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La città di Marano di Napoli è molto popolosa, è ubicato in parte sulla bellissima collina dei Camaldoli e rientra nel comprensorio dell’agro giuglianese, corrispondente all’area storico-geografica dei Campi Leborini o Liburia, la parte più fertile della Campania felix. Il territorio, relativamente giovane, si è formato durante l’ultimo periodo geologico dell’area flegrea, è pressoché pianeggiante ed è situato ad un’altitudine che generalmente non supera i 150 metri sul livello del mare, baciato dal clima mediterraneo.

Il territorio maranese ha visto le prime tracce antropologiche in età neolitica e a testimonianza di ciò sono stati ritrovati insediamenti databili all’incirca 8.000 anni fa lungo l’asse Marano-San Rocco. Si notato tutt’oggi, nella zona di Masseria Spinosa, Vallesana e Monteleone, tre strade ancora percorribili verso Cupa dei Cani, Pendine e Cupa Orlando, testimonianze del periodo Osco-Sannita. Naturalmente la città campana vedrà la sua epoca aurea durante il periodo romano, diventando crocevia di attività economiche e religiose in quanto vicinissima alla via Consularis Campana che collegava Pozzuoli, importantissimo porto commerciale in età imperiale, a Capua, frequentatissima anche grazie alle lotte tra gladiatori, a sua volta collegata con la capitale per mezzo della via Appia. Nel corso dei secoli la città di Marano ne ha conosciuto di vicissitudini ma tornerà in auge durante il Regno delle Due Sicilie anche grazie al potenziamento di nuovi assi viari e, per quanto il suo nome sia di origini incerte, associabile alla parola tardo latina Marianum, quel che è certo è che oggi viene considerata una delle terre elette per la produzione della mozzarella di bufala campana, nonché per la coltivazione della famosa mela annurca e del fagiolo tondino di Villaricca.

Naturalmente la vocazione per la viticultura è antichissima e memore di ciò Giacomo Di Iorio deciderà di fondare in quest’area Vini Musella nel 1986, azienda che dedicherà da subito alla moglie, prendendone il nome. Le cantine di Adele Musella operano da oltre trent’anni col contributo tra la vecchia e nuova generazione, disposta a mantenere le linee guida per la produzione di vini di qualità, innovativi e tradizionali, il cui scopo è soddisfare ogni palato.

Il Ma Cré, letteralmente che cos’è in lingua napoletana, è un vino prodotto da uve d varia tipologia raccolte manualmente durante la prima decade di ottobre, esposte a Sud Est ed allevate a spalliera su suoli di origine vulcanica; la vinificazione avviene completamente in acciaio, con una rapida sfecciatura durante la macerazione e fermentando per un periodo di non oltre 20 giorni.

Una bella costruzione enologica, ammaliante e disorientante per certi versi, tanto che mai nome fu tanto indovinato per un vino: infatti quando lo si assaggia si pensa a tutto fuorché alla Campania ed ai suoi grandi vitigni autoctoni. Il Ma Cré bianco Igt Campania 2018 indossa dopo tre anni dalla vendemmia una veste dal colore giallo dorato tenue e si presenta di media consistenza. C’è un bel giuoco coi lieviti tanto che a livello olfattivo c’è di tutto un po’: guanábana e pera, mela golden e mora acerba, fragole di bosco con la loro nota vanigliata, passion fruit e persino un tocco di pis de chat che catapulta nel multiverso del sauvignon blanc di una regione vinicola qualsiasi del pianeta che non sia la Campania ovviamente. Equilibrio tra sapidità e acidità al palato, si presenta in gusto olfattiva con tutta la sua frutta, frutta a nastro come direbbe il Gardini jr., riconfermando pure la vaniglia. Ottimo adesso e con una buona persistenza aromatica intensa ma verso la curva discendente. Fortemente in dubbio se abbinarlo ad un piatto di granseola alla triestina oppure alle costolette di agnello al kiwi neozelandese.

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