Ragazzo allo specchio appannato
Share

Il corpo è nudo. Lo specchio è così appannato che non si distingue nulla, solo colori che si confondono l’uno con l’altro. Sono appena uscito dalla doccia e mi osservo, nella mia totale assenza di nitidezza. Mi ritrovo e mi penso in questo mutare veloce delle forme, in questo prendere dettaglio a macchie, nel riappannarsi e farsi umido, penetrante, a tratti doloroso. Da qualche parte ho letto che lo specchio si dovrebbe mettere un problema di riflessione prima di riflettere l’immagine che incontra. Chiunque l’abbia detta è un grande che sa il fatto suo, o forse ha avuto una botta di culo, che ne so, in ogni caso ha colto una grande verità. Ecco come dovrebbe essere, dovrebbe fare sempre così. Ti metti di fronte allo specchio e quello ci pensa un attimo, sta tutto appannato e ti lascia il tempo di decidere, se stare lì fermo ad aspettare di vedere i dettagli oppure andare via. Dovrebbe fare così, ne sono sicuro, ci dovrebbe pensare su, non darti la risposta secca e sicura ad ogni tua richiesta. Ci devi pensare, devi prendere consapevolezza di ciò che chiedi.

Sono uscito dalla doccia. E sono nudo, indosso solo gli slip. Mi osservo e non distinguo i dettagli. È giusto così, deve essere così, porca miseria ho diciassette anni e tutta una personalità da definire. Non è facile, no non lo è. Alla mia età è un casino, ci vuole coraggio e superficialità da idioti a dire che è la fase dell’adolescenza che scorre verso il trapasso dell’adulto. Io sono un magma, sono energia a profusione, posso fluire in ogni direzione, disperdermi in mille e più ramificazioni di futuro, disintegrarmi e non trovarmi. Ho bisogno di un modello credibile, necessito di riferimenti che mi dicano quale via devo prendere, per non perdermi, per trovare il me stesso che sarò. È difficile ti dico, questa è la fase più delicata che ci sia, non è come prima o come dopo e io devo sapere, non pretendo i dettagli, non sono così idiota, ma devo sapere dentro di me cosa voglio e chi sono, ho una identità da riconoscere in questo specchio, mi devo riflettere e non avere dubbi.

Un ragazzo ribelle
Un modello virtuale di ragazzo ribelle

Ti odio madre. Tu, con la tua ansia, con la tua protezione asfissiante, con il tuo perdonarmi ogni gesto e ogni cosa. Ti odio dal profondo che mi eviti ogni responsabilità e mi coccoli, che mi neghi il piacere delle gioia, che mi droghi di ogni benessere superfluo e io non capisco, non so distinguere ciò che veramente desidero e ciò che è un capriccio. Mi vergogno di te madre, che hai ridicolizzato l’insegnante che mi ha umiliato in classe. Stronza. Sei una stronza, madre. Aveva ragione lei, l’insegnante. Io non ho studiato niente, non sapevo niente. Mi meritavo zero e zitto e muto. E sto al gioco, ti dico che mi tratta male, che mi discrimina, ma tu, cazzo, madre, tu devi saperlo che sto giocando in difesa e che ho detto una balla colossale, non puoi non saperlo e non capirlo. Mi devi fare a pezzi, altro che difendermi. Lo devi capire da te che invece di studiare me ne sono andato a zonzo per le strade, come un ebete sconvolto, ad osservare il niente, cibato d’inquietudine e sogni distorti, energia inespressa, che non so che strada prendere. Mi è antipatica l’insegnante, ma ha ragione lei, deficiente di una madre, ti odio che non sai darmi l’educazione necessaria a capire il sacrificio, a costruire un cammino. Mi vergogno del tuo discorso da demente che tanto mi serve solo un pezzo di carta e che nella vita non esiste il merito ed il sudore, ma solo la furbizia. Fai schifo nel tuo controllarmi e perdonarmi ogni cazzata. Ho bevuto troppo sabato sera, ho solo diciassette anni e ho vomitato bile per tre giorni. Bisogna scolarsela una bottiglia di rum e poi mezza bottiglia di vodka. Non so come ho fatto a non finire in coma etilico, mi pare un miracolo. Tu che fai? Mi perdoni? Ma sei demente? Come faccio a capire io? Non sei un modello, non sei un riferimento. Ti basta mandarmi un sms per placare la tua ansia e pacificare il tuo senso di colpa perenne, la tua assenza e il vuoto che sei. Alle quattro di mattina ho il cellulare con le parole già impostate. Mi basta fare invia e tu sei contenta. Un bravo figlio, un bel bambino, racconti in giro la favola più triste e falsa, spacci un manichino ben vestito e privo di ogni carattere. Ti fai bella in società e non ci sei. E io? Io dove sto? Che madre sei? Mi stai aiutando a capire chi sono e dove devo andare? Quante volte mi hai punito, quante volte mi hai fatto capire il dolore dell’errore?

Padre ti disprezzo. Dovresti essere il mio dio, il mio modello assoluto, come esempio o come contrasto dovresti essere il demonio da contraddire e combattere. Il tuo orgoglio, il tuo ometto che si sta facendo grande, così sveglio e intelligente. Demente, sei un demente. Non farò la tua fine, invischiato nella vita assente e alla perenne conquista del benessere di consumo. Ogni giorno un oggetto per riempire un piccolo vuoto di un vuoto gigante, infinito. Dovresti essere l’ultimo baluardo, quello che quando interviene cade la montagna addosso, che mi dipinge il terrore nel volto, dovresti essere un pensiero e una morale, dovresti essere il vissuto intenso che di disegna nella pelle, che colora il suono delle tue parole e le rende gravi e pregne di senso. Racconti feste inutili, contratti vinti con le bustarelle, scopate senza gusto, sei uno spot luccicante senza vita. Quanto ti disprezzo.

Voglio il dolore, quello vero, autentico, che brucia e fa uscire le lacrime salate. Voglio sentire l’esperienza dell’errore e voglio ferirmi delle conseguenze. Come posso capire altrimenti. Voglio non essere protetto in modo tanto asfissiante e non voglio essere assolto, salvato ogni volta. Non riesco a capire i nuovi guru della società che vivo, dove un comportamento superficiale e da sfigato mi viene spacciato come un allegro talento di vivere al meglio. Ma come cazzo di fa ad esaltare un comportamento da demente come un azione da genio? Non li capisco i modelli che mi spacciate oggi, non ci riesco proprio. Sarò io, sarò strano, sarò difficile, pretenderò troppo ma io voglio pretendere, non accetto più le soluzioni facili, non mi assimilo a voi, mi rifiuto di somigliare a voi. Ve lo scordate che mi faccio un tatuaggio, ha perso di significato, è una moda imposta, non mi dice niente, non mi racconta nessuna sostanza. Li vedo loro, questi ragazzi fighetti e alternativi, dipinti di segni che vorrebbero vendere l’eroe che non sono e non saranno mai. Ma che senso ha? Io non lo faccio. Io ho un’identità da definire, non un abito da vestire, non sono il vostro fumetto. E voi altri con tutta quella ferraglia infilzata ovunque pensate di essere migliori? Ma fatemi il piacere, non siete da meno. Avete anelli nel naso, nei lobi, buchi sulle ciglia, nelle labbra, avete ferito la lingua, sembrate cattivissimi e tostissimi e poi potreste tranquillamente andare in tv a piangere come agnellini in sacrificio per una sbarbatella che vi ha rifiutato un bacio. Cazzoni, dementi. Io non vi accetto, non sono come voi.

Non mi riconosco nemmeno i voi, tutti perfetti, truccati come fighette, curati in ogni minimo dettaglio, depilati ad arte, curati nelle unghie, profumati, vestiti come un lustrino di Versace, perfettamente in armonia, pronti a vendermi le massime di Coelho come se foste maestri zen della contemporaneità. Siete vomitevoli. Al pari di quegli smidollati assoggettati a padre e madre, perfetti modelli in miniatura di geni dello studio, l’orgoglio da sbattere in prima pagina, come il futuro della nazione passa da qui.

Non mi riconosco in Dio e non mi riconosco in Nietzsche. Siete uguali voi due, uno fa l’incazzoso orgoglioso e l’altro fa il bravo ragazzo che non riesce ad essere felice ma fa felice chiunque incontra, che trasforma in aforisma di genio pensieri idioti dicendo porcherie come “è una vita che ti aspetto” e dovrebbe vedere ogni donna desiderata cadergli ai piedi, incantata e innamorata manca fosse finita sotto le grinfie di un rito voodoo particolarmente efficace. Impiccatevi e vaffanculo.

Io voglio capire cosa voglio, devo essere e mi devo riconoscere, io sono un’identità in divenire, che deve trovare la sua forma, devo sentirmi meritevole e me la voglio soffrire, me la devo sudare e gustare la mia vita. Devo sentire il peso della scelta e voglio capire sulla mia pelle che gli sbagli si pagano e non si recuperano, ritrovarmi con le cicatrici vere, quelle della vita, non uno stupido tatuaggio a certificare ciò che non c’è mai stato.

Necessito delle rughe che saranno, dell’amaro rimpianto di non avere fatto la cosa giusta perché la prossima volta ci riproverò e devo saperlo da prima che il rischio è grosso, che posso farmi male, devono tremarmi i polsi e devo sentire la pelle d’oca nel peso significante di una sola parola, perché può essere la lama che mi taglia l’anima, devo saperlo che fare o non fare quella scelta determina la mia identità. Allora, solo allora voglio vedere questo specchio farsi nitido e darmi i dettaglio del mio corpo, restituirmi il viso e la sua pelle, l’iride di occhi che suonano una vita. Voglio vedermi e dirmi “ecco, questo sono io!”. Ma fino ad allora io amerò sempre questa felpa con ampio cappuccio, fino ad allora io mi nascondo a voi, ammasso di irresponsabili, di morti rumorosi in movimento, indosso il cappuccio e mi nascondo, come un frate peregrino, il mio volto non ve lo concedo, in attesa di riempirlo di cicatrici di vissuto, di identità certa.

Io sono un ragazzo, io sono il vostro futuro.

Leave a comment.