Foto di Salvatore Di Vilio
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Articolo di Antonio D’Agostino

Il paesaggio di cui vi parlo è quello apprezzato da Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, ma anche, in anni più recenti, da Mario Soldati, il quale restò sbalordito dalla bellezza, non solo dei luoghi e della parlata, ma anche della antica coltura della “vite maritata” che, ai suoi occhi, emanava un fascino misterioso e inquietante .

Nelle campagne nei pressi di Aversa riscontrò una sorta di “isola di resistenza”, dove sia i dialetti che le pratiche di coltivazione sembravano “reliquie” sopravvissute all’ondata accecante e omologante del “miracolo economico” che dilagava in quegli anni. La “vite maritata” è un segno, ma non l’unico, che più di tutti caratterizzava la piana campana. E’ una coltura antica di origine etrusca che costellava il territorio con le sue “pareti” di verde alte anche 15 metri e che veniva fatta abbarbicare su pioppi di secolare robustezza (“maritata” al pioppo, appunto).

Oggi camminando per quel che resta della bella campagna tra il napoletano e il casertano, la vite maritata appare solitaria, quando meno te lo aspetti, nei residui di terra avanzati dal perverso espandersi della massa urbana trasmettendo nello spettatore un segno ulteriore dei tempi che corrono: “la vite maritata” sembra dirci che abbiamo legittimato il “divorzio” della sua presenza dal territorio e che le genti che in questi luoghi vivono hanno anche loro sancito il divorzio dalla terra, dal territorio, non solo come dimensione storica sedimentata di tracce, ma anche, e soprattutto, come luogo attuale in cui le tracce che lasciamo sembrano spaventosamente provenire dagli schermi del mezzo televisivo.

Sempre Soldati nel meravigliarsi di quanta bellezza emanasse la masseria di Santo Spirito – presso cui si era recato in cerca del “vero vino Asprinio”- non si fece mancare un monito, secco e perentorio, indirizzato agli architetti del tempo (e a quelli del futuro) in cui si chiedeva del perché “i nostri architetti, sempre cosi’ a corto di fantasia, non copiano queste meraviglie?”.

Un territorio straripa di tracce e non tutte, ahimè, sono riconosciute. Quindi nella maggioranza dei casi il loro destino è inevitabilmente virato verso la cancellazione, anche un sito dall’architettura “eclatante” sembra non interessare le istituzioni. Mi riferisco al Real Sito di Carditello, gioiello settecentesco progettato dall’architetto Francesco Collecini (già apprezzato dal Vanvitelli) che sorge nel mezzo di un area agricola ancora intatta (apparentemente in quanto nei pressi del sito persistono da anni numerose discariche, e non solo di rifiuti urbani). Il sito è di proprietà del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno che, indebitato con le banche si è visto mettere all’asta un bene di inestimabile valore storico-architettonico e che, cosa di non poco conto, il caso o il destino ha voluto restasse inalterato nel suo contesto ambientale ideale: la campagna.

Il sito è stato in parte oggetto di restauri che in pochi anni hanno già manifestato lacune, crepe e le inevitabili infiltrazioni. Nelle parti di fabbrica non ristrutturate tutto cade a pezzi: travi, soffitti, mura e anche i pregevoli affreschi sembrano risentire sintomi di malessere. Molte le associazioni e i cittadini che hanno, e continuano, a denunciare una situazione paradossale ma forse i politici, hanno compreso che la maggioranza dei cittadini preferisce “divorziare” dai luoghi storici per “sposare” la vita incapsulata, luccicante e artefatta dei centri commerciali. Come Zanzotto, il poeta di “dietro il paesaggio”, “in questo progresso scorsoio non so se vengo ingoiato o se ingoio”.

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