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Galeotta fu la legge 28 Luglio 1984 n. 408 in materia di modifiche al regime fiscale a riguardo di alcoli, bevande alcoliche e all’aumento dell’imposta su alcuni vini spumante. Galeotta perché se da un lato rincarò le predette imposte dall’altro sgravò quelle sulla fabbricazione degli alcoli.

Fu così che l’alcol metilico sfuggì ai controlli, divenne almeno dieci volte più a buon mercato dell’alcol etilico e rappresentò per i produttori di vino disonesti una conveniente, celere alternativa alla sofisticazione per zuccheraggio, senza troppo temere ispezioni a sorpresa; meglio noto col nome di metanolo (prodotto naturalmente dalla fermentazione dell’uva è ammissibile per legge nella quantità compresa tra i 0,06 e 0,15 ml in 100 ml di alcol etilico complessivo, ma può essere anche il risultato di un’eccessiva torchiatura delle vinacce, della distillazione a secco del legno o sintetizzato per reazione del monossido di carbonio coll’idrogeno provocando danni permanenti e risultando letale a partire dai 0,25 ml) l’alcol metilico, usato di solito come antigelo e solvente, rappresentò l’additivo ideale per incrementare gradazione alcolica in vini scadenti ed annacquati e favorire maggiori profitti agli scellerati che se ne avvalsero.

Sessanta aziende coinvolte in questa pratica delittuosa di adulterazione e capaci, come accertato dalla procura di Milano, di immettere 2500 litri di questo veleno mischiato al vino nelle bottiglie destinate alle tavole di mezz’Italia e chissà dov’altro ancora nel solo periodo a partire dal dicembre dell’85 fino alla scoperta del misfatto con le prime vittime, spingendo il sostituto procuratore della Repubblica Alberto Nobili a far luce sulle cause del loro decesso.

A partire dall’infausto 17 Marzo 1986 l’ingestione del vino al metanolo causò acidosi metabolica e danni neurologici da intossicazione, quindici casi di cecità e ben diciannove morti per avvelenamento. Tutte le vittime erano residenti in Lombardia, Piemonte e Liguria. Infatti, come riportato da indagini e ordinanze di quel periodo, il fenomeno della sofisticazione enologica al metanolo ebbe luogo prevalentemente in determinate province del Centro-Nord ( Alessandria, Asti, Cuneo, Novara e Torino; Varese; Bolzano; Udine; Padova, Treviso e Verona; Genova; Ferrara, Parma, Piacenza e Ravenna) e di Taranto nel Sud Italia, con conseguenze disastrose per l’immagine dell’intera Italia all’estero: l’onta della vergogna cancellò i risultati positivi registrati dalle esportazioni di vino dell’anno precedente con un decremento degli introiti del 25% ed il fermo doganale delle bottiglie nei paesi di destino.

A seguito delle indagini per ipotesi di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, concluso il processo di primo grado nel 1992 presso la Corte d’Assise di Milano scattarono condanne, fino a un massimo di 16 anni di reclusione per produttori, ristoratori, autotrasportatori e commercianti; Giuseppe Franzoni, Francesco Ragazzini, Raffaele Di Muro, Romolo Rivola, Adelchi Bertone, Raffaele Tirico, Walter Nalin e Giuseppe Volpi sono solo alcune delle persone implicate nello scandalo del metanolo e si rammentano inquisite per aver compiuto i suddetti reati e le frodi alimentari la ditta Odore Vincenzo, occupatasi della commercializzazione dei vini prodotti da Daniele e Giovanni Ciravegna, quest’ultimo reputato il principale fautore della vicenda più nera dell’enologia italiana e già noto all’istituto centrale repressione frodi di Treviso (I.C.R.F.) che lo segnalò per uso eccessivo di metanolo già nel 1984 (denuncia scomparsa misteriosamente consentendo al reo di seguitare a vinificare indisturbato nell’illegalità sino al misfatto dell’86); egualmente implicate le imprese di Giovanni Aldo e di Giovanni Binaco (quella produttrice delle 500 botti di Barbera sequestrate poi in Germania), la ditta Baroncini Angelo, le industrie enologiche Bernardi Primo e la ditta Piancastelli Roberto, cui si aggiungeranno altre aziende venete e toscane (volutamente non troppo pubblicizzate per proteggerne l’immagine si presume); infine la ditta Antonio Fusco nel tarantino, produttrice dei vini trasportati in ingente quantità e sequestrati a Seté il 24 Marzo dell’86 sulla nave cisterna “Kaliste”, altrimenti imbottigliati con etichette francesi.

Venne istituito, col senno di poi, il nucleo anti-sofisticazioni dei carabinieri e fortificata la capillarità dell’ I.C.R.F. a livello provinciale ma i tribunali processarono quei criminali col rito abbreviato, riducendo le pene fino a un terzo di quelle previste per i reati appurati, oppure concedendo il condono ( come per Silvano Poli, ad esempio, libero di adulterare il vino con metil-isocianato nel ’90 e con l’aggiunta di zuccheri illegali per scampare nuovamente alla condanna e sabotare l’azienda Zonin nel ’95 per danni da 1,5 miliardi di lire e restare ancora impunito fino al ’97, anno in cui venne accusato di aspirare migliaia di ettolitri di vino da una cantina di Gambellara e rivenderli come suoi; 5 anni e mezzo di carcere, si vedrà in seguito, per niente educativi); vennero formulate dai condannati dichiarazioni di fallimento senza alcuna vergogna che privarono le famiglie delle vittime del legittimo risarcimento. Si dichiararono nullatenenti, senza colpe e senza rimorsi.

Un sistema giudiziario inefficace, deplorevole e scorretto nei confronti delle vittime e della salute pubblica tanto da lasciare pressoché impuniti i delitti, i reati e le frodi. E nello stesso 1986, nel mentre venivano stanziati dieci miliardi di lire per una campagna di educazione alimentare e informazione al cittadino e altri cinque miliardi per una campagna di informazione specifica sul vino, il ministero della sanità fece approvare una legge che avrebbe dovuto rendere noto annualmente l’elenco dei condannati per frodi alimentari attraverso la gazzetta ufficiale; legge sistematicamente infranta: sparivano gli elenchi dei fraudolenti per riapparire chissà quando, oppure lo si pubblicava senza scadenze fisse dopo anni. Un lasso di tempo che consentiva ai fraudolenti di giocare con l’identità delle loro imprese cambiando marchio, nome e intestatario per continuare a vinificare illegalmente e senza scrupoli.

Danaro pubblico sprecato da un lato e dall’altro una politica di disinformazione voluta, continuata e perpetrata negli anni da un sistema corrotto. Ecco spiegato perché sentenze rese definitive negli anni successivi e pubblicazioni dei nomi di persone fisiche o giuridiche macchiate del reato di frode alimentare, come nel ’98 ad esempio, venissero rese note soltanto nel 2003… ammesso che i soggetti colpevoli di reato non godessero della “non menzione”, quello che assicurava loro il candore della fedina penale e garantiva la prosecuzione delle medesime attività illegali nel tempo, giusto il tempo di fruire di un po’ di condizionale e pagare qualche sanzione.

Nel 2003 Silvano Poli, a cui era stata condonata la pena nell’86 e lasciato libero di infrangere la legge fino al ’97, anno del furto di vino che lo qualificò come il “vampiro” dell’enologia italiana, creò una nuova organizzazione fraudolenta: a sei anni dalla prima condanna comprava vino da tavola scadente in Puglia a diecimila euro a cisterna per rivenderlo come I.G.T. della regione Veneto piazzandolo a sessantamila; tutto ciò grazie alla falsificazione delle bolle lungo il cammino e alla creazione di otto aziende fittizie deputate allo smistamento del vino e alla distribuzione commerciale. E la legge stavolta non poteva di nuovo mal figurare dandogli il condono e per pudore dei tribunali Poli finì per la seconda volta in carcere.

Come stupirsi se dal 2006 è concesso riempire le botti comuni con trucioli di rovere francese tostato nel nostro Paese per conferire aroma di barrique? Si dice piaccia al mercato stando a taluni esperti sulla tendenza del gusto dei consumatori cui è negato però sapere dell’espediente, mai indicato in etichetta. A cosa sono servite le campagne d’informazione sulla salute alimentare e sul vino se ora non sono apposti in etichetta neanche i divieti alle donne in gravidanza e in lattazione di bere qualsivoglia alcolico in quanto nocivo alla salute psicofisica, foriero di disturbi comportamentali e della futura capacità di concentrazione del nascituro? Non c’è da meravigliarsi neanche delle bottiglie sequestrate dai NAS nello stesso 2006, bottiglie per un valore di oltre 7 milioni di euro sequestrate a causa della violazione delle più consuete e banali norme d’etichettatura. Accade di peggio!

Omissione colposa si dovrebbe chiamare la disinformazione ed il silenzio di tutti gli organi statali preposti e degli addetti al settore enologico quando il 3 dicembre del 2007 non fu divulgato pubblicamente il comunicato ufficiale della Guardia Forestale di Asiago riportante notizia sulle migliaia di ettolitri di vino sequestrati nella famigerata Veronella (Ve) ed il conseguente arresto del produttore, Bruno Castagna, per sofisticazione alimentare; Castagna, malfattore già noto agli inquirenti per l’uso di metanolo circa vent’anni prima in quella stessa cittadina, venne sorpreso con 810 ettolitri di vino rosso e 860 di vino bianco da tavola, ancora in fase di fermentazione, oltre a 60 litri di acido cloridrico e solforico contenute in taniche e a 60 chili di zucchero non derivante da uve.

Successivamente gli esami chimici effettuati dall’Istituto agrario di San Michele all’Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell’I.C.Q. accertarono l’uso di oltre il 40 per cento di zucchero, il 50 per cento di acqua e la presenza di acido cloridrico e solforico (in comuni esami di routine questi acidi, usati per rompere le molecole dello zucchero e farne sparire le tracce, si dissolvono prima dell’imbottigliamento ed è arduo dimostrarne la presenza nel vino) persino nel “prodotto vinoso” sequestrato presso gli stabilimenti delle imprese V.M.C. srl ed Enoagri Export srl di Massafra (Ta), un cocktail micidiale composto da acidi dall’effetto cancerogeno.

A commissionare il veleno da Taranto per produrre vino a basso furono delle ditte vinicole e di imbottigliamento, eccone alcune: Cantine Soldo ( si stima fatturi 50 milioni di euro l’anno), Sarom Vini srl, Vinicola Marseglia,Cantina Sgarzi, Casa Vinicola Poletti, Castel San Pietro, La Morra, Cantine Borgo San Martino, Coppa Angelo & figli snc, Morettoni Spa, Cooperativa tre produttori, Acetificio Pontiroli, Ovada, Doglieni, Nuova Commerciale, Monteforte d’Alpone, Azienda Agricola Rizzello spa, Cantina Campi e la Vinicola Santa Croce; quest’ultima di proprietà dei figli di Silvano Poli, scampato miracolosamente al coinvolgimento del vino al veleno ma arrestato per la terza volta per aver fatto viaggiare delle cisterne vuote fingendo trasferimenti di vino, confondendo l’origine del prodotto e maggiorandolo del costo del trasporto mai avvenuto.

Aziende che imbottigliavano vino anche per cantine famose a cui non è stato contestato il benché minimo reato o illecito in quanto accertato che il prodotto adulterato viaggiasse con documenti falsi non di loro pertinenza o responsabilità; aziende vinicole che, lavandosene le mani, non sapevano cosa mettessero di preciso in circa 40 milioni di bottiglie? E pensare che un tempo pare la legge non ammettesse ignoranza!

Fatto altrettanto grave è che alla vigilia del Vinitaly del 2008, la più importante manifestazione enoica d’Italia che si svolge annualmente a Verona, nonostante l’espresso annunciasse lo scandalo del vino all’acido e il verdetto del pm di Taranto Luca Buccheri fosse inconfutabile e tristemente ricco di ulteriori prove e risvolti svelati dalle indagini, tutti gli enti, i grandi cerimonieri, servi e valletti delle cantine, dal ministero delle politiche agricole, congiuntamente a quello della salute e alle autorità del mondo della degustazione, formarono un “muro di gomma” e all’unisono dichiararono si trattasse solo di una innocua frode commerciale.

“Precisato dagli inquirenti…mero annacquamento” racconterà Paolo de Castro ignaro alquanto del fatto che il pm Buccheri avesse firmato il decreto di sequestro e ordinasse agli uomini dell’Ispettorato centrale per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari (I.C.Q.) e alla Guardia Forestale di effettuare sequestri in determinate cantine ubicate in otto diverse regioni e di individuare i responsabili di una pericolosa e delittuosa aggressione alla salute pubblica, appena poche ore prima dalla sua rassicurante e sbugiardata dichiarazione del 4 aprile 2008; neanche il governo, meglio informato, si allineò con le tesi del pm di Taranto, anzi, il 7 Aprile tranquillizzava così i partner europei per scampare all’embargo: “«le indagini escludono la presenza di un rischio sanitario, trattandosi solo di un problema relativo all’annacquamento del mosto con aggiunta di acqua e zucchero di barbabietola» e ancora «la magistratura ha accertato che si trattava di detenzione di taniche contenenti acido solforico e fosforico per uso agricolo, che non sono stati utilizzati nel mosto e nel vino destinato al consumo»; in una nota rivista bimestrale specializzata l’allora direttore editoriale e responsabile proclamò a gran voce “per essere colpevoli occorre venire condannati”, “altro che truffa, niente sostanze tossiche, nessuna adulterazione….un errore”; “non ci è piaciuta la bomba ad orologeria fatta deflagrare in occasione del Vinitaly….significa danneggiare un settore”.
Semmai significa che in Italia si coprono i disonesti e si intasca da loro la caparra per la pubblicità sulle proprie riviste perché seguitino ad avvelenare la gente fino quando la legge non li acciuffa. Significa che vengono prima gli affari, le inutili belle figure col commercio estero, la costruzione dell’opinione pubblica e poi l’applicazione delle leggi e la tutela dei consumatori. E che bisogna far esplodere una notizia necessaria a garantire l’incolumità del cittadino quando questa rovini meno la loro reputazioni e il loro business, col loro permesso si intende.

A voler essere buoni viene da pensare che per queste persone la salute pubblica e l’incolumità dei consumatori sia una questione di opinioni, facciate e mazzette secondaria alla verità.

La verità è che i test effettuati dall’Istituto agrario di San Michele all’Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell’I.C.Q. erano e restano esatti ed irrevocabili. Come poter cadere così negligentemente in contraddittorio con tutta la task force dei pm titolari dell’inchiesta? Persino il procuratore capo di Verona Guido Papalia, in un’intervista al tg3, rilasciava una serissima dichiarazione, contrariamente a certi funzionari e pagati esperti del settore: «tra i reati c’è sicuramente quello della contraffazione con pericolo della salute pubblica, l’associazione per delinquere e altri reati specifici di contraffazione».

E mentre gli ipocriti cercavano di salvare la faccia oppure di fingere risentimento per la “bomba ad orologeria” ( una bomba che esplodendo ha gettato fango solo sui millantatori non di certo sul lavoro dignitoso delle cantine serie) gli inquirenti cercavano, attraverso la tracciabilità, di bloccare per tempo la vendita del liquido nocivo presso i centri delle grande distribuzione e possibilmente oltreconfine. L’operazione “vendemmia sicura” si concluse col sequestro e ritiro di altri 140 mila ettolitri di vino.

E veniamo alle cantine Antinori, Argiano, Banfi, Casanova di Neri e Marchesi de’ Frescobaldi, ovvero al caso “Brunellopoli” del 2009: 17 responsabili di queste cantine (otto richiedendo il patteggiamento e nove ricevendo l’avviso di conclusione delle indagini) vennero accusati per i reati di frode in commercio e falso in atti, in alcuni casi commessi in associazione, nonché per il reato di false informazioni al Pubblico Ministero”. In pratica risolsero di gabbare gli italiani tutti ed i compratori all’estero infrangendo il disciplinare del Brunello di Montalcino, il quale prevedeva, e per sorte prevede, l’uso di vinificare solo con sangiovese grosso in purezza; aggiungevano, a loro dire, vitigni “migliorativi”. I campioni dell’enologia creativa.

E’ il caso che ha svelato quanto certi enologi, con fare ruffiano e non poca arroganza, cercassero di rendere questi vini più confacenti al gusto degli americani. I mancati californiani.

Poi le dimissioni dovute ai vertici del consorzio del Brunello, i silenzi ingiustificati di taluni proprietari delle suddette cantine, le confessioni e i “mea culpa” elogiati dai soliti valletti che arrivano in ritardo.
Piuttosto dove aveva lasciato il naso gli esperti che redigono le guide e che scrissero, a proposito dei Brunello imputati, “sangiovese 100%”? Certo potrebbero addurre che con l’olfatto non si può certo analizzare il dna del vino risalendo al vitigno e di questo certo bisogna dargliene atto, ma come mai nelle edizioni successive delle stesse guide hanno accolto di nuovo e a braccia aperte queste cantine e con recensioni elogiative? Non di naso si tratta (quello alcuni ce l’hanno per raccontare frottole, in taluni casi) è la dignità che manca.
La dignità e il pudore di bandire quelle cantine che hanno defraudato sé stesse e loro della competenza e dell’attendibilità nella degustazione, nonché dell’Italia della sua reputazione vitivinicola. Ma forse è di incompetenza voluta o comprata quella di cui parliamo, perché manca la serietà, la coerenza, l’onestà.
Mancano anche quando tocca al Cirò e al Chianti per le stesse ragioni del Brunello nel 2010 di essere “migliorati”.

Manca una coscienza rinnovata e pulita quando nessuno si incarica di fare una lista, o una guida se preferite, delle cantine che lavorano onestamente e che nel cui organico non figura nessun nominativo che abbia mai avuto a che fare con queste vergognose vicende.

Si parla tanto di “biologico”, “biodinamica”, territorio e preservazione dell’ambiente, ma nessuno si assume il dovere di fare un censimento di quelle cantine che tutt’oggi avvelenano l’ambiente immettendo i reflui vinicoli direttamente nella rete fognaria, o attraverso lo spandimento nei terreni agricoli, senza prima abbatterne i valori in termini di B.O.D. (biological oxygen demand) e C.O.D. (chemical oxygen demand).

Bisogna riflettere in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando ad una risoluzione drastica e definitiva, cercare di comprendere quanto la sovrapproduzione del vino ed il circolo vizioso che essa alimenta possa rappresentare una delle maggiori cause alla degenerazione del settore. E nel riconoscerlo la soluzione da attuare certo non è l’espianto dei vigneti, ormai parte integrante di un paesaggio che deve realmente essere valorizzato. Riconsiderare la pratica legale dello zuccheraggio, persino quella derivante da zucchero d’uva evaporato (che richiede maggiori solfitazioni), da mosto concentrato a fermentazione avviata (che aumenta non solo la gradazione alcolica ma anche l’acidità, falsando tutti i parametri delle vendemmie, del loro andamento) e da mosto concentrato rettificato, è fortemente necessario.

La pratica dell’addizione di zuccheri è diventata di routine quando dovrebbe essere consentita solo in caso di vendemmie particolarmente sfavorevoli e funestate da fattori meteorologici avversi; questo provoca l’impiego dei mosti concentrati per arricchire il mosto più dell’annata corrente, i quali, diventando legalmente vini, vengono letteralmente ammassati in attesa di essere venduti ai distillatori. E alle cantine in sovrapproduzione con questi vini arricchiti l’attesa rende: la comunità europea paga loro una quota giornaliera in funzione del grado alcolico e degli ettolitri prodotti, si chiama “magazzinaggio”. Ettolitri in eccedenza che si traducono in milioni di euro con cui la comunità europea sovvenziona, di anno in anno, le cantine.

Vietando lo zuccheraggio si ridurrebbe drasticamente la produzione dei vini da tavola, quelli maggiormente sofisticati, si risparmierebbero i soldi dell’U.E. e i costi di produzione del vino riducendone il costo finale. L’eno-pirateria deve essere perseguitata rivalutando e garantendo la qualità e intensificando i controlli anche sui vini da tavola, con l’informazione mirata all’educazione e al consumo del vino prodotto naturalmente e all’obbligo di trascrivere in etichetta quanto il consumatore è tenuto a sapere per tutelare la propria salute.

Galeotta fu la legge 28 Luglio 1984 n. 408 in materia di modifiche al regime fiscale a riguardo di alcoli, bevande alcoliche e all’aumento dell’imposta su alcuni vini spumante. Galeotta perché se da un lato rincarò le predette imposte dall’altro sgravò quelle sulla fabbricazione degli alcoli.

Fu così che l’alcol metilico sfuggì ai controlli, divenne almeno dieci volte più a buon mercato dell’alcol etilico e rappresentò per i produttori di vino disonesti una conveniente, celere alternativa alla sofisticazione per zuccheraggio, senza troppo temere ispezioni a sorpresa; meglio noto col nome di metanolo (prodotto naturalmente dalla fermentazione dell’uva è ammissibile per legge nella quantità compresa tra i 0,06 e 0,15 ml in 100 ml di alcol etilico complessivo, ma può essere anche il risultato di un’eccessiva torchiatura delle vinacce, della distillazione a secco del legno o sintetizzato per reazione del monossido di carbonio con l’idrogeno provocando danni permanenti e risultando letale a partire dai 0,25 ml) l’alcol metilico, usato di solito come antigelo e solvente, rappresentò l’additivo ideale per incrementare gradazione alcolica in vini scadenti ed annacquati e favorire maggiori profitti agli scellerati che se ne avvalsero. Sessanta aziende coinvolte in questa pratica delittuosa di adulterazione e capaci, come accertato dalla procura di Milano, di immettere 2500 litri di questo veleno mischiato al vino nelle bottiglie destinate alle tavole di mezz’Italia e chissà dov’altro ancora nel solo periodo a partire dal dicembre dell’85 fino alla scoperta del misfatto con le prime vittime, spingendo il sostituto procuratore della Repubblica Alberto Nobili a far luce sulle cause del loro decesso.

A partire dall’infausto 17 Marzo 1986 l’ingestione del vino al metanolo causò acidosi metabolica e danni neurologici da intossicazione, quindici casi di cecità e ben diciannove morti per avvelenamento. Tutte le vittime erano residenti in Lombardia, Piemonte e Liguria. Infatti, come riportato da indagini e ordinanze di quel periodo, il fenomeno della sofisticazione enologica al metanolo ebbe luogo prevalentemente in determinate province del Centro-Nord ( Alessandria, Asti, Cuneo, Novara e Torino; Varese; Bolzano; Udine; Padova, Treviso e Verona; Genova; Ferrara, Parma, Piacenza e Ravenna) e di Taranto nel Sud Italia, con conseguenze disastrose per l’immagine dell’intera Italia all’estero: l’onta della vergogna cancellò i risultati positivi registrati dalle esportazioni di vino dell’anno precedente con un decremento degli introiti del 25% ed il fermo doganale delle bottiglie nei paesi di destino.

A seguito delle indagini per ipotesi di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, concluso il processo di primo grado nel 1992 presso la Corte d’Assise di Milano scattarono condanne, fino a un massimo di 16 anni di reclusione per produttori, ristoratori, autotrasportatori e commercianti; Giuseppe Franzoni, Francesco Ragazzini, Raffaele Di Muro, Romolo Rivola, Adelchi Bertone, Raffaele Tirico, Walter Nalin e Giuseppe Volpi sono solo alcune delle persone implicate nello scandalo del metanolo e si rammentano inquisite per aver compiuto i  suddetti reati e le frodi alimentari la ditta Odore Vincenzo, occupatasi della commercializzazione dei vini prodotti da Daniele e Giovanni Ciravegna, quest’ultimo reputato il principale fautore della vicenda più nera dell’enologia italiana e già noto all’Istituto centrale repressione frodi di Treviso (I.C.R.F.) che lo segnalò per uso eccessivo di metanolo già nel 1984 (denuncia scomparsa misteriosamente consentendo al reo di seguitare a vinificare indisturbato nell’illegalità sino al misfatto dell’86); egualmente implicate le imprese di Giovanni Aldo e di Giovanni Binaco (quella produttrice delle 500 botti di Barbera sequestrate poi in Germania), la ditta Baroncini Angelo, le industrie enologiche Bernardi Primo e la ditta Piancastelli Roberto, cui si aggiungeranno altre aziende venete e toscane (volutamente non troppo pubblicizzate per proteggerne l’immagine si presume); infine la ditta Antonio Fusco nel tarantino, produttrice dei vini trasportati in ingente quantità e sequestrati a Seté il 24 Marzo dell’86 sulla nave cisterna “Kaliste”, altrimenti imbottigliati con etichette francesi.

Venne istituito, col senno di poi, il nucleo anti-sofisticazioni dei carabinieri e fortificata la capillarità dell’ I.C.R.F. a livello provinciale ma i tribunali processarono quei criminali col rito abbreviato, riducendo le pene fino a un terzo di quelle previste per i reati appurati, oppure concedendo il condono ( come per Silvano Poli, ad esempio, libero di adulterare il vino con metil-isocianato nel ’90 e con l’aggiunta di zuccheri illegali per scampare nuovamente alla condanna e sabotare l’azienda Zonin nel ’95 per danni da 1,5 miliardi di lire e restare ancora impunito fino al ’97, anno in cui venne accusato di aspirare migliaia di ettolitri di vino da una cantina di Gambellara e rivenderli come suoi; 5 anni e mezzo di carcere, si vedrà in seguito, per niente educativi); vennero formulate dai condannati dichiarazioni di fallimento senza alcuna vergogna che privarono le famiglie delle vittime del legittimo risarcimento. Si dichiararono nullatenenti, senza colpe e senza rimorsi.

Un sistema giudiziario inefficace, deplorevole e scorretto nei confronti delle vittime e della salute pubblica tanto da lasciare pressoché impuniti i delitti, i reati e le frodi. E nello stesso 1986, nel mentre venivano stanziati dieci miliardi di lire per una campagna di educazione alimentare e informazione al cittadino e altri cinque miliardi per una campagna di informazione specifica sul vino, il ministero della sanità fece approvare una legge che avrebbe dovuto rendere noto annualmente l’elenco dei condannati per frodi alimentari attraverso la gazzetta ufficiale; legge sistematicamente infranta: sparivano gli elenchi dei fraudolenti per riapparire chissà quando, oppure lo si pubblicava senza scadenze fisse dopo anni. Un lasso di tempo che consentiva ai fraudolenti di giocare con l’identità delle loro imprese cambiando marchio, nome e intestatario per continuare a  vinificare illegalmente e senza scrupoli.

Danaro pubblico sprecato da un lato e dall’altro una politica di disinformazione voluta, continuata e perpetrata negli anni da un sistema corrotto. Ecco spiegato perché sentenze rese definitive negli anni successivi e pubblicazioni dei nomi di persone fisiche o giuridiche macchiate del reato di frode alimentare, come nel ’98 ad esempio, venissero rese note soltanto nel 2003… ammesso che i soggetti colpevoli di reato non godessero della “non menzione”, quello che assicurava loro il candore della fedina penale e garantiva la prosecuzione delle medesime attività illegali nel tempo, giusto il tempo di fruire di un po’ di condizionale e pagare qualche sanzione.

Nel 2003 Silvano Poli, a cui era stata condonata la pena nell’86 e lasciato libero di infrangere la legge fino al ’97, anno del furto di vino che lo qualificò come il “vampiro” dell’enologia italiana, creò una nuova organizzazione fraudolenta: a sei anni dalla prima condanna comprava vino da tavola scadente in Puglia a diecimila euro a cisterna per rivenderlo come I.G.T. della regione Veneto piazzandolo a sessantamila; tutto ciò grazie alla falsificazione delle bolle lungo il cammino e alla creazione di otto aziende fittizie deputate allo smistamento del vino e alla distribuzione commerciale. E la legge stavolta non poteva di nuovo mal figurare dandogli il condono e per pudore dei tribunali Poli finì per la seconda volta in carcere.

Come stupirsi se dal 2006 è concesso riempire le botti comuni con trucioli di rovere francese tostato nel nostro Paese per conferire aroma di barrique? Si dice piaccia al mercato stando a taluni esperti sulla tendenza del gusto dei consumatori cui è negato però sapere dell’espediente, mai indicato in etichetta. A cosa sono servite le campagne d’informazione sulla salute alimentare e sul vino se ora non sono apposti in etichetta neanche i divieti alle donne in gravidanza e in lattazione di bere qualsivoglia alcolico in quanto nocivo alla salute psicofisica, foriero di disturbi comportamentali e della futura capacità di concentrazione del nascituro? Non c’è da meravigliarsi neanche delle bottiglie sequestrate dai NAS nello stesso 2006, bottiglie per un valore di oltre 7 milioni di euro sequestrate a causa della violazione delle più consuete e banali norme d’etichettatura. Accade di peggio!

Omissione colposa si dovrebbe chiamare la disinformazione ed il silenzio di tutti gli organi statali preposti e degli addetti al settore enologico quando il 3 dicembre del 2007 non fu divulgato pubblicamente il comunicato ufficiale della Guardia Forestale di Asiago riportante notizia sulle migliaia di ettolitri di vino sequestrati nella famigerata Veronella (Ve) ed il conseguente arresto del produttore, Bruno Castagna, per sofisticazione alimentare; Castagna, malfattore già noto agli inquirenti per l’uso di metanolo circa vent’anni prima in quella stessa cittadina, venne sorpreso con 810 ettolitri di vino rosso e 860 di vino bianco da tavola, ancora in fase di fermentazione, oltre a 60 litri di acido cloridrico e solforico contenute in taniche e a 60 chili di zucchero non derivante da uve. Successivamente gli esami chimici effettuati dall’Istituto agrario di San Michele all’Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell’I.C.Q. accertarono l’uso di oltre il 40 per cento di zucchero, il 50 per cento di acqua e la presenza di acido cloridrico e solforico ( in comuni esami di routine questi acidi, usati per rompere le molecole dello zucchero e farne sparire le tracce, si dissolvono prima dell’imbottigliamento  ed è arduo dimostrarne la presenza nel vino) persino nel “prodotto vinoso” sequestrato presso gli stabilimenti delle imprese V.M.C. srl ed Enoagri Export srl di Massafra (Ta), un cocktail micidiale composto da acidi dall’effetto cancerogeno. A commissionare il veleno da Taranto per produrre vino a basso costo furono delle ditte vinicole e di imbottigliamento, eccone alcune: Cantine Soldo ( si stima fatturi 50 milioni di euro l’anno), Sarom Vini srl, Vinicola Marseglia,Cantina Sgarzi, Casa Vinicola Poletti, Castel San Pietro, La Morra, Cantine Borgo San Martino, Coppa Angelo & figli snc, Morettoni Spa, Cooperativa tre produttori, Acetificio Pontiroli, Ovada, Doglieni, Nuova Commerciale, Monteforte d’Alpone, Azienda Agricola Rizzello spa, Cantina Campi e la Vinicola Santa Croce; quest’ultima di proprietà dei figli di Silvano Poli, scampato miracolosamente al coinvolgimento del vino al veleno ma arrestato per la terza volta per aver fatto viaggiare delle cisterne vuote fingendo trasferimenti di vino, confondendo l’origine del prodotto e maggiorandolo del costo del trasporto mai avvenuto.

Aziende che imbottigliavano vino anche per cantine famose a cui non è stato contestato il benché minimo reato o illecito in quanto accertato che il prodotto adulterato viaggiasse con documenti falsi non di loro pertinenza o responsabilità; aziende vinicole che, lavandosene le mani, non sapevano cosa mettessero di preciso in circa 40 milioni di bottiglie? E pensare che un tempo pare la legge non ammettesse ignoranza!

Fatto altrettanto grave è che alla vigilia del Vinitaly del 2008, la più importante manifestazione enologica d’Italia che si svolge annualmente a Verona, nonostante l’espresso annunciasse lo scandalo del vino all’acido e il verdetto del pm di Taranto Luca Buccheri fosse  inconfutabile e tristemente ricco di ulteriori prove e risvolti svelati dalle indagini, tutti gli enti, i grandi cerimonieri, servi e valletti delle cantine, dal ministero delle politiche agricole, congiuntamente a quello della salute e alle autorità del mondo della degustazione, formarono un “muro di gomma” e all’unisono dichiararono si trattasse solo di una innocua frode commerciale.

Precisato dagli inquirenti…mero annacquamento” racconterà Paolo de Castro ignaro alquanto del fatto che il pm Buccheri avesse firmato il decreto di sequestro e ordinasse agli uomini dell’Ispettorato centrale per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari (I.C.Q.) e alla Guardia Forestale di effettuare sequestri in determinate cantine ubicate in otto diverse regioni e di individuare i responsabili di una pericolosa e delittuosa aggressione alla salute pubblica, appena poche ore prima dalla sua rassicurante e sbugiardata dichiarazione del 4 aprile 2008; neanche il governo, meglio informato, si allineò con le tesi del pm di Taranto, anzi, il 7 Aprile tranquillizzava così i partner europei per scampare all’embargo: “le indagini escludono la presenza di un rischio sanitario, trattandosi solo di un problema relativo all’annacquamento del mosto con aggiunta di acqua e zucchero di barbabietola” e ancora “la magistratura ha accertato che si trattava di detenzione di taniche contenenti acido solforico e fosforico per uso agricolo, che non sono stati utilizzati nel mosto e nel vino destinato al consumo“; in una nota rivista bimestrale specializzata l’allora direttore editoriale e responsabile proclamò a gran voce “per essere colpevoli occorre venire condannati“, “altro che truffa, niente sostanze tossiche, nessuna adulterazione….un errore“; “non ci è piaciuta la bomba ad orologeria fatta deflagrare in occasione del Vinitaly….significa danneggiare un settore“.

Semmai significa che in Italia si coprono i disonesti e si intasca da loro la caparra per la pubblicità sulle proprie riviste perché seguitino ad avvelenare la gente fino quando la legge non li acciuffa. Significa che vengono prima gli affari, le inutili belle figure col commercio estero, la costruzione dell’opinione pubblica e poi l’applicazione delle leggi e la tutela dei consumatori. E che bisogna far esplodere una notizia necessaria a garantire l’incolumità del cittadino quando questa rovini meno la loro reputazioni e il loro business, col loro permesso si intende. 

A voler essere buoni viene da pensare che per queste persone la salute pubblica e l’incolumità dei consumatori sia una questione di opinioni, facciate e mazzette secondaria alla verità.

La verità è che i test effettuati dall’Istituto agrario di San Michele all’Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell’I.C.Q. erano e restano esatti ed irrevocabili. Come poter cadere così negligentemente in contraddittorio con tutta la task force dei pm titolari dell’inchiesta? Persino il procuratore capo di Verona Guido Papalia, in un’intervista al tg3, rilasciava una serissima dichiarazione, contrariamente a certi funzionari e pagati esperti del settore: “tra i reati c’è sicuramente quello della contraffazione con pericolo della salute pubblica, l’associazione per delinquere e altri reati specifici di contraffazione“.

E mentre gli ipocriti cercavano di salvare la faccia oppure di fingere risentimento per la “bomba ad orologeria” (una bomba che esplodendo ha gettato fango solo sui millantatori non di certo sul lavoro dignitoso delle cantine serie) gli inquirenti cercavano, attraverso la tracciabilità, di bloccare per tempo la vendita del liquido nocivo presso i centri delle grande distribuzione e possibilmente oltreconfine. L’operazione “vendemmia sicura” si concluse col sequestro e ritiro di altri 140 mila ettolitri di vino.

 E veniamo alle cantine Antinori, Argiano, Banfi, Casanova di Neri e Marchesi de’ Frescobaldi, ovvero al caso Brunellopoli del 2009: 17 responsabili di queste cantine (otto richiedendo il patteggiamento e nove ricevendo  l’avviso di conclusione delle indagini) vennero accusati per i reati di frode in commercio e falso in atti, in alcuni casi commessi in associazione, nonché per il reato di false informazioni al Pubblico Ministero. In pratica risolsero di gabbare gli italiani tutti ed i compratori all’estero infrangendo il disciplinare del Brunello di Montalcino, il quale prevedeva, e per sorte prevede, l’uso di vinificare solo con sangiovese grosso in purezza; aggiungevano, a loro dire, vitigni “migliorativi”. I campioni dell’enologia creativa.

è il caso che ha svelato quanto certi enologi, con fare ruffiano e non poca arroganza, cercassero di rendere questi vini più confacenti al gusto degli americani. I mancati californiani.

Poi le dimissioni dovute ai vertici del consorzio del Brunello, i silenzi ingiustificati di taluni proprietari delle suddette cantine, le confessioni e i “mea culpa” elogiati dai soliti valletti che arrivano in ritardo.

Piuttosto dove avevano lasciato il naso gli esperti che redigono le guide e che scrissero, a proposito dei Brunello imputati, “sangiovese 100%”? Certo potrebbero addurre che con l’olfatto non si può certo analizzare il dna del vino risalendo al vitigno e di questo certo bisogna dargliene atto, ma come mai nelle edizioni successive delle stesse guide hanno accolto di nuovo e a braccia aperte queste cantine e con recensioni elogiative? Non di naso si tratta (quello alcuni ce l’hanno per raccontare frottole, in taluni casi) è la dignità che manca.

La dignità e il pudore di bandire quelle cantine che hanno defraudato se stesse e loro della competenza e dell’attendibilità nella degustazione, nonché dell’Italia della sua reputazione vitivinicola. Ma forse è di incompetenza voluta o comprata quella di cui parliamo, perché manca la serietà, la coerenza, l’onestà.

Mancano anche quando tocca al Cirò e al Chianti per le stesse ragioni del Brunello nel 2010 di essere “migliorati”.

Manca una coscienza rinnovata e pulita quando nessuno si incarica di fare una lista, o una guida se preferite, delle cantine che lavorano onestamente e che nel cui organico non figura nessun nominativo che abbia mai avuto a che fare con queste vergognose vicende.

Si parla tanto di “biologico”, “biodinamica”, territorio e preservazione dell’ambiente, ma nessuno si assume il dovere di fare un censimento di quelle cantine che tutt’oggi avvelenano l’ambiente immettendo i reflui vinicoli direttamente nella rete fognaria, o attraverso lo spandimento nei terreni agricoli, senza prima abbatterne i valori in termini di B.O.D. (biological oxygen demand) e C.O.D. (chemical oxygen demand).

Bisogna riflettere in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando ad una risoluzione drastica e definitiva, cercare di comprendere quanto la sovrapproduzione del vino ed il circolo vizioso che essa alimenta possa rappresentare una delle maggiori cause alla degenerazione del settore. E nel riconoscerlo la soluzione da attuare certo non è l’espianto dei vigneti, ormai parte integrante di un paesaggio che deve realmente essere valorizzato. Riconsiderare la pratica legale dello zuccheraggio, persino quella derivante da zucchero d’uva evaporato (che richiede maggiori solfitazioni), da mosto concentrato a fermentazione avviata (che aumenta non solo la gradazione alcolica ma anche l’acidità, falsando tutti i parametri delle vendemmie, del loro andamento) e da mosto concentrato rettificato, è fortemente necessario.

La pratica dell’addizione di zuccheri è diventata di routine quando dovrebbe essere consentita solo in caso di vendemmie particolarmente sfavorevoli e funestate da fattori meteorologici avversi; questo provoca l’impiego dei mosti concentrati per arricchire il mosto più dell’annata corrente, i quali, diventando legalmente vini, vengono letteralmente ammassati in attesa di essere venduti ai distillatori. E alle cantine in sovrapproduzione con questi vini arricchiti l’attesa rende: la comunità europea paga loro una quota giornaliera in funzione del grado alcolico e degli ettolitri prodotti, si chiama “magazzinaggio”. Ettolitri in eccedenza che si traducono in milioni di euro con cui la comunità europea sovvenziona, di anno in anno, le cantine.

Vietando lo zuccheraggio si ridurrebbe drasticamente la produzione dei vini da tavola, quelli maggiormente sofisticati, si risparmierebbero i soldi dell’U.E. e i costi di produzione del vino riducendone il costo finale. L’eno-pirateria deve essere perseguitata rivalutando e garantendo la qualità e intensificando i controlli anche sui vini da tavola, con l’informazione mirata all’educazione e al consumo del vino prodotto naturalmente e all’obbligo di trascrivere in etichetta quanto il consumatore è tenuto a sapere per tutelare la propria salute.

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