F. Ciusa 'La madre dell'ucciso'
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L’eco di passi fermi, lenti e decisi risuonò sugli alti soffitti.

La donna, austera sposa vestita di nero, percorse l’intera navata centrale mentre la lunga gonna sembrava trascinare la sua ombra sul tappeto, quello rosso, riservato alle feste e ai lieti eventi. Con una mano stringeva forte il lembo dello scialle attorno al suo viso pallido e altero.

Si fermò di fronte alla bara, pose la mano scarna e fredda sul legno, cercando invano appiglio su quel noce odoroso e liscio in cui era racchiusa la sua vita.

Un profondo, affannato ma impercettibile sospiro la spinse a chiudere gli occhi.

(Giorgia Spano, Faida
L’amore, l’inganno, il sangue…)

La famigerata faida, fenomeno tradizionalmente ascrivibile in Sardegna all’area barbaricina, come pure ad altre sub-regioni, nasce e trae origine dalla sete di vendetta. Oltre ad aver ispirato molte opere letterarie e canzoni, il ricorso alla vendetta privata ha insanguinato per lunghi decenni la cronaca isolana. Un diritto quello della vendetta già presente nei nostri codici, come quello barbaricino, e legato originariamente ad una nozione di “balentìa” che oggi non esiste più perché mutato in mere forme di violenza criminale.

In sardo, esiste una parola, “disamistade”, che significa “inimicizia” e, per estensione, faida. Una parola che si presta a molteplici interpretazioni., che racconta di uomini, di lotta, di sangue e dolore e ci parla della discordia che nasce tra gli uomini per il semplice fatto di convivere.

Quando si instaura la “disamistade”, si risvegliano vecchi rancori sopiti e se scoppia la lotta non rimane speranza alcuna per le genti, per i rapporti tra le famiglie e le comunità. Le relazioni inevitabilmente tendono al peggio: tutti sembrano urlano lo stesso dolore e lo fanno allo stesso modo, sebbene sentano distintamente solo le loro voci, perché il dolore degli altri è sempre e solo dolore a metà. È uno scacco esistenziale quello che si origina dalla faida e nella faida: si vorrebbe il bene ma è perpetrato il male, quasi che non si trovasse un modo di vivere senza dolore. Mentre gli uomini si riducono a macchie di lutto, non interviene la fede a salvarli perché le chiese chiudono le porte alla loro pena, e non li salva neppure la giustizia terrena, perché è una giustizia, quella umana, che mai pareggia i conti, protraendo al contrario la scia di abusi e offese quasi come un’epidemia dilagante.

Lo studio più analitico e completo sul tema della faida in Sardegna è ancora oggi il lavoro realizzato alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso da Antonio Pigliaru, lo studioso orunese autore de “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”.

Se volessimo riassumere le tesi di fondo del Pigliaru, potremmo dire molto sinteticamente che la pratica della vendetta in Barbagia è da considerarsi una consuetudine giuridica, o un fatto normativo, capace cioè di generare comportamenti percepiti come doverosi da parte di ciascun membro di quella comunità. Come gli antropologi spesso hanno sottolineato anche la vendetta è da includersi, infatti, fra i “sistema di risoluzione dei conflitti”. Non è certo un mistero che possano aversi meccanismi di composizione delle dispute anche in assenza di un organo “terzo” che dirima la questione. Si potrebbe sostenere che nelle società tradizionali siano definibili come giuridiche quelle regole di costume il cui mancato rispetto è degno di venire misuratamente vendicato. La vendetta selvaggia, smisurata e priva di regole, esiste probabilmente soltanto nell’immaginario collettivo delle società moderne.

Il titolare del dovere della vendetta verrebbe così a configurarsi come una sorta di “organo” della comunità stessa. In definitiva l’istituto esprimerebbe l’esistenza di un vero e proprio ordinamento giuridico, dando luogo a un contrasto, non solo potenziale ma effettivo perché rilevabile storicamente, fra tale ordinamento e quello dello Stato. Ne consegue che questa pratica viene considerata “sistema di risoluzione dei conflitti” in quanto “sistema di regolarità sociale”, cioè di certezza nei rapporti giuridici, e conforme alle aspettative tanto dei singoli quanto della comunità nel suo complesso.

Tra le norme consuetudinarie individuate da Pigliaru e raccolte, come è noto, in forma di codice, vi è anzitutto una minuta elencazione dei fatti capaci di innescare il meccanismo delle ritorsioni a catena e centrale a questo proposito è il concetto di offesa intesa come lesione della dignità e onorabilità. Se il danno economico non può considerarsi offesa, sono invece da ascrivere a questa categoria: il passaggio provocatorio in un terreno chiuso (soprattutto in presenza di una situazione pregressa di conflitto), l’ingiuria, la diffamazione e la calunnia (con attribuzione di fatti determinati), la rottura ingiustificata di una promessa di matrimonio, la delazione e la falsa testimonianza, infine l’offesa del sangue. Come ricorda Bachisio Bandinu, quella barbaricina è una società “a bassa soglia di sicurezza, in cui il conflitto può esplodere all’improvviso, senza segni che lo preannuncino, una cultura del sospetto, del rischio di fraintendimento”: sussiste, perciò, anche la possibilità che il conflitto sorga per atteggiamenti non palesi, ma ritenuti implicitamente offensivi.

In più occasioni è stata sottolineata la forte componente di ritualità che impronta questo istituto consuetudinario: sono infatti operanti nel tessuto comunitario norme dal carattere rigidamente prescrittivo, che legittimano l’atto vendicatorio stabilendone i presupposti e individuandone i soggetti attivi e passivi, nonché forme e modalità di esecuzione.

Si evince, inoltre, in modo chiaro che nonostante il principio per cui “la vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva”, il dovere di metterla in atto (“se non ti vendichi, non sei un uomo”) è un fattore che inevitabilmente spinge verso una radicalizzazione dello scontro. Un chiaro esempio in questo senso si ha con il fenomeno della“interazione a tempo differito”, per cui la sequenza di ritorsioni si dipana nel tempo, coinvolgendo non più solo individui, ma interi gruppi sociali a base parentale, fenomeno che secondo alcuni fa sì che la vendetta degeneri in faida. Anche la vendetta legittimamente esercitata, infatti, attribuisce al gruppo parentale che la subisce il diritto ad un ulteriore atto vendicatorio.

Tradizionalmente in Sardegna non tutti possono essere protagonisti di una faida. Vi possono “partecipare” solo coloro che ne hanno le caratteristiche, dunque, le capacità.
Bisogna essere “homine” (uomo), perciò abili, agili, fisicamente forti e intelligenti. L’uomo della faida è il “balente”, l’unico in grado di riscattare le offese subite dal suo gruppo familiare attraverso il cosiddetto diritto alla compensazione. Si parla di compenso perché l’obiettivo principale della vendetta è finire il nemico e sopravvivere alla sua morte e un “balente” per essere tale e per aderire in maniera totale al “codice” deve avere autocontrollo, deve essere padrone di se stesso, cioè della sua testa, elemento fondamentale e indispensabile se vuole dominare la morte per non subirla, se vuole sopravvivere nella cultura della vendetta, una cultura estremamente competitiva.

Il “balente” nel mettere in atto la sua azione offensiva può avvalersi di armi che in questo ambito più che rappresentare il mezzo con il quale colpire il nemico, sono da intendersi in una prospettiva simbolica come estensione del corpo e della sua potenza. Non ci sono parole nella vendetta, solo azioni e gesti, che sono mortali, distruttivi, definitivi, esiziali.
La vittima, colui che subisce la morte, è detta “su mortu” (il morto) e si distingue da un qualunque altro morto per le modalità attraverso le quali si è consumato il suo destino, un destino che evidentemente ha meritato. La “mala morte“, come viene definita presso le comunità interessate dal fenomeno della faida, non conosce riservatezza, al contrario viene vissuta dalla sua collettività.
Un fatto sociale, dunque, non riferibile alla sfera del privato, non riconducibile all’interno della propria intimità familiare, ma sottoposto, al contrario, alla vista di tutti.

Il funerale riunirà l’intera comunità è costituirà l’occasione sociale dello scambio tra la famiglia e la collettività. A testimoniare questo aspetto del fenomeno è l’offerta e il dono di cibo alla famiglia dell’ucciso. In alcuni paesi, tradizionalmente era consuetudine offrire interi pranzi già cucinati, riservati però ai parenti più stretti della vittima. La famiglia del morto avrebbe successivamente ricambiato l’offerta rituale di cibo distribuendo i pani benedetti in memoria del defunto in occasione dell’anniversario del trigesimo.

In questa alternanza di odio e tregua all’odio stesso, si esplica e si manifesta una cultura tormentata e lacerante dove si mescolano sentimenti forti, ma deleteri.

Antonio Pigliaru, nell’ambito della sua ricerca, verificò anche cosa significasse dono come scambio e dono come ritorno di sangue e faide: per una parola mal detta o male interpretata, per una pecora rubata, per un saluto non dato né ricevuto. “Est lozicu”, (“è logico”) era la risposta più frequente che gli informatori fornivano al Pigliaru per motivare scelte considerate razionali: il calcolo del donare e del dover “torrare” (restituire), laddove “dare e torrare” entravano nella carne viva. Il circuito di dono e contro-dono in Sardegna è molto simile a quello che l’antropologo M. Mauss ha definito un “fatto sociale totale”. Dentro il campo imbiatu (dono) – connottu (ciò che è conosciuto, o risaputo e anche tramandato), si definivano le esperienze e le esistenze. Amistade e disamistade (amicizia-inimicizia) sono dentro questo rituali della Sardegna tradizionale, così come l’essere e il non essere. “Non semus” (letteralmente “non siamo”) si diceva quando due persone, due famiglie, due fazioni erano in guerra tra di loro e nel “non semus” non poteva esserci scambio di doni (Zene, 2006).

Se agli uomini spettava il compito di vendicarsi, alle donne toccava quello di esprimere il proprio dolore: le donne dovevano portare il lutto, vestendosi rigorosamente in nero per tutta la vita. La moglie dell’ucciso, nello specifico, non poteva nemmeno uscire di casa se non per motivi strettamente familiari. Questo non determinava la rottura dei rapporti sociali, che anzi ne risultavano intensificati e rafforzati dal momento che era la collettività a portare la propria solidarietà alla moglie e alla famiglia di “su mortu“. Ma il tempo del lutto, per la donna, poteva assumere anche un altro significato, dal momento in cui proprio la donna poteva rivestire il ruolo di custode dell’odio che porta alla vendetta. Non è un caso, infatti che proprio essa sia stata più volte indicata e giudicata, sia in ambito criminologico che psicanalitico, come la principale istigatrice della vendetta di sangue, la vera radice, cosciente o incosciente, della violenza.

Sono tuttavia possibili dei cambiamenti, delle diverse direzioni a ritornare e ripartire anche dal ruolo che proprio le donne ebbero nelle comunità barbaricine. La donna sarda ha certamente avuto un ruolo di complicità in queste tragedie; una parola della donna, donna madre, moglie, fidanzata o sorella ha avuto una influenza importante e spesso devastante in questo rito tragico della faida, della vendetta, meglio conosciuta come disamistade. Bastava l’allusione: “ma carzones ne hai?”, o “carzoneses ne avete?”, (“ma pantaloni ne hai?”, o “pantaloni ne avete?”) e si capiva quale scintilla, quale palpiti riusciva a sprigionare e che sentimenti riusciva a smuovere un frasario del genere nell’animo degli uomini, detto sempre a denti stretti dopo aver subìto un delitto, un affronto, uno sgarro, in un’unica parola un’offesa. Ma le donne sarde, soprattutto le donne della Barbagia, hanno rotto da tempo gli spessi muri dell’omertà e hanno voluto invertire il corso tragico della reazione, della vendetta, per invocare pubblicamente, al contrario, un vivere più civile, più aperto, più rispettoso della legalità; quasi a sottolineare che è meglio il codice della legge che quello del cosiddetto “codice barbaricino”, anche davanti al torto, allo sgarro, alla vendetta e persino all’omicidio subiti. Questo perché come ognuno di noi ben sa, l’odio chiama odio, vendetta chiama vendetta, e la disamistade diventa un fiume inarrestabile di dolore, di tragedie e di lutti familiari.

Ci sono state, dunque, anche in Sardegna, donne consapevoli che per il principio che il sangue chiama sangue, le faide hanno spesso dissolto proprio nel sangue intere famiglie. E’ il caso di Tetta Manca, una giovane infermiera, una donna di Orune, paese aspro della provincia di Nuoro, che nel maggio del 2005 ha subito uno tra i torti peggiori: le hanno ucciso il marito con cinque scariche di fucile. Questa donna, nonostante il grande dolore, non si è persa d’animo. Nel dolore ha raccolto un coraggio immenso e davanti alla salma del suo uomo ha stretto a se il figlio adolescente e lo ha impegnato, attraverso la richiesta di un giuramento solenne, in una prova di vita difficilissima: quella di non vendicare mai l’uccisione del padre, il perdono e il rifiuto della violenza. “Promittimi izzu mè, chi sese prontu a perdonare”, (“promettimi figlio mio che sei pronto a perdonare”). Questo ha chiesto Tetta Manca al figlio e in questo modo questa donna impegnando se stessa ha impegnato tutti a scegliere di affidare il destino dell’assassino o degli assassini del marito e del padre dei figli al giudizio di Dio, per coloro che in Dio credono, e soprattutto al giudizio dei giudici. Evidentemente queste donne non sono tutte vestali della violenza, come alcuni anche tra gli studiosi, le hanno definite. Bisogna conoscerle davvero queste donne, donne capaci di dire: “Preferirei che mio figlio morisse piuttosto che diventasse “mortore”, assassino” (Mariani).

Fonti

Lai M. 2005 La moglie dell’ucciso al figlio: “Giura di non vendicare tuo padre”

Mariani F. 2007 Orune in http://www.tempi.it/orune, 15 febbraio 2007

Pigliaru A 1956 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico – Milano, (ora Nuoro, 2000)

Piras N. 2006 I rituali del dono e della vendetta, 22 aprile 2006, La Nuova Sardegna, sezione: Nuoro.

Zene C. 2005 Dono e vendetta nella Sardegna centrale, Leo S. Olschki Editore, Firenze in Lares, LXXI n° 3, settembre-dicembre 2005

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