Paranoid Park
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Abbiamo scelto di mutuare la nozione di “liquidità”, utilizzata dal sociologo Z. Bauman, per provare a tratteggiare i caratteri di quella fase della vita che chiamiamo adolescenza, la quale, in particolare negli ultimi anni, sembra mostrare le contraddizioni caratteristiche della società contemporanea così come è descritta dal sociologo.

La liquidità, in quanto tale, non ha forma se non contenuta. Una suggestione, dunque, squisitamente visiva quella di adolescenza liquida, che intende l’adolescente contemporaneo come “non contenuto” e alla ricerca di una qualche forma di accoglimento.

I segnali che ci vengono dall’adolescenza, sia riferiti ad un’accettabile “normalità” di condotte sia quelli cosiddetti devianti, ci mostrano, innanzitutto, una perdita di autorità/autorevolezza generalizzata riguardo al “contenitore” famiglia, peraltro non riferibile solo alla perdita di ruolo del padre, o che perlomeno non si limiti a questo.

L’adolescente di oggi è ben interpretato dal protagonista del film Paranoid Park (del regista Gus Van, tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson), un film che molti adulti dovrebbero vedere perché mostra aspetti importanti dei nostri adolescenti. Il protagonista, Alex, è un sedicenne appassionato di skateboard, un padre che va via di casa e una madre che non dice mai di no. Alex ha un fratello più piccolo e una fidanzata che non vede l’ora di fare l’amore con lui. Ma Alex ha commesso un piccolo gesto che si è trasformato in una tragedia che nel film è già accaduta. E’Van Sant a raccontarcela attraverso continui spostamenti temporali. Di Alex, sempre coperto dalla felpa col cappuccio e lo skateboard sotto braccio, colpisce lo sguardo: fisso, quasi catatonico. Nel film, ad illuminarci sull’adolescenza di oggi, sono proprio gli sguardi di Alex, sguardi in cui intravediamo il vuoto che abita tanti adolescenti. Non si tratta, tuttavia, di un vuoto-vuoto, come a primo acchito saremmo portati a credere; quello di Alex è un vuoto-pieno, una forma d’annichilimento che ti riempie e contestualmente ti lascia stordito, quasi depauperato di energie e volontà.

La sua è la tipica condizione di tanti adolescenti che popolano le nostre città: non è ancora riuscito a costruire un’immagine adeguata di sé, a compiere il passaggio dalla pubertà all’età adulta e, proprio come i nostri adolescenti oggi, permane in questa zona di mezzo che è l’adolescenza.

Alex incarna perfettamente lo spirito dell’adolescenza di oggi: una ribellione ingenua, spensierata, con lo skateboard a celebrare la velocità e il pericolo, mai disgiunta dal divertimento, che anzi impone ed esige. L’adolescente, in piedi sulla tavola, corre simbolicamente sul cornicione della propria vita, si sporge nel vuoto, cerca di restare saldamente attaccato al proprio sostegno.

Il film, inoltre, ci invita a riflettere ulteriormente su un altro problema che l’adolescenza oggi deve affrontare: la scomparsa del senso di colpa. Alex ha commesso qualcosa più grande di lui: ha fatto morire senza volere un uomo. La metafora usata da Nelson e da Van Sant seppur amplificata, coglie un aspetto importante della nostra epoca: la colpa per un adolescente è qualcosa di enorme, qualcosa per cui non è preparato e per affrontare la quale è privo degli strumenti adeguati. La colpa richiede una forma di coscienza e la coscienza sembra essere scivolata via da lui. Alla colpa si è sostituita la vergogna, sentimento dominante tra i giovani, molto più difficile da cogliere e intercettare. I loro sguardi, come quello di Alex, sono persi: ti guardano e non ti vedono e non vedono neppure se stessi, perché non c’è uno specchio, la società, che possa rifletterli. Soffrono, certo, ma di una sofferenza senza oggetto, forse anche senza destino e con la possibile colpa evapora anche la loro anima. E’ una sorta di intimità fredda, come la definisce la sociologa americana E. Illouz, quella con cui quotidianamente ci troviamo a confrontarci, perché gli adolescenti di oggi non sembrano riscaldati da nulla: né amicizia, né sesso, né affetti. Una forma di infelicità priva di desideri la loro, ma solo apparentemente, perché in realtà dentro quei corpi brucia un grande calore, un calore invisibile ai nostri occhi di adulti, tant’è che anche quando ci accade di incrociare quello sguardo, non siamo in grado di riconoscerlo.

Ma seppure interrogassimo i ragazzi sul loro malessere, verosimilmente non otterremo da loro alcuna risposta. Vivono in una zona di “analfabetismo emotivo” che gli impedisce di riconoscere i propri sentimenti e di chiamarli per nome. Come se il nulla, il vuoto, li avesse afferrati, “li pervadesse e li affogasse”.

Ma chi è l’adolescente oggi? Adolescente, come ci ricorda l’origine etimologica del termine, è colui che va nutrito (alere in latino è “nutrire”). Gli psicologi ci ricordano che in questa fase della vita, che tende ad allungarsi sempre più, prevalgono sentimenti d’ansia e d’incertezza verso il futuro, irrompono le istanze pulsionali: da una parte si cerca rassicurazione, dall’altra si anela la libertà. Ma se ieri l’adolescenza era soprattutto l’età dell’inconsapevolezza oggi, è anche quell’età in cui, la vita adulta ha cessato di essere la meta da raggiungere e gli adulti sono scomparsi dall’orizzonte.

In molti sottolineano come alla base di questo fenomeno stia una mancata crescita emotiva che ha reso il sentimento dei nostri adolescenti atrofico, inespressivo, non reattivo. Gli eventi passano accanto a loro senza una vera partecipazione, senza un’adeguata risposta di sentimento a quanto accade intorno, finché non sopraggiunge la noia a comprimere la loro vita emotiva, impedendo loro di entrare in sintonia col mondo, oppure inducendoli ad agiti che impressionano, più che per la loro crudeltà, perché messi in atto “senza movente”. Lungo il percorso della loro vita questi ragazzi non hanno avuto occasione di mettere in contatto il cuore con la mente, la mente con il comportamento e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Come più volte ha fatto notare U. Galimberti, queste connessioni non si sono costituite e si sono originate biografie capaci di gesti tra loro slegati a tal punto da non essere percepiti neppure come propri.

Quali sono le ragioni che hanno determinato il fallimento dell’educazione emotiva degli adolescenti?

La nostra società tende a sminuire il ruolo delle emozioni: parliamo moltissimo ma senza in realtà dirci nulla di veramente importante. Sono molte le persone, indipendentemente dal livello culturale, che mancano di competenza emotiva, incapaci di sentire quello che provano e di riconoscere negli altri gli stessi sentimenti. Aspetti questi ravvisabili nella tendenza al conformismo sociale, a ricorrere all’azione per esprimere le emozioni o per evitare i conflitti, nella postura rigida e nella povertà espressiva della mimica facciale.

Le stesse realtà virtuali di blog e social network, con la loro “pubblicizzazione dell’intimità” e il sostenere identità multiple, fluide, incerte o spesso fittizie, ha finito col creare un paradosso della comunicazione, soprattutto negli adolescenti: si può essere in contatto con tutti in ogni momento semplicemente “esibendo” il proprio avatar, senza il coinvolgimento cognitivo-emotivo che una relazione fisicamente reale, invece, implica, comporta, esige. Tutto ciò ha alimentato, specie nei più giovani, un analfabetismo emotivo che via via li ha allontanati dagli altri come da se stessi perché non ci si racconta né a sé stessi né agli altri, mentre si perde gradualmente la capacità, la possibilità e la responsabilità di implicarsi emozionalmente, di riconoscere e utilizzare le emozioni come base del pensiero, della motivazione e della relazione che va riducendosi ad un’esibizione di facciata

L’incapacità di leggere nel proprio animo, provoca un impulso all’azione per lo più svincolato dal proprio vissuto interiore che si traduce nella mancanza di consapevolezza e di gestione delle proprie emozioni e dei comportamenti ad esse connessi, nella mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali ci si sente in un determinato modo piuttosto che in un altro e nell’incapacità a relazionarsi, ad entrare in sintonia con le emozioni altrui e con i comportamenti che da esse scaturiscono, con la conseguenza che si cessa di riconoscerle e rispettarle.

Esiste, tuttavia, un ulteriore aspetto che vale la pena considerare e analizzare per provare a comprendere le ragioni dell’analfabetismo emotivo degli adolescenti. La società, mai come oggi, richiede alle famiglie di “precocizzare” i tempi di apprendimento dei bambini: le stesse riforme scolastiche propongono un sistema di organizzazione e formazione che preveda e privilegi il “far fare molte attività”. Quasi tutti i genitori, dunque, si sentono “necessitati” a far frequentare ai propri figli, in orario extra-scolastico, corsi di nuoto, di danza, di musica, di lingue etc. Divisi fra diverse attività, i bambini “si organizzano” da sé tutte queste cose con strumenti di cui però sono in realtà privi.

I genitori, da parte loro, molto attenti alla cura dell’alimentazione, della salute e più in generale del corpo come dell’intelligenza dei loro figli, non mostrano altrettanta sensibilità e perizia nell’educazione emotiva e psicologica, spesso per mancanza di tempo. Aspetto che emerge non solo davanti alla loro incapacità o fatica nel separarsi dai figli, ma anche quando ritengono di dover tenere lontano il bambino da tutto ciò che non è “felicità”, talvolta ingenerando in lui uno stato di confusione, facendogli vivere sentimenti d’amore e generosità laddove ciò che lui percepisce è, invece, rabbia e aggressività. Genitori che ritengono di prendersi correttamente cura di quella che U. Galimberti definisce “educazione dell’anima”, concetto che accoglie in sé i sentimenti, le emozioni, l’entusiasmo e la paura. Questo atteggiamento, per quanto dettato dalla buona fede, è di sovente all’origine del mutamento delle modalità di comportamento emotivo dei bambini prima, degli adolescenti poi, certamente più svegli intellettualmente di quanto non lo fossimo noi nella medesima fase di crescita, ma con difficoltà marcate nel mostrare i propri sentimenti: sempre più precoci nell’apprendere ma più fragili e meno corazzati nelle relazioni interpersonali.

Alla luce di ciò non possiamo fare a meno di domandarci se l’analfabetismo emozionale e relazionale racchiuda in sé, una dose (anche forte) di rischio e pericolo per la società. I fatti di cronaca, del resto sembrano confermare questo interrogativo.

La stessa esclusione o la marginalizzazione nei programmi scolastici di spazi da destinare alla formazione emozionale, è un indicatore negativo che può spiegare, tra l’altro, l’impotenza delle istituzioni scolastiche di fronte all’aumento delle difficoltà e del disagio, oltre all’insorgenza di alcuni disturbi fra gli adolescenti e i bambini. Ma è anche per questi motivi che la scuola, da parte sua, non può più esimersi dall’insegnare oltre all’informatica e alle lingue, anche la conoscenza di sé e le capacità interpersonali essenziali, che solo se coltivate correttamente e costantemente, consentono di instaurare relazioni con i propri simili di cui altrimenti non si sarà mai in grado di percepire il mondo interiore. Con questo vogliamo dire che la scuola dovrebbe puntare gradualmente sempre più “all’ascolto” piuttosto che limitarsi all’ambito del “fare”. Gli insegnanti e gli educatori dovrebbero soffermarsi a parlare non solo con la classe, ma “con” e “ai” singoli studenti, in maniera da poterne seguire i percorsi di vita. Appellarsi all’indolenza o alla assenza di volontà degli adolescenti è atteggiamento vuoto di significato e privo di ricadute positive in ambito educativo: la volontà non esiste al di fuori dell’interesse e l’interesse non esiste se separato dal legame emotivo, che non si costruisce certamente in un ambito di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione.
U. Galimberti, pur nella consapevolezza delle difficoltà degli insegnanti che hanno a che fare con quei ragazzi definiti con brutta parola “difficili”, accusa la scuola di totale disinteresse per categorie come autostima ed auto-accettazione, che attualmente non sono fondanti del percorso scolastico, dove troppo spesso, invece, il concetto di “educare” viene sostituito da quello di “istruire”.
A questo proposito, H. Gardner ha sostenuto che non si può istruire se prima non si è arrivati alla costruzione dell’identità del discente, partendo dal riconoscimento dell’altro. A scuola domina una forma di oggettivizzazione (= profitto) che rende il percorso scolastico appiattito e lontano da una educazione affettivo/emotiva. D. Goleman, psicologo dell’Università di Harvard come H. Gardner, precisa che “l’educazione delle emozioni ci porta a quell’empatia che è la capacità di leggere le emozioni degli altri, e siccome senza percezione delle esigenze e della disperazione altrui, non può esserci preoccupazione per gli altri, la radice dell’altruismo sta nell’empatia, che si raggiunge con quell’educazione emotiva che consente a ciascuno di conseguire quegli atteggiamenti morali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno: l’autocontrollo e la compassione!”.

Gli adolescenti di oggi sembrano aver acquisito la velocità del mondo che li circonda: rapidi nel fare delle connessioni e ancor più nel consumare stimoli e informazioni, ma impreparati a confrontarsi con i luoghi delle emozioni e delle narrazioni che li abitano a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non saprebbero nemmeno attribuire un nome. Ma i territori dell’anima non sono solo dentro. Emozione è parola che deriva dal latino ex-movere, “muovere da”: la sua funzione è di mettere in contatto l’individuo con il mondo delle cose, con un mondo che possiede un’anima che lo vivifica. L’impegno all’educazione affettiva diventa allora quello di collegare questi due mondi, di creare una sorta di risonanza tra questi due ambiti, che sia in grado di favorire e conservare il contatto tra realtà oggettuale ed emozioni interne.

Educare emotivamente equivale a fornire strumenti cognitivi, linguistici, emotivi e abilità sociali con cui nominare, significare, armonizzare, costruire un mondo di eventi e momenti emotivi che accadono “dentro” la persona e “fra” le persone. La facilitazione dell’esperienza emotiva, nell’autocoscienza del sé e nella relazione come scontro-incontro con l’altro, deve divenire l’obiettivo di un’educazione all’emotività che non tenda a comprimere le emozioni ma, piuttosto, a renderle comprensibili, accettabili, nominabili, dunque, fruibili e condivisibili da tutti. L’ambito familiare è certamente il luogo essenziale per lo sviluppo emotivo-affettivo, ma non va trascurato il ruolo importante sostenuto da ogni adulto che vive a contatto con un bambino, in particolare gli educatori e gli insegnanti, i quali dovrebbero impegnarsi (fino a farne quasi l’imperativo categorico della loro coscienza) a fornire a quei bambini che un giorno saranno adolescenti tutti gli strumenti e le abilità che gli consentano di acquisire autonomia nel distinguere e valorizzare i diversi sentimenti, conoscenza fondamentale per la crescita mentale, culturale, sociale.

Noi adulti, ciascuno nel proprio ruolo, di genitore o di insegnante, dovremmo considerarci responsabili di quella forma di apparente impermeabilità che sembra avvolgere gli adolescenti, distanziandoli emotivamente da ciò che accade intorno a loro. Noi adulti che, forse anche involontariamente, li abbiamo indotti, fin dalla più tenera età, a inibire le loro emozioni, anche quelle più profonde e coinvolgenti come riso e pianto.

I sentimenti non sono una dote naturale, non si trasmettono geneticamente. I sentimenti si apprendono, sono un fatto cognitivo che si acquisisce culturalmente attraverso la costruzione di mappe emotive che ci consentono di percepire il mondo esterno e gli altri con capacità di accoglienza e di risposta adeguate alle circostanze, e di costruire in questo modo relazioni e legami.

Se scegliamo di ignorare questo aspetto, è probabile che la crescita emotiva dei nostri figli si arresterà a livello d’impulsi: fisiologici, biologici, naturali. Il passo successivo dovrebbe, invece, consentirgli di passare alle emozioni, una forma più emancipata rispetto all’impulso: laddove l’impulso conosce il gesto, l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di quello che si vede. Solo, successivamente si giunge al sentimento, forma ulteriormente evoluta perché è faccenda emotiva e cognitiva assieme.

Se la famiglia latita e contestualmente la scuola disamora il sentimento non si forma e se nemmeno la cultura interviene, forse, non sbagliano coloro che sostengono a gran voce che non tutte le società sono idonee a far figli.

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