Giovani e lavoro
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Quando comunicai a mio nonno, ormai novantenne, del mio lavoro per sostenermi negli studi, più volte mi rispose che il lavoro nobilita l’uomo, qualunque esso sia.

Come molti giustamente osservano, il termine lavoro nacque come un’accezione tendente alla negatività: dal latino Làbor, fatica. Tuttavia, se si scorre qualche riga più avanti nel dizionario etimologico, scorgiamo che la radice Labh chiama in causa termini quali volontà, intento, desiderio, diventare padrone, allorchè il senso di tortura associato al lavoro sembra affievolirsi.

Senza dilungarsi troppo sugli svolgimenti storici del concetto, dal medioevale ora et labora al fermento progressista del positivismo tardo ottocentesco, potremmo giungere direttamente alla contemporaneità: la duplice e complementare connotazione del lavoro richiama ancora oggigiorno un senso di sacrificio, dovere necessario, e al contempo, se non sempre di appagamento, quantomeno di zelo.

Cosa accade però quando un Uomo viene privato del lavoro? Quest’ultimo diventa simbolo, rappresentante di un’idea, di un concetto. E quando ancora l’Uomo venisse privato dell’idea stessa del lavoro, ecco che allora, questo diventerebbe leggenda, mito. Tra i tanti miti esistenti, mi sentirei di paragonarvi il mito dell’Eroe, il mito Ulisse. Sovente analizzato sotto tutti i possibili aspetti, è riassumibile nella figura di un Uomo, che allo scopo di raggiungere il proprio obiettivo è obbligato a superare prove impervie, affiancato da numerose figure maligne e antagoniste come il guardiano della soglia e l’ombra e talvolta da personaggi benevoli quali il mentore, gli alleati.

Il mito dell’eroe non è privo di quelle sfumature simboliche atte a dar voce ai sentimenti interni dell’Uomo, altalenanti tra il dubbio e la paura, l’energia e la forza, impersonificati dal mutaforme, archetipo instabile, espressione dell’anima dell’eroe, investito del compito di condurre alla crescita, al cambiamento.

Al giorno d’oggi, all’alba della contemporanea Guerra di Troia, è lecito pensare che ogni uomo privato dell’idea del lavoro, si senta un po’ come un Ulisse moderno. Salperà allora da Troia, forse oggi più consapevole di quanto Ulisse non fosse, delle contrapposizioni del dio Poseidone.

E’ inoltre curioso, per non dire beffardo, notare che i Paesi sui quali l’eroe approdò, costituiscono attualmente lo scenario in cui più prepotentemente e visceralmente si svolge il viaggio degli eroi moderni. Casualità?

Forse avremmo dovuto pensarci. Forse Poseidone, i Proci, i Ciclopi, i Lotofagi, i Lestrigoni non hanno mai smesso di esistere: gli antagonisti vendicatori, i parassiti che indebitamente si appropriano di ciò che è nostro, i giganti cannibali e protetti dall’alto, gli ospiti insidiosi che ci sviano dai nostri obiettivi e uomini che si nutrono dei nostri sforzi. Potremmo però credere che, se questi continuino ad esistere, forse permangano anche Alcinoo e Arete, Circe, Tiresia, Zeus e Atena: i sostenitori, i compagni di sorte, i mentori e gli alleati, i giusti e gli onesti.

Mio nonno diceva che il lavoro nobilita l’uomo.

E forse aveva ragione. Oggi però ciò che lo nobilita è il viaggio che questo intraprende verso di esso, la sua determinazione e capacità di destreggiarsi in un mare tumultuoso. Privi non solo di un nostro diritto, ma se vogliamo, di un dovere che percepiamo verso noi stessi, nei confronti di una volontà personale, interiore, di un desiderio antico, salpiamo alla ricerca della nostra propria nobiltà.

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