Medea - Delacroix
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Articolo di Giuliana Abate

La vendetta nella medea di Euripide
Se una sola uccisione potesse saziare questa mano,
non ne avrei perpetrata nessuna.
Anche uccidendone due
è un numero troppo piccolo per il mio odio.
Se qualche creatura si nasconde ancora nel mio grembo,
mi frugherò le viscere con la spada
e la estrarrò col ferro.

Medea

La vendetta è una dinamica del comportamento sociale e come tale è presente fin dalle culture arcaiche. Ad Atene, la vendetta personale quale necessità di riparare l’equilibrio infranto da una colpa originaria, era considerata un dovere sociale. Fu, nel 620 a.C. che Dracone vietò ai suoi concittadini di vendicare da sé i torti subiti. Questa esigenza infatti produceva sia un eccesso di distruttività sia profondi sensi di colpa per l’aggressività liberata. Nessuna arte ha portato in scena questa dicotomia con la stessa vividezza e lo stesso realismo del teatro greco.

Molti drammi dell’antica Grecia, a partire dalla vendetta di Achille ed Ettore per la morte di Patroclo a quella di Oreste verso Clitennestra, basano la loro storia sulla necessità di mettere in atto e portare a termine una vendetta.
Su tutte le altre protagoniste della drammaturgia greca si erge incancellabile la statura tragica della Medea di Euripide; la tragedia più atroce di una donna, controversa e tormentata, che per vendicare l’ingiustizia subìta dall’uomo che l’ha ripudiata compie l’atto più innaturale e imperdonabile di tutti, l’infanticidio.

Viveva in una terra favolosamente ricca: la Colchide, situata alla “periferia misteriosa del mondo eroico” corrispondente all’attuale Georgia e ad una parte della Turchia. Proprio lì, in un boschetto sacro al dio della guerra Ares, suo padre, il re Eete, teneva appeso il Vello d’oro, trofeo custodito da un drago e fortemente ambito da Giasone e dagli Argonauti, i quali giunsero nel suo regno per impadronirsene. Medea aiuta Giasone perché s’innamora di lui, a causa di un incantesimo che la stessa Afrodite insegna all’eroe, e con le arti magiche ereditate da sua madre, la maga Circe, riesce ad addormentare il drago e a sottrarre il vello. Il giovane porta con sé Medea come sposa. Ma ancor prima dell’infanticidio, Medea non è un’innocente: per aiutare Giasone, ha tradito il suo popolo e suo padre, rubando il vello per donarlo a uno straniero; per agevolare la fuga degli Argonauti, ella fa a pezzi suo fratello, disperdendone i brandelli dietro di sé uno alla volta in modo che il padre debba raccoglierli e ricomporre le sembianze del figlio, rallentandone la marcia. Intanto una volta a Iolco, Pelia ha ucciso i genitori di Giasone il quale arrivato in città con il vello d’oro, scopre l’omicidio e medita vendetta. A questo pensa ancora Medea, che convince le figlie di Pelia a bollire il padre in un calderone di acqua bollente.

Giasone, consumata la sua vendetta, lascia sul trono di Iolco il cugino Acasto. Dopo alcune peripezie egli giunge con Medea nella città di Corinto. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest’ultimo la possibilità di successione al trono. Creonte però pretende che Medea e i suoi due figli siano esiliati. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea.

A questo punto sono gli occhi della fedele nutrice che ci suggeriscono che Medea, pur dimostrandosi ragionevole e conciliante, sta ordendo una trama terribile; lo stesso sospetta il coro, composto dalle donne di Corinto che mostra, tuttavia, di comprendere la disperazione della moglie tradita. Chiara è la condanna di Euripide alla condizione femminile nel mondo greco: Medea rappresenta la razza più sventurata, perché non è padrona di sé e deve essere sempre sottomessa a qualcuno, padre o marito. Ma mentre le donne di Corinto possono consolarsi con l’affetto dei familiari, Medea è sola e senza patria e anche lo sposo che lei aveva aiutato con la sua sapienza e la sua magia, ora sembra avere orrore delle sue qualità.

La tragedia, a questo punto, suscita l’identificazione e la solidarietà verso una protagonista che, prima di passare dalla parte del Male, ascrive la propria situazione all’iniquità della condizione femminile. Ella ha una personalità forte. Diversa dalle eroine della tragedia greca classica, per la discendenza barbara e per la mancanza di un candore innocente, ella rifiuta di accettare il ruolo della vittima. Medea, in preda al furore, manda a Glauce, come dono di nozze, uno splendido diadema e un peplo finissimo, intriso dei più mortali veleni. Non appena la ragazza si adorna con il vestito di nozze, il veleno penetra nel sangue e muore tra grida strazianti. Viene avvelenato anche Creonte, che tenta invano di salvare la figlia.
Ma la vendetta di Medea non si è ancora conclusa: facendo violenza al proprio istinto materno la donna, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, lacerata dall’odio uccide i figli avuti con lui e ne divora le carni.

Prende forma quindi l’agghiacciante proposito con cui Medea rinnega e rimuove fino all’estremo la sua condizione di madre. Più tardi, a delitto compiuto, confermerà questa sua negazione della maternità, spingendosi a dichiarare che, se scoprisse di essere incinta, ne cancellerebbe la traccia finanche all’interno delle sue stesse viscere.
La principessa, spogliata di ogni abilità magica, diviene la donna vittima di Afrodite, accesa da un amore che non riesce a dominare e che la trascinerà in una spirale discendente, dall’abbandono della casa paterna sino al tragico epilogo.
Per quanto ripugnante, l’infanticidio è divenuto elemento fondamentale della figura di Medea, espressione della sua follia d’amore che si trasforma in odio terribile, fino a indurla al gesto estremo di vendetta. Ciò che esalta lo spessore tragico del personaggio è il contrasto fra la passione che la governa e la lucidità con cui decide ed attua tutte le fasi della propria vendetta. Medea ama i suoi figli ma oltrepassa l’umano senso della maternità pur di porre riparo al torto subito e, nonostante testimoni ripetutamente la profondità di questo amore, l’efficacia del piano di vendetta contro Giasone si traduce nel suo efferato delitto.

In esso, seppur perduto ormai inesorabilmente il senso di una più antica tradizione che lo legava a riti sacrificali di palingenesi e di conquista dell’immortalità, riecheggia il rimando a una catarsi poichè la donna abbandonata dal marito, attraverso l’uccisione del figlio, intende spezzare in quest’ultimo quell’attaccamento all’amato che non riesce ad attuare lei stessa. Il figlio rappresenta in questa ottica la propria componente infantile, fragile e vulnerabile, che si desidera strappare all’amante che ha abbandonato e che ha tradito.

La vicenda di Medea è inscritta in un cerchio: inizia e finisce con un delitto contro il proprio sangue. Ma Medea pur di conservare la determinazione ad agire, mette a tacere la sua coscienza che continua a raffiorare, insieme all’amore per i propri figli. E’ questo conflitto sull’abisso della sua coscienza il più potente elemento tragico.

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