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Procida, con la sua onorevole nomina a capitale della cultura italiana 2022, è un caso più unico che raro in quanto costituisce un esempio di come un piccolo territorio possa essere, oltre ad ambasciatore della sua stessa cultura isolana, anche un tipico esempio di cultura partenopea ed inequivocabile espressione di cultura mediterranea allo stesso tempo.

Ciò costituisce certo un motivo di vanto per tutta l’Italia in quanto l’isola di Procida è senza dubbio alcuno anche espressione irrinunciabile di italianità, ma inorgoglisce ancor più il Popolo della Campania per appartenenza territoriale, per lo slang pressoché comune, per le consuetudini alimentari, per la stessa matrice culturale ed altre forme di affinità che fortunatamente avvicinano le altre isole e la terraferma di questa regione a Procida come mai era accaduto prima.

È un’opportunità per Procida, è un’opportunità per la Campania ed è un’opportunità per tutto il Mezzogiorno, ma come tutte le opportunità c’è un peso da portare che non può e non deve ricadere soltanto sui procidani e gli organizzatori: sotto l’ideale lente di ingrandimento che vede l’isola partenopea sotto l’osservazione del pubblico nazionale ed internazionale c’è tutta la regione!

Non a caso, questo è quanto sostiene Gaetano Cataldo, fondatore dell’associazione Identità Mediterranea e, col sostegno di tutte le parti in causa, alla direzione del progetto:

“Mosaico per Procida non ha a che vedere col mestiere del vino, non soltanto. Mosaico per Procida è la capacità di avere una visione concreta quando non si profila nulla all’orizzonte che la faccia presagire, è la capacità di sognare e di stare assieme per un ideale ed una causa precisa. Oggi la nostra causa, il nostro ideale e il nostro affetto devono andare verso Procida, per il miglior esito possibile di quest’anno che ci mette tutti sul banco di prova. Responsabilità ed amore per tutto il territorio, intelligenza imprenditoriale collettiva, ecco perché Mosaico per Procida sta dispiegando le vele e si tramuta nella metafora di un vascello: vuole veicolare seco tutto il meglio della creatività, dell’operosità e della piacevolezza della Campania e dimostrare che in questa terra la voglia di fare e di fare bene ci sta a iosa”.

Dopo aver svelato ai lettori di Mediterranea Online le tessere irpine e le tessere sannite è arrivato il momento delle Cantine del Mosaico nell’areale casertano.

A partire dal 79 d.C. Plinio il Vecchio ribattezzò l’odierna area nota col nome di Terra di Lavoro con Campania Felix, per distinguerla dagli altri aree di questa florida regione al tempo degli Antichi Romani, tanto era fertile e ricca di varietà agronomiche. La provincia di Caserta contiene anche l’Ager Falernus, coincidente con le aree collinari del Monte Massico e da cui ha origine l’antichissimo vino Falerno, il più famoso e decantato della latinità. È lo stesso Silio Italico, scrittore di Punica, il più grande poema sulle guerre puniche, a narrare la leggenda: stanco e affamato dai suoi viaggi Dioniso si ritrova a bussare alla porta di un contadino di nome Falerno che, ignaro della divinità, mette il viandante a proprio agio, circuendolo di genuina ospitalità e di attenzioni, offrendo il meglio che aveva in casa. Commosso dalla bontà del vecchio il dio, una volta rivelato al suo ospite, trasforma dapprima il latte offertogli in vino e, successivamente, i pendii del Massico in un grande e rigoglioso vigneto.

Il nome odierno deriva da Casa Irta e venne assegnato a quella che oggi è la frazione di Casertavecchia, un tempo corrispondente al centro cittadino, ma le sue origini sono di gran lunga anteriori e fatte risalire agli Osci ed ai Sanniti: era infatti nota col nome Calatia nel 433 a.C. Caserta è stata terra fiera nell’antichità per essersi schierata in favore di Annibale ed ha continuato ad esserlo: è tra le poche città ad essere state insignite della medaglia al valor militare per la guerra di liberazione. Basta citare l’imponente bellezza della Reggia Borbonica, di San Leucio col suo Belvedere Reale e l’Acquedotto Carolingio, esempi superbi di arte e cultura, ed è subito patrimonio dell’umanità, nel loro insieme riconosciuto tra l’altro dall’Unesco nel 1997.

Cantina Alois

Per quanto attraversi oltre un secolo, la direttrice tra il 1885 ed il 1992 è un’ortodromia che unisce la Via della Seta alla Via del Vino: nel mezzo la storia della famiglia Alois. L’azienda nasce ai tempi di Ferdinando IV di Borbone quale opificio di tessuti di pregio, per poi diventare industria tessile di estrema rinomanza, tanto da vedersi commissionare creazioni in prezioso tessuto dal Quirinale al Louvre fino alla Casa Bianca. La congiuntura tra seta e vino avviene appunto agli inizi degli anni ’90 quando Michele Alois decide di impiantare ben nove vigneti autoctoni e gettare le fondamenta della cantina. A lui si deve il merito di aver recuperato l’antico vitigno autoctono Casavecchia. Situata a Pontelatone l’azienda gestisce i vigneti di proprietà in tre diversi appezzamenti: in località Audelino, Morrone della Monica e Cesone, con terreni da diverse caratteristiche e vocazionalità, ma tutti circondati da colline prossime al vulcano di Roccamonfina e dal Massiccio del Matese. Suddivise in due segmenti produttivi troviamo dieci referenze a valorizzare, tra l’altro, anche il Pallagrello Nero e il Pallagrello Bianco con vini caratterizzanti, vigorosi ed espressivi.

Link Consigliati: www.vinialois.it

I Borboni

Quando si fa riferimento alla cantina I Borboni la prima cosa a cui si pensa è a ciò cui essa è sinonimo da secoli: l’Asprinio di Aversa. La città di Aversa venne fondata nel 1030 dai Normanni, è posta al centro di un pianoro molto fertile noto col nome di Agro Aversano, appartenente a quell’antichissimo distretto rurale chiamato Terra di Lavoro. Quest’area, un tempo uno dei maggiori centri italiani per la produzione di canapa, è famosa per la mozzarella di bufala, per la polacca, un dolce di pasta lievitata, ed appunto il nobile vitigno di cui la famiglia Numeroso, proprietaria della cantina I Borboni, si prende cura dalla seconda metà del ‘700, vantando già all’epoca 20 ettari di vigneti con la leggendaria forma di allevamento conosciuta come “vite maritata al pioppo”. Dediti al tempo a rivendere le uve da loro curate, i Numeroso conferivano qualcosa come 100 tonnellate annue di Asprinio, utile come base sia per spumante che aceto o brandy e, addirittura, con commesse che arrivavano persino dalla regione francese dello Champagne. Dalla fine degli anni ’70 si dedicano alle prime sperimentazioni sulla spumantizzazione dell’Asprinio, e nel 1982 si registrano col marchio che conosciamo oggi, proponendo bollicine rari ed ineguagliabili e vini di territorio.

Link Consigliati: www.iborboni.it

Porto di Mola

Le terre di Galluccio sono abitate sin dal Paleolitico, la cui cultura nasce grazie all’impronta indelebile data dagli Aurunci, popolazione osca di origine indoeuropea, e successivamente dai Romani. Etimologicamente il nome dell’attuale borgo pare derivi dal nome di Trebonio Gallo ed il comune di Galluccio, di poco più di 2000 anime, si estende tra le falde di monte Camino ed il gruppo vulcanico di Roccamonfina, rientrando nel territorio della Comunità montana Monte Santa Croce. La tenuta di Porto di Mola conta 60 ettari di vigneto e 2000 metri quadrati di cantina, sorge su suoli vulcanici in un’area incontaminata nei pressi di un antico porto commerciale sul fiume Garigliano di epoca romana, rinvenuto in uno scavo archeologico del 1992, presso cui v’erano opifici per la fabbricazione di anfore vinarie: da ciò quello che ha ispirato il nome dell’azienda il cui progetto iniziale vien fatto risalire al 1988 ad opera di Peppì Esposito. La fondazione e la strutturazione della cantina, così come la conosciamo oggi, è opera di Antimo Esposito che con sua figlia Annachiara porta avanti il sogno del padre. Vocata alla promozione del terroir di riferimento anche grazie ad un’offerta incentrata su tasting ed hospitality, Porto di Mola produce vini con diverse tipologie di uva, concentrandosi su cultivar tipiche della vicinissima Rocca D’Evandro, la Falanghina e l’Aglianico. L’ampia e qualitativa gamma di vini è affidata alla conduzione enologica di Arturo Erbaggio.

Link Consigliati: www.portodimola.it

Terre del Principe

Il sogno realizzato nel 2003 con la fondazione di Terre del Principe non è un sogno imprenditoriale ma bensì un sogno d’amore, quello di Peppe Mancini e Manuela Piancastelli. I ricordi di bambino, tra giri in calesse col nonno presso i poderi familiari e le conversazioni tra contadini sui vitigni autoctoni, hanno portato Peppe Mancini ad abbandonare la professione di avvocato ed inseguire l’amore per la vigna, amore condiviso con la sua sposa: Manuela Piancastelli, dopo una splendida carriera da giornalista, abbandona il suo ruolo e convola ancora una volta a nozze con suo marito, seguendolo in tutto e per tutto, per scrivere assieme a lui un’importante pagina della vitivinicultura in Campania. Nell’area di Castel Campagnano, grazie alla vicinanza del vulcano di Roccamonfina e col Vesuvio a circa 30 km, i suoli sono di origine miocenica, le cosiddette arenarie di Caiazzo, accolgono i vitigni di Pallagrello Bianco, Pallagrello Nero e Casavecchia ove un tempo v’era un mare dalle acque calde e poco profonde e sono costituite da pietrisco, marne, tufo grigio, fossili e materiale piroclastico. Se il recupero di queste cultivar si è potuto verificare in questo territorio è dovuto proprio a questa appassionatissima coppia. Con iniziative legate alla musica, all’arte e alla letteratura Terre del Principe dimostra costantemente la sua vocazione di cantina dotta e capace di offrire percorsi sensoriali complessi e di grande interiorità che vanno ben oltre l’assaggio.

Link consigliati: www.terredelprincipe.com

Villa Matilde Avallone

Fondata agli inizi degli anni ’60, Villa Matilde Avallone deve i suoi natali alla passione dell’avvocato Francesco Paolo Avallone, grandissimo culture di vini antichi, il quale si decise in quegli anni a restituire lustro al leggendario vino Falerno, le cui uve sono andate purtroppo perdute a causa della fillossera. Così, consultando i testi di letteratura latina di autori quali Plinio il Vecchio, Marziale, Orazio e Virgilio e grazie all’aiuto di amici, tra cui alcuni docenti della Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli, avviò un interessante progetto di recupero. Capitanata oggi dai suoi figli Maria Ida e Salvatore, l’azienda Villa Matilde Avallone oggi affonda le proprie radici tanto nell’Ager Falernus con la storica attività che in Irpinia con le Tenute di Pietrafusa, inaugurata nel 2004. Con un progetto finalizzato all’azzeramento delle emissioni di Co2 avviato nel 2009 e una revisione degli impianti mirata al massimo risparmio energetico ed al recupero delle risorse idriche, Villa Matilde Avallone guarda costantemente alla cultura del territorio, al rispetto delle tradizioni e all’eco-sostenibilità, producendo vini d’alto profilo qualitativo ed edonistico. La Locanda Falerno a Cellole è un must per tutti gli enonauti che vogliano restare in visita sul territorio per più giorni ed assaggiare, oltre ai vini, specialità tipiche locali.

Link consigliati: www.villamatilde.it

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