I mangiatori di Van Gogh
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Estratto dalla ricerca universitaria in antropologia culturale sul sistema alimentare popolare infantile nella Sardegna tradizionale.

“Il gusto unisce e separa: dato che è il risultato dei condizionamenti connessi ad una classe particolare di condizioni d’esistenza, unisce tutti coloro che sono il prodotto di condizioni analoghe ma, distinguendoli da tutti gli altri, e proprio in ciò che hanno di più essenziale; giacché il gusto è il principio di tutto ciò che si ha, cose e persone, e di tutto ciò che si è per gli altri, di ciò in virtù di cui ci si assegna ad una classe e vi si è assegnati” (Bourdieu 1983).

L’alimentazione è un fatto fondamentale nella vicenda storica umana. Se dovessimo ridurre l’alimentazione ai suoi aspetti essenziali, vedremo che essa ruota da sempre intorno all’esigenza di soddisfare lo stimolo della fame attraverso l’assunzione di alimenti. Ma più che un semplice gesto diretto al soddisfacimento di un bisogno fisiologico, è un fatto di cultura nel senso totalizzante, antropologico del termine. Non ha torto chi afferma, che attraverso l’alimentazione si può risalire alle caratteristiche culturali e sociali dei popoli che si sono avvicendati sulla terra. Trattare il cibo come un codice e non come semplice elemento nutrizionale, offre a ciascuno di noi la possibilità di ritrovare i messaggi che esso rappresenta simbolicamente, all’interno dei rapporti sociali nei quali sono espressi. Molte credenze legate al cibo si assimilano sin dalla più tenera infanzia e sono strettamente legate al nucleo familiare d’appartenenza. Abitudini e preferenze alimentari si trasmettono cosi, culturalmente da una generazione all’altra formando in ciascuno di noi un senso come d’appartenenza alimentare, attraverso un processo definito da alcuni specialisti di “inculturazione alimentare”. Uno dei grandi criteri della vita materiale è: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Il proverbio tedesco lo dice a suo modo con un gioco di parole: “Der Mensch ist was er isst” (l’uomo è ciò che mangia). Il suo cibo riferisce della sua condizione sociale, della civiltà o del la cultura che lo circonda, in altre parole indirettamente agisce per rivelare l’identità di un individuo a se stesso e agli altri.

Le ore della giornata erano scandite dai battiti del campanile della Chiesa. I contadini si regolavano anche in questo modo, il tempo per dar da mangiare ai buoi impiegati per l’aratura e il tempo per cibarsi con pane abbrustolito e del lardo sfregato sopra, erano i momenti che rappresentavano il lavoro e il tempo per riposarsi. Dai detti popolari si può dedurre che carne e vino equivalevano a ricchezza, e che avere di che vivere, per un povero, voleva dire avere “pane da masticare”. I cibi e i comportamenti alimentari che si annotano nel tempo, derivano dal “senso” che nelle varie fasi della vita, è dato all’azione del mangiare. Il cibo era sacro, chi lo sprecava offendeva Dio. La sacralità che circondava il cibo si può comprendere solo in relazione alle inadeguate disponibilità alimentari del tempo. La scarsezza e la precarietà di tutti gli alimenti, obbligava a proteggerli e a custodirli.

Il loro consumo (uova, pane, fichi d’India, pomodori, formaggio) era rigidamente controllato dai padroni di casa. Conservati così gelosamente, talvolta addirittura sotto il letto, e consumati con tanta parsimonia, da divenire talvolta strumenti di cui ci si serviva per educare i figli, rinsaldare i rapporti sociali, instaurarne di nuovi o ringraziare per un favore ricevuto. “…Non potevamo toccare nulla neanche in casa, dovevamo sempre chiedere il permesso. Il pane lo tenevano nascosto, non era messo a disposizione, se avevamo fame, mamma c’è ne dava un pezzetto, quello che serviva” (E. S., 90 anni, Lunamatrona). Altro insegnamento era di non chiedere mai il cibo ma aspettare che questo fosse offerto “Depiasta aspettai su turnu” (dovevi aspettare il turno) (G.C., 69 anni, Assemini); si doveva mangiare ciò che era versato nel piatto. Piccoli bocconi di pane sezionato, piccole quantità di companatico (formaggio, salsiccia e lardo), erano queste le modalità di consumo. “…Era babbo a fare le porzioni, ricordo che tagliava con una precisione tale sia il pane sia il formaggio, in modo che il primo non finisse prima del secondo e viceversa” (M.C., 75 anni, Assemini).

Non tutti però, potevano permettersi di accompagnare il pane con il companatico (Campidano “gaùngiu” – Marmilla “ingaùngiu”), “Chi non l’aveva mangiava “pani e sabia” (pane e saliva) ” (E.S., 90 anni, Lunamatrona). Il pane godeva di un particolare rispetto, s’intuisce dal modo in cui esso veniva trattato, dal modo in cui era tagliato e consumato a tavola. Era tagliato a metà e consumato pezzo per pezzo con le mani, se cadeva a terra un solo pezzettino di pane era buona consuetudine raccoglierlo e baciarlo o fare il segno della croce, in ogni caso non si doveva buttare. Le famiglie, producevano inoltre, la pasta per il consumo domestico, per i giorni feriali, per esempio “sa fregua” (fregola di grano duro) e per i giorni festivi altri tipi di paste (babbalucas, mungettas, cruscionis e malloreddus ecc.). La domenica e i giorni di festa, il pasto principale era quello di mezzogiorno. Per l’occasione si preparava qualcosa di speciale, la carne di gallina, “sa pezza e’ pudda”, un tipo di carne che si poteva consumare più volte l’anno; in quasi tutti i cortili delle case, infatti, c’era qualche gallina che razzolava. Venivano allevate soprattutto per la produzione delle uova, e qualche domenica si festeggiava con la gallina bollita. Era certamente il piatto più tipico delle famiglie di una volta.

Con il brodo della gallina si preparava la minestra per la cena. Ripulita dalle interiora, la pancia della gallina si riempiva con un impasto “su prenu” di pane grattugiato, uova e condimenti vari (pomodori secchi, lardo e sale) e veniva quindi richiusa. In alcune famiglie era dolcificato e consumato quindi come un ottimo dolce. La padrona di casa riservava le parti migliori dell’animale al capo famiglia, il quale era servito per primo, quindi lei stessa serviva i figli e, infine, se medesima cui rimanevano, le meno nobili, il collo, la testa e le zampe. Del pollo si mangiavano tutte le parti, i bambini litigavano per avere le zampe della gallina, e talvolta era la madre stessa che decideva chi le avrebbe mangiate; spettavano al più bravo e al più buono, era un modo questo per renderle più desiderose. Si mangiava o con le mani o con l’aiuto della forchetta e del cucchiaio, il coltello era uno e si usava in comune. Con abilità, i più adulti utilizzavano “s’arrasoia” un coltello a serramanico, che dai più piccoli, non poteva di certo essere usata, ma della quale, pian piano incominciava ad apprenderne l’uso; “s’arrasoia” si usava maggiormente in “su sattu” (in campagna). I modi d’assunzione e di consumo del cibo dipendevano dal luogo in cui si sarebbero consumati i pasti (in casa o in campagna).

Durante la settimana, il pasto principale era normalmente quello della sera, in quanto si lavorava tutto il giorno, si usciva da casa prima dell’alba e si rientrava al calar del sole, e consumato con tutta la famiglia riunita. Un elemento che ci lega all’alimentazione del passato contadino, è certamente l’attaccamento alle minestre insieme al pane, vivande per eccellenza, della nostra terra. Il brodo delle zuppe e delle minestre, si ricavava non dalla carne ma dalla semplice acqua salata insaporita con lardo, strutto, cipolla e legumi. Molti i cereali (ceci, lenticchie) sotto forma di zuppa, che costituiva un piatto unico, con l’aggiunta di carne essiccata (cotenna, ossa di maiale) o semplicemente arricchita con patate o erbe selvatiche. Le ossa che avevano residui di carne attorno, cotenna e lardo, era consuetudine salarle, e conservarle poi in stanze buie e umide, al fine di essere utilizzate di volta in volta nell’acqua del brodo, nel minestrone o nella favata; anche la testa del maiale veniva conservata per lo stesso fine.

La zuppa si consumava con il cucchiaio che era preso rigorosamente con la mano destra. Chi utilizzava la mano sinistra, veniva in un certo modo colpevolizzato, perché si affermava che fosse “sa manu de su tiàlu” (la mano del diavolo). Il vino non mancava mai, lo bevevano talvolta anche i bambini, glielo si faceva assaggiare imbevendo dei pezzetti di pane nel vino. Ma ricordiamolo il momento dei pasti, nelle società tradizionali, era quello durante i quali i più piccoli apprendevano le regole e le norme del comportamento, partecipavano alla sacralità e religiosità del cibo e scoprivano l’importanza del “mangiare insieme”. Dividere il pane o il cibo significava fondare e rendere sacre unioni, legami, rapporti. Il tavolo da pranzo, era il luogo di confessioni, risate, rivelazioni di disastri, riti di passaggio e d’iniziazione. Non a caso è a tavola che si acquisivano, in una parola, le regole del saper vivere. Era, infatti, soprattutto in questo momento sacro che vedeva tutta la famiglia riunita, che emergevano i diversi ruoli che ciascun membro ricopriva, in cui la gerarchia di potere all’interno del gruppo, si faceva più forte. Il “pasto familiare” e il “tavolo da pranzo” molto spesso dimostrano di essere dei simboli potenti, addirittura metonimi della famiglia stessa. “Papa piusu”, “papa lardu”, “papa panadasa”, “papa fregua”, “papa perdingiau”, “torra cotti”, “fà arrostia”, “papa caborusu”, sono soltanto alcuni tra i tanti metonimi usati per identificare l’origine della famiglia. “…Filla de chini sesi? Seu filla de “is papa panadas”, cussus chi teniant su forru. Ehia, cussus!” (L.C, 70 anni, Assemini). Non tutte le famiglie si alimentavano allo stesso modo. Ogni cucina di gruppo (pastori e contadini, ricchi e poveri, adulti e bambini), infatti, esprimeva una tradizione con norme, convenzioni, e riti diversi. Le azioni legate al consumo alimentare rispondevano a quell’insieme di relazioni che il gruppo intratteneva con il suo ambiente, per ricavarne ciò che gli era necessario.

All’interno della stessa società, il modo di consumare il cibo variava a seconda degli individui, del loro mestiere o classe sociale, del sesso e dell’età. Le differenze tra le classi sociali si notavano in relazione al modo di sistemare gli ambienti: i proprietari mangiavano in una tavola ben apparecchiata, con un piatto per ciascuno dei commensali, mentre i contadini poveri usavano il piatto unico. I primi consumavano cibi più variati e sostanziosi, raccontano alcuni informatori: “A nosus si donanta su brodu e issus si pappànta sa pezza” (a noi davano il brodo ed essi si mangiavano la carne); ma la differenza più importante era la quantità. “Si faticava tanto, abbiamo dovuto sacrificare le nostre vite per avere un pezzo di pane”, cosi, raccontano le informatrici che lavorarono presso le ricche famiglie del paese. Le donne più povere cercavano di arrangiarsi andando a fare le serve in case dei signori del paese, qui lavoravano nei terreni dei loro padroni, seminavano e raccoglievano pomodori, tutto il giorno, facevano il pane, badavano ai loro figli e infine preparavano e servivano i pasti. Non mangiavano nella stessa stanza dei loro padroni, ma da sole in cucina con gli altri domestici. “…Cussus pappanta pezza, perdigianus, arrostiant.., (loro mangiavano carne, melanzane, arrostivano..), ma ne davano anche a noi, ne mangiavamo; a casa di don C. la domenica mangiavano il pesce, e la carne d’agnello non mancava mai perché allevavano anche animali, e si mangiava anche la pasta” (G.M., 83 anni, Siddi). Nonostante la fatica dei molteplici lavori, “…a bittì tammatasa, a espugnai e a tirai fa” (… portare i pomodori, pulire ed estirpare le fave), queste donne si consideravano molto fortunate, in quanto potevano mangiare cibi che in casa propria non avrebbero trovato. L’uso di cibi consumati periodicamente era senz’altro più abbondante e frequente nelle case dei proprietari: essi mangiavano il pesce anche una volta alla settimana mentre i servi e i braccianti dovevano aspettare la festa del patrono.

La maggior parte delle donne e degli uomini che lavoravano in campagna “in su sattu” mangiavano tutti insieme. C’era chi portava il pasto al proprio consorte raggiungendolo nel luogo del lavoro. “… Mio marito era pastore ed io andavo a raggiungerlo con mio figlio in grembo per portargli il pranzo, minestra a volte di pesce, da pappat (ra) in “su casiddu”, (la mangiava in un recipiente d’alluminio, generalmente usato per contenere il latte); là dove stava, mangiavamo tutti assieme seduti a terra, cipolle, verdure e pane…” (G.M., 83 anni, Siddi). Chi ha fatto il pastore ricorda molto bene quanto fosse importante la scelta accurata del luogo “su log’e pappài” (lo spazio del ristoro) in cui si sarebbe consumato poi il pasto; in genere si preferivano delle zone pianeggianti o collinose, più adatte anche per il riposo fisico. Anche nelle famiglie più povere, nelle condizioni peggiori, il momento del pasto domenicale, assumeva significato, benché ci fosse poco da mettere sotto i denti. Durante la settimana ci si arrangiava mangiando un pezzo di pane e di formaggio per la strada. Molto spesso però, si usciva da casa solo con un pezzo di pane senza companatico, la soluzione veniva trovata nei prodotti della campagna: cicoria, crescione, asparagi erano companatici eccellenti, anche se non particolarmente nutrienti. Talvolta si commettevano piccoli furti, allora però non si rubava ma si mangiava, ed era fortunato chi poteva farlo. “…Noi eravamo fortunati, avevamo almeno il necessario, avevamo anche il pane, i piselli, le fave, i ceci, era fortunato quello che ne aveva; l’olio, lo facevamo noi, un po’ d’oliva oppure dal grasso di maiale, il lardo si squagliava e si mescolava con l’altro, la cucina era quella. Quando avevi queste cose per quel tempo, eri quasi ricco!” (A.P., 82 anni, Siddi). La realtà che si è descritta è ormai scomparsa; ciò nonostante dimostra che ancora fino agli anni Cinquanta era possibile trovare una diversità nei consumi e nelle pratiche alimentari che spesso rivelavano differenze d’ordine sociale. Il primo grande conflitto alimentare, sociale, culturale, mentale che abbiamo incontrato è quello tra gruppi popolari “consumatori di pane nero” e gruppi agiati “consumatori di pane bianco”. L’altro grande scontro è quello tra gruppi popolari “consumatori di erbe” e gruppi agiati “consumatori di carne”. I signori, consumatori di pane bianco, carne e pesce fresco, consumavano, molto più dei lavoratori della terra, anche uova, salumi, latticini, paste, olio, vino.

Un’altra disuguaglianza sociale viene evidenziata dalla disponibilità dell’acqua potabile, che arriverà nei paesi soltanto negli anni Sessanta. Il folclore ci rappresenta sovente attraverso vecchie immagini, donne con “is marigas” (grossi recipienti utilizzati per contenere l’acqua) sulla testa e bambini con le bottiglie in mano che “vanno ad acqua”, spesso per conto dei signori. Credo però, che quelle che oggi sono per noi figure simboliche, richiedano un riconoscimento più rispettoso, in quanto rappresentative della miseria, della fatica, della gran sete che il popolo subì. Oggi più di prima è il cibo a rappresentare significativamente la nostra storia. Lo dimostra uno studio molto accurato sulle preferenze alimentari, condotto negli anni ’60 da un sociologo francese, Pierre Bourdieu, che nella sua opera “La distinzione. Critica sociale del gusto”, ha analizzato con molta precisione la relazione tra gusto e posizione sociale. Le preferenze alimentari basate sulla classe sociale riferiscono, secondo i dati della ricerca del sociologo su un campione di oltre 1.000 cittadini francesi, che i nuovi ricchi, provvisti di un patrimonio economico alto ma culturale basso, mangiavano cibi molto pesanti e costosi come selvaggina e “foie gras” (fegato d’oca); i professionisti più remunerati, dotati sia di capitale culturale sia economico, rifiutavano di consumare cibi usuali e grassi, in favore di cibi delicati e raffinati.

Le persone meno agiate, ma con un elevato livello d’istruzione (che avevano più capitale culturale che economico, come gli insegnanti) preferivano un’alimentazione comune, non frivola, a base di cibi poco cari, semplici ed esotici (come la cucina italiana e quella cinese) e piatti della tradizione contadina. Le abitudini alimentari, non sono state definite dal solo prodotto consumato ma anche dalle tecniche di preparazione e di cottura; l’indagine del sociologo francese, ha rivelato per esempio, che il gusto di coloro che mostravano di preferire piatti la cui preparazione richiedeva gran dispendio di tempo e d’impegno, era strettamente collegato ad una concezione tradizionale del ruolo femminile accettato più dalla classe operaia (francese) che dalle classi economicamente elevate. È certo che afferrare il mondo sociale in cui viviamo oggi, attraverso l’osservazione dettagliata delle preferenze alimentari basate sui gruppi sociali, può senza dubbio aiutarci a capire il nostro secolo decifrando gli stessi percorsi di comunicazione di cui abbiamo sinora parlato ed essere da spunto per ulteriori approfondimenti e indagini.

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