono la mattina presto senza sapere se riusciranno ad arrivare all’università, i malati spesso non possono raggiungere gli ospedali. Il passaggio dei checkpoint per un palestinese è un’impresa: innumerevoli sbarramenti, metal detector, controllo dei documenti da parte dei soldati israeliani che tengono il fucile in mano e intimano il silenzio.

La sproporzione di risorse si fa sentire maggiormente in settore vitali come quello dell’acqua e della terra. Le possibilità economiche di cui lo stato ebraico dispone hanno permesso di creare dei veri e propri giardini nel deserto, dove l’acqua arriva tramite pompe e canali di irrigazione, mentre in molti alberghi e luoghi pubblici viene addirittura usata nelle fontane per puro scopo decorativo. Cosa deve provare allora un palestinese che a stento riesce a trovare acqua da bere? Le terre invece in molti casi sono state espropriate, in altri frutteti o oliveti sono stati abbattuti o sradicati con il pretesto della sicurezza dello stato israeliano (che li considerava rifugi ideali per i cecchini della resistenza armata).
Se è dunque certamente apprezzabile lo spirito di intraprendenza di Israele, non si può certo tacere la prepotenza con cui esercita il proprio predominio su chi non ha gli stessi mezzi. Come l’ultimo attacco, arrivato in un momento particolare, alla vigilia delle elezioni nello stato ebraico, forse per aiutare qualcuno a raccogliere consensi, e quando l’alleato statunitense non avrebbe potuto intervenire, incastrato dal passaggio di consegne da Bush a Obama e impelagato in problemi economici interni più pressanti.

In molti credono che, come già in passato, anche questa guerra abbia motivazioni economiche. Senza contare le spiagge su cui Israele potrebbe mettere le mani per creare nuovi centri di turismo e solo accennando alla maggiore presenza strategica che guadagnerebbe sul Mediterraneo, si pensa soprattutto ai giacimenti di gas scoperti al largo delle coste di Ghaza nel 2000, che forse non saranno immensi, ma verrebbero tolti all’Autorità palestinese e inseriti in un sistema di gasdotti più articolato che potrebbe arrivare fino alla Russia passando per la Turchia. Di sicuro la guerra è stata strategicamente utile agli USA che potranno rafforzare la loro presenza non solo nel Mediterraneo, ma anche nel golfo di Aden, sul Mar Rosso e nell’Africa orientale, grazie ad un accordo per la sicurezza firmato con Israele il giorno prima del cessate il fuoco per impedire il contrabbando di armi ad Hamas o ad altri gruppi armati della resistenza palestinese. Peccato solo che gli stessi USA stessero cercando di fare arrivare in Israele, passando per la Grecia, delle navi cariche di armi.

La potenza economica di Israele, partner appetibile per tutti dal punto di vista economico e strategico, si riflette anche in campo politico. Così l’Europa, ancora prigioniera dei fantasmi del passato e dell’ignoranza presente, che fa confondere religione e politica per cui chi condanna il governo israeliano viene automaticamente tacciato di antisemitismo, si limita a condannare la “barriera di protezione” israeliana, le esecuzioni mirate di esponenti politici palestinesi non graditi, l’uso di armi non convenzionali e le brutali condizioni di vita degli abitanti prigionieri a Ghaza. L’Egitto, dopo aver ospitato diversi summit per la pace, ha evitato in ogni modo frizioni col nemico con cui ha siglato da tempo una pace armata, anche dopo la violazione del proprio spazio aereo da parte dei bombardieri israeliani, aprendo col contagocce il valico di Rafah per il passaggio di aiuti umanitari. Anche la Turchia ha cercato di ritagliarsi un ruolo da mediatore, forse nell’intento di guadagnare qualche punto nel processo di allargamento della Ue ad un paese a maggioranza musulmana. La Lega araba non ha mancato di allestire il proprio inutile teatrino diplomatico, condannando la guerra a Ghaza senza prendere però seri provvedimenti che potessero intaccare il mercato del petrolio.

C’è da chiedersi cosa sarebbe successo se le armi al fosforo (e, qualcuno dice, all’uranio impoverito) usate contro i civili e le bombe cadute su scuole, ospedali e ambulanze e sedi di grandi emittenti internazionali fossero appartenute ad un altro paese invece che a Israele. Negli ultimi anni si sono combattute due guerre terribili “contro il terrorismo internazionale”, si è distrutto un paese con il pretesto di una “guerra preventiva”, si sono votate risoluzioni di condanna contro il programma nucleare iraniano, si è definita Hamas un’organizzazione terroristica senza dare la possibilità ad un governo democraticamente eletto di governare (dimenticando quello che successe in passato con l’Olp di Arafat). Ma non si può nemmeno criticare il comportamento di chi, mascherandosi dietro il fatto di essere uno stato riconosciuto, ha commesso altrettanti crimini, permettendo che diventassero primi ministri personaggi che, in qualità di agenti speciali o di generali dell’esercito, hanno perpetrato assassinii mirati, stermini di massa di civili e crimini di guerra.

1 thought on “Israele, quando la potenza economica fa tacere la politica e parlare le armi

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