Allegoria del temperamento flemmatico
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Negli ultimi anni sempre più ricerche scientifiche hanno riguardato la genetica, portando l’uomo ad una maggiore conoscenza del DNA, la cosiddetta “doppia elica” in cui sono contenuti i geni. I geni sono le nostre “istruzioni”, e ogni cellula contiene tutte le informazioni che ci definiscono minuziosamente: colore degli occhi, dei capelli, corporatura, statura ecc. Ma il DNA può fornire informazioni relative anche alla nostra personalità?

Erano gli albori dello studio della genetica quando Mendel scoprì le prime leggi della stessa. Incrociando vari tipi di piselli scoprì il concetto di dominanza di alcune caratteristiche su altre. Estendendo le ricerche anche al mondo animale, e quindi anche all’uomo, possiamo oggi conoscere nel dettaglio molti dei geni deputati a determinate funzioni.
Forse, se davvero tutti i nostri tratti sono già decisi e stabiliti in base ai nostri geni, potrebbe venire la sensazione di essere completamente assoggettati a delle regole già scritte. Fortunatamente in casi come quello della personalità, nonostante i titoli altisonanti di alcuni giornali che annunciano come la ricerca scientifica sia riuscita a scoprire il “gene dell’aggressività” o quello dell’empatia, le cose non sono così semplici e, quindi, non tutto è predeterminato. Al massimo si potrebbe parlare di un coinvolgimento di alcuni geni che insieme manifestano una certa caratteristica (come appunto l’aggressività).
Sociobiologi e sociologi hanno sempre tentato, prima attraverso l’antropometria, ora con i geni, di spiegare la presenza di caratteri sostanziali in ogni genere di persona, geni che andrebbero a determinare profondamente le scelte sociali, psicologiche, caratteriali di un uomo. Questa è un’ideologia ottocentesca che trova spazio tra le righe degli scrittori dell’epoca ma è accolta ancora oggi in alcuni laboratori scientifici. Secondo tale costrutto il DNA porterebbe l’uomo ad essere slegato dalla società.

Sarebbe più corretto sostenere, invece, che la personalità, ossia quell’insieme di caratteristiche psicologiche e modalità di comportamento che distingue un individuo da un altro, è profondamente influenzata sicuramente dal DNA, ma anche dal mondo che ci circonda e dalle esperienze vissute.
Il DNA, da solo, non può quindi determinare totalmente un individuo; l’organismo ha un rapporto unito con l’ambiente e sarebbe inesatto assolutizzare un fattore determinante come se fosse l’unico. Edoardo Boncinelli, direttore del laboratorio di biologia molecolare del CNR, scrive riguardo al cervello, nel saggio “Genoma: il grande libro dell’uomo”: “I dettagli della sua struttura e il suo modo di funzionare sono il prodotto delle istruzioni biologiche contenute nel patrimonio genetico, ma anche degli eventi della vita dell’individuo che lo possiede. Il cervello umano impiega anni per completare il proprio sviluppo e si modella anche sulla base delle nostre esperienze. Se due individui geneticamente identici fossero esposti alle stesse esperienze di vita, è assai probabile che non avrebbero esattamente lo stesso cervello.” Lo scienziato spiega anche come non deve esserci unidirezionalità nello studio biologico portando una critica alla psicoanalisi che in un certo senso circoscrive la formazione della personalità ai primi momenti della vita d’un individuo: “La gente si mostra rassegnata e quasi soddisfatta di sentirsi dire che la sua personalità e il suo agire manifesto e profondo sono stati condizionati dagli eventi delle prime fasi della vita familiare infantile e tuttora dominanti da figure mitologiche quali l’Es, l’Io, il Super-Io, l’Edipo, gli Archetipi e via discorrendo.
Si può quindi definire la “personalità” come l’insieme di caratteristiche psichiche e modalità di comportamento che, nella loro integrazione, costituiscono il nucleo irriducibile di un individuo che rimane tale nella molteplicità e diversità delle situazioni ambientali in cui si esprime e si trova ad operare.

La personalità è in genere abbastanza variabile fino al 30°anno di vita, mentre in seguito tende a stabilizzarsi. Fin dal V secolo a.C. grazie agli studi del periodo Ippocrate sostenne la “teoria umorale”, secondo la quale il nostro corpo sarebbe governato da quattro umori diversi (sangue, bile gialla, bile nera, flegma), che combinandosi in differenti maniere condurrebbero alla salute-equilibrio o, contrariamente, al disagio-malattia. I quattro caratteri che si distinguevano erano:

Il Collerico (Permaloso, Furbo, Generoso)
Il Malinconico (Triste, Debole, Avaro)
Il Flemmatico (Calmo,Ozioso,Talentuoso)
Il Sanguigno (Allegro, goloso, Giocherellone).

Nei secoli successivi la classificazione dei caratteri umani rimase sempre al centro di dibattiti e ricerche ma solo nel secolo scorso Carl Jung, psichiatra svizzero, nella sua opera “I tipi psicologici”evidenzia due tipi di comportamento, quello estroverso e quello introverso. Questi due macro gruppi si differenziano nell’orientamento che danno alle loro energie, verso l’esterno o verso il proprio mondo interiore.

Ma sono entrambi composti da quattro caratteristiche che possono sovrastare le altre e generare ulteriori differenze. Tali funzioni psichiche sono il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione che darebbero vita ad individualità razionali, sentimentali, sensibili e intuitive. Queste funzioni non sono però rigide ed esclusive, le posseggono tutti e possono emergere più o meno occasionalmente in base al contesto ed alle situazioni.
Gli studi più recenti hanno evidenziato cinque dimensioni della personalità, l’apertura mentale, l’estroversione, la socievolezza, la coscienziosità e la stabilità emotiva. Secondo la psicologia positiva tali dimensioni favoriscono e facilitano lo sviluppo di personalità più adeguate ad affrontare e risolvere le difficoltà che la vita ci sottopone e le problematiche sociali emergenti a cui dare risposta.

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