Cittadinanza
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Articolo di Francesca Fiore

In Italia, fino al 2011, sono nati 650 mila bimbi stranieri. Ma nessuno di loro avrà i diritti di cittadinanza.

Un milione di bambini in Italia, ufficialmente stranieri. Di questo milione, circa 650 mila hanno visto la luce nei nostri ospedali e nelle nostre cliniche. E’ prevedibile, che questi 650 mila bambini vadano anche nelle nostre scuole, frequentino le nostre squadre sportive e le palestre, giochino nei nostri parchi pubblici. Insomma, si presume che questi 650 mila bambini siano, di fatto, Italiani.
I dati ufficiali dell’Istat, aggiornati al 1° gennaio del 2011, parlavano di 77.104 bambini e tutto lascia prevedere che i queste cifre, alla fine dell’anno appena concluso, risulteranno aumentati con un incremento che, ormai da tempo, si attesta attorno all’1,5 – 2%.
E’ una questione spinosa e antica, questa della cittadinanza nel nostro paese. Recentemente è intervenuto il Presidente della Repubblica, la ministra Cancellieri e perfino Beppe Grillo. Anche il consiglio comunale di Milano è stato attraversato da fulmini e saette, al momento della discussione in aula di una proposta di estensione della cittadinanza.

La legge italiana. Le norme sulla cittadinanza risalgono al 1992, compiranno infatti vent’anni proprio questo mese. Evidentemente, le norme non tengono conto dei grandi cambiamenti che ci sono stati negli ultimi quindici anni non solo a livello di flussi migratori, ma anche a livello della composizione della società, sia socioculturale che economica. Era impensabile, all’inizio degli anni ’90, per la ‘gente comune’, che lo scenario interculturale si sarebbe così infittito. Meno impensabile era, sicuramente, per gli studiosi del mestiere. Ma, come sempre nel nostro paese, fra ricerca e legislazione c’è un abisso incolmabile, quando le due prospettive dovrebbero andare di pari passo o, quantomeno, a breve distanza l’una dall’altra.

Ius soli, ius sanguis. Ci sono due tradizioni giuridiche in merito alla cittadinanza: ius solis e ius sanguis. La prima è stata adottata storicamente da quei Paesi, interessati da una forte immigrazione e che possiedono da sempre un’ampia superficie territoriale come Canada, Stati Uniti, Brasile, Argentina. Questi stati, hanno avuto, in vari periodi storici, necessità di ‘aumentare’ la popolazione. Secondo questa prospettiva, chi nasce in una nazione ottiene automaticamente la cittadinanza di quello stato, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori.
L’altra prospettiva giuridica, lo ius sanguis, invece sostiene il diritto di cittadinanza basato sulla discendenza, ovvero sul fatto che uno dei due genitori è cittadino. E’ questo il tipo di diritto che ha sempre sostanziato le leggi italiane. La condizione giuridica dei bambini figli di immigrati nati in Italia è strettamente legata alla condizione dei genitori: se i padri ottengono la cittadinanza, dopo dieci anni di residenza legale, questa si trasmette anche ai figli. Acquisisce la cittadinanza italiana anche chi è nato in Italia da genitori ignoti o apolidi, il figlio di ignoti trovato nel territorio italiano di cui non è possibile provare il possesso di altra cittadinanza, lo straniero residente da tre anni o nato in Italia con ascendenti diretti italiani, lo straniero maggiorenne adottato da italiani e residente da cinque anni in Italia. Il fatto che in Italia, ottenere i documenti per la cittadinanza, significhi affrontare un’enorme mostro burocratico a due teste. La dice lunga su quante possibilità ci siano, pe ri bimbi che vanno nelle nostre scuole e per i loro genitori, di ottenere dei diritti.

L’Europa. Gli altri stati europei la vedono in modo diverso da noi: in Germania, ad esempio, se uno dei due genitori vive legalmente sul territorio da almeno 8 anni, può concedere al figlio il diritto alla cittadinanza al momento della nascita. In Portogallo è prevista la naturalizzazione alla nascita se o la madre o il padre hanno risieduto nel Paese dieci anni, solamente se provengono da un Paese di lingua portoghese. In Belgio, la cittadinanza è automatica a 18 anni, se si è nati nel Paese o, entro i dodici mesi, se i genitori sono residenti da dieci anni. In Irlanda bastano tre anni o un permesso di residenza permanente di uno dei due genitori. La Francia, in questo panorama, costituisce un’eccezione: qui vigeva lo ius soli dal 1515 ma, negli anni, stato progressivamente ammorbidito: ora la legge prevede che, per i bambini nati da genitori immigrati, si possa richiedere la cittadinanza entro il compimento del tredicesimo anno. A sedici anni, invece, può chiederla il ragazzo stesso.

I tentativi di riforma. I tentativi di adeguarsi ai dettami europei sono stati molti, nessuno dei quali è andato in porto. Qualche anno fa Ignazio Marino, senatore del Pd presentò un disegno di legge firmato da 114 senatori, un terzo dell’aula del Senato. Lo firmò anche la capogruppo Anna Finocchiaro. Prevedeva la cittadinanza ad ogni nato sul territorio italiano, indipendentemente da quella dei genitori. Poi, anche i deputati Andrea Sarubbi del Pd e Fabio Granata, che oggi milita tra le fila di Futuro e Libertà, avanzarono una proposta di legge che avrebbe potuto riscuotere i consensi dei due schieramenti principali. Tutto venne però fermato all’inizio del 2010 dalla Lega, ma anche dal timore che sarebbe costato troppo al PdL mettere sul tavolo i temi dell’immigrazione, in vista delle regionali. La proposta di Granata e Sarrubi diceva, in sostanza, che la cittadinanza per nascita si sarebbe potuta ottenere essendo maggiorenni, trovandosi in Italia da almeno cinque anni, dopo aver superato un test di “integrazione civica e linguistica” e in seguito ad un giuramento solenne sulla Costituzione italiana. Si sarebbe potuto poi diventare italiani essendo nati da genitori, che si trovavano nel nostro Paese da almeno cinque anni, oppure che avendo concluso il primo ciclo di studi.

Il futuro. Il punto non è certo allargare ‘a cascata’ diritti a tutte quelle persone che vengono, per un anno o due, magari solo di passaggio, in Italia. Questa è la richiesta di parti politiche che ragionano in base ai richiami del populismo e, i tentativi fatti in passato, di dare la cittadinanza a tutti i nati nel territorio italiano sono miseramente falliti. E’ normale: così molte persone verrebbero in Italia per far nascere i propri figli, salvo poi emigrare in un altro stato o tornare al paese d’origine. E non è certo la ‘priorità’, in un momento di crisi come questo, come sottolinea Beppe Grillo. Il punto è: quale paese vogliamo costruire nei prossimi trent’anni? Se dovessimo fare un’analisi del Pil attuale del nostro paese, scopriremmo che sono stati gli immigrati, regolari e non, a costruire quel minimo di sviluppo che ancora riusciamo a sostenere. Se dovessimo analizzare la quantità di anziani italiani, scopriremmo che sono donne rumene, filippine, africane, indiane a curarli. Se dovessimo fare un viaggio nelle scuole italiane, scopriremmo che una gran parte dei bambini ha gli occhi a mandorla, o la pelle ambrata, ma parla solo ed esclusivamente italiano. E’ cieco chi non si rende conto che questa è l’Italia del futuro, quella che può salvare dal disastro economico e dal conflitto sociale. Anzi, questa è l’Italia del presente, un Italia che lavora e cresce figli, ma che è anche abbandonata, priva di qualsiasi riconoscimento, diritto o protezione, sola e invisibile.

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