Bande di baltgheya armati di coltelli
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Il risultato delle rivoluzioni della primavera araba non è stato solo la caduta di regimi incancrenitisi da decenni, ma anche l’aumento esponenziale di azioni di criminalità e violenza, che hanno portato alla ribalta della scena internazionale fenomeni ed espressioni gergali finora rimasti in parte limitati ai confini di ogni singolo Paese.

Fin dai primi bollori rivoluzionari, i nomi di questi gruppi hanno iniziato ad apparire sulle cronache, alcuni più famosi di altri e noti da tempo. Così ai baltagheya egiziani e agli shabiha siriani si sono aggiunti i murtaziqa libici, i balateja yemeniti, e gli hambata sudanesi, questi ultimi forse i più vicini agli antichi saalik, famosi nel periodo della jahiliya araba, ladri-poeti che consideravano il furto di cammelli a danno dei ricchi e dei malvagi come un’espressione di virilità e cavalleria, di cui vantarsi nelle loro poesie che glorificavano le loro gesta. Il termine egiziano baltagheya, invece, non ha origini arabe, bensì turche, e significa letteralmente “colui che impugna un’ascia, un’accetta (balta, appunto). Pare, infatti, che i primi ad usare i baltagheya, come un gruppo all’interno dell’esercito che utilizzava come arma proprio l’accetta, siano stati gli Ottomani, mentre secondo altri l’origine sarebbe piuttosto da ricercarsi nell’esercito mongolo. Risalirebbe sempre al periodo ottomano anche il diffondersi della parola shabiha, di origine però araba (da shabh, gancio), che indicava dei gruppi caratterizzati dal fatto di appendere per le ascelle i propri nemici a dei ganci di ferro come quelli da macellaio, per lasciarli a dissanguarsi fino alla morte.

Tali fenomeni, dunque, non sono nuovi e sembrano essere il risultato di una pianificazione portata avanti da determinati regimi, o da alcune parti che agiscono nell’ombra, allo scopo di creare delle squadre che non hanno nessuna appartenenza politica o nazionale e il cui unico scopo è quello di eliminare chiunque si opponga alla corruzione e all’ingiustizia. Durante le recenti rivolte arabe sono stati gli stessi regimi ad utilizzare queste espressioni nei confronti dei rivoltosi che si opponevano alla tirannia, così come in Egitto la parola baltagheya era stata usata durante l’epoca del re Farouk e di Sadat per giustificare il ricorso alla repressione delle manifestazioni e delle rivolte.

Le gang che hanno terrorizzato i cittadini sono state strumentalizzate da più parti e probabilmente non si è trattato di atti di puro e semplice vandalismo indotto dalla scomparsa delle forze dell’ordine dalle strade, piuttosto di un piano ben congegnato e volto, in alcuni casi, a giustificare la repressione o, come in Egitto, a rimandare la cancellazione della legge di emergenza (ancora vigente) e la data delle elezioni.

In Egitto i baltagheya e il loro stile di vita sono diventati una delle fondamenta della società, secondo qualcuno “come l’acqua e l’aria”. Le storie che circolano sul loro conto sono parte integrante del folklore popolare e spesso sono all’origine di ilarità e racconti coloriti. Come è tipico dello spirito egiziano, infatti, che sa trovare il lato comico anche nelle situazioni più tragiche, esiste addirittura una “Pagina ufficiale dei baltagheya in Egitto” su Facebook (http://www.facebook.com/baltagya) che, nonostante le immagini forti e le parole roboanti, non ha niente di serio e risulta una chiara presa in giro nei confronti di un fenomeno che nel Paese sta diventando sempre più preoccupante, come dimostrano i recenti fatti di cronaca, e sta perdendo parte del suo fascino popolare. In genere, infatti, gli egiziani riconoscono i baltagheya dal loro aspetto: hanno di solito graffi o profonde cicatrici sul viso, un modo molto singolare di vestirsi e nomi popolari particolarmente eccentrici. Il pericolo maggiore è rappresentato dal fatto che essi sono per antonomasia “macchine da guerra incapaci di ragionare”, il che li rende particolarmente adatti ad operazioni di lavaggio del cervello per convincerli che gli oppositori sono dei nemici che devono essere fermati e che le azioni che sono chiamati a compiere serviranno per preservare il paese dai pericoli di una grande sedizione incombente.

Secondo la “tradizione”, esistono diversi tipi di baltagheya. I baltagheya alkomal si considerano depositari di un talento innato, coltivato con cura e sfruttato soprattutto nel settore del commercio e dei trasporti. Riscuotono il pizzo sia dagli autisti di taxi e microbus alla fine di ogni giro, sia dai venditori ambulati che sono così autorizzati ad esporre la loro merce per strada. Ci sono poi gli aam elhag, ossia coloro che fanno il bello e il cattivo tempo nella zona in cui abitano: la loro parola governa il quartiere come fosse legge e viene fatta rispettare a suon di pistole e fucili. Gli alhangara invece sono particolarmente famosi ad Alessandria e specializzati nel furto, di qualunque genere. Ricorrono alla criminalità solo nel caso in cui chi è stato derubato cerchi di recuperare la refurtiva e si dividono in due tipi principali: quelli che, nel caso in cui vengano scoperti a rubare, possono anche farsi portare in carcere, sicuri che qualcuno li farà presto uscire; gli altri invece, quelli che fanno parte della “rete”, è meglio non ostacolarli e lasciarsi derubare senza fiatare, dal momento che una mossa sbagliata può solo servire a fare arrivare gli altri membri della “rete” a dar man forte al compagno.

I baltagheya alwasla sono invece maggiormente legati ai potenti della politica, che si servono di loro soprattutto durante la campagna elettorale, o agli ufficiali di polizia, che li utilizzano in momenti di particolare tensione per spostare l’attenzione su altri fatti (come successe, per esempio, nel periodo del naufragio della “Salam Boccaccio 98”, nel 2006, quando si dice che a uno di questi gruppi la polizia chiese di vendere hashish a prezzi bassissimi per farne aumentare il consumo, in modo che i media parlassero di altro). Infine il tipo più pericoloso è il baltagheya alkursi, ossia un personaggio istruito e che lavora per la polizia, facilmente riconoscibile per i perenni occhiali da sole e il modo di squadrare le persone dall’alto in basso, sempre pronto a dare addosso a chi non gli va a genio.

Dopo l’inizio della rivolta e la scomparsa della polizia dalle strade, le azioni violente contro i cittadini e le proprietà si sono moltiplicate e furti, rapine, incendi, rapimenti e imboscate contro i civili si sono diffusi non solo lungo le strade di circonvallazione e nelle zone più popolari, ma anche in quelle più eleganti, sia di giorno che di notte, tanto da costringere i cittadini a creare delle vere e proprie ronde notturne per presidiare i quartieri e prevenire devastazioni e furti. Così come è aumentato il numero dei venditori che già affollavano i marciapiedi di Downtown, cuore della metropoli cairota. Il motto delle bande di baltagheya sembra essere diventato: “Da oggi non c’è stato, noi siamo lo stato!”.

Il sito “elgornal.net” è riuscito ad intervistare “alPrins”, uno dei banditi più famosi del Cairo, sposato con tre donne e padre di 12 figli, che lavorano tutti con lui. Di sé stesso e del suo lavoro dice: “Il nostro lavoro è quello di aiutare i più deboli, coloro che da soli non riuscirebbero ad avere quanto loro dovuto. Noi li aiutiamo e loro ci pagano per i nostri sforzi”. Come per esempio restituire ad una donna che era stata scippata la borsa con dentro dei soldi e documenti importanti in cambio di 500 lire egiziane (circa 65 euro).
Il settore però in cui questi personaggi sono maggiormente specializzati, è quello delle elezioni, con un tariffario fissato a seconda delle prestazioni richieste. L’intera campagna elettorale costa 500 mila LE (circa 65 mila euro), pagate dal candidato che da quel momento in poi non si deve preoccupare d’altro che di ricevere in consegna la propria poltrona. Il “supporto” nella campagna elettorale, che può essere anche dato a diversi candidati nello stesso momento in regioni diverse, va dal fornire al candidato un bodyguard, all’eliminare i cartelli di un rivale dalle strade, fino a impedire lo svolgimento di un suo comizio elettorale o addirittura spaventarlo e minacciarlo, il tutto con prezzi che vanno dalle 50 alle 4000 LE (da poco più di 6 a 530 euro circa), corrisposte a giornata o a prestazione. “La polizia molto spesso era d’accordo con i baltagheya – dice alPrins – soprattutto se si trattava di aiutare un candidato del Partito Nazionale” (Ndp). Le bande andavano ad una conferenza del candidato dell’opposizione e scatenavano delle risse in modo da far arrivare la polizia che, dopo la retata, portava tutti alla centrale, rilasciando i baltagheya dopo poco tempo e tenendo gli altri per accertamenti.

Anche le donne però trovano spazio in queste organizzazioni e i fantasiosi nomi di alcune di loro hanno raggiunto una certa notorietà in varie zone del Cairo. AlPrins sostiene che una delle più famose viva in una grande casa con uno stuolo di figli e figlie, tutti sposati, anche se non si capisce chi sia sposato con chi… Ufficialmente lavorano come autisti o nella raccolta di rifiuti da riciclare, ma il loro lavoro segreto è la criminalità in ogni sua forma: furto, rapimento, fermare i passanti per strada e farsi dare quello che hanno, imporre il pizzo perfino ai proprietari delle paraboliche e delle connessioni internet, addirittura derubare i mendicanti!
L’origine del fenomeno dei baltagheya come gruppi organizzati, costituiti da un capo e dai suoi adepti, sembra potersi ricercare nella zona cairota di alMalek alSaleh nel 1965, con una filiale ad Alessandria. Le armi di queste famiglie erano la forza fisica, l’intimidazione e la violenza, usate per perseguire gli interessi personali di coloro che noleggiavano queste bande, soprattutto durante il periodo elettorale. Non erano disdegnati nemmeno i metodi pesanti, come i pestaggi o l’avvelenamento del bestiame. La situazione si aggravò durante gli anni ’70, con l’avvento delle baraccopoli e il fenomeno di coloro che, non potendo permettersi una casa, sono andati a vivere nei cimiteri, diventati regno dei baltagheya, la cui legge è l’unica a governare e dove nemmeno la polizia osa entrare. Un aiuto allo stabilizzarsi del sistema venne dai deputati del Partito Nazionale Democratico (Ndp), che si resero presto conto che il modo più veloce per poter sedere sull’agognata poltrona era di pagare i baltagheya per blindare il voto ed eliminare gli avversari. Più della metà del bilancio della campagna elettorale era dunque destinato a loro, e le spese coprivano perfino le cure per i sicari in caso di incidenti durante le operazioni e il sostentamento delle loro famiglie nel caso finissero in prigione. La polizia ha senza dubbio avuto un ruolo nella costruzione di questo sistema, in particolare chiudendo un occhio sullo svolgersi delle operazioni necessarie a raggiungere lo scopo.

Il fenomeno ha assunto caratteristiche nuove dopo la recente rivoluzione, con l’affiliazione di giovani, la maggior parte sotto i 25 anni, che lavoravano a giornata (come venditori oppure garzoni nei caffé) e si sono uniti ai baltagheya dopo aver perso il lavoro. Ciò non deve però distrarre l’attenzione dal focus principale e portare a considerare i baltagheya come delle vittime, come li presentano alcuni recenti film egiziani.

Ma quanto è esteso questo potere occulto nel Paese?
Il 6 febbraio scorso, pochi giorni prima della resa di Mubarak, un articolo uscito su “alYoum alSabee” intitolato “La criminalità del sistema o il sistema della criminalita?” lamentava il diffondersi degli atti criminali nel Paese, interrogandosi però anche sulla presenza di un sistema criminale politico-economico-amministrativo, evidentemente radicatosi da lungo tempo. Un sistema che, come dice l’articolo, si basa sulle tangenti e il favoritismo nel settore del lavoro, dove si riesce a trovare un impiego grazie alle parentele o alle conoscenze e dove i bandi di concorso sono spariti oppure si tengono concorsi fantasma di cui si conosce già il vincitore. Ma della criminalità amministrativa fa parte anche quella dei mezzi di informazione, che servono gli interessi personali di qualcuno o di un sistema in generale o vengono usati per consolidare una determinata idea o attirare l’attenzione su di essa, nascondendo la realtà e imbavagliando le voci libere. Il risultato finale è la perdita di fiducia e l’allontanarsi delle persone dai mezzi di informazione per cercare la verità da altre fonti. Una realtà questa non troppo distante da quella che viviamo anche in Italia…

In seguito alla rivoluzione del 25 gennaio, il fenomeno dei baltagheya si è in qualche modo identificato con il partito al governo, l’Ndp, dal momento che si pensa che alcuni ufficiali della sicurezza nazionale abbiano usato gruppi di baltagheya contro gli attivisti politici facendo leva sulle loro necessità economiche, visto che la maggior parte di loro provengono da zone della città considerate ai margini, e mettendoli di fronte a due scelte: o l’arresto nel caso in cui non facessero quanto richiesto, o un pagamento in denaro (molto poco) nel caso contrario.
Per questo oggi il Ministero dell’Interno viene considerato da molti la principale forza controrivoluzionaria, in particolare dopo il tentativo di repressione portato avanti contro i manifestanti di piazza Tahrir con gruppi di baltagheya a dorso di cammelli e cavalli muniti di armi bianche, la pagina più triste di una rivoluzione svoltasi per il resto in modo pacifico e con enorme spirito di solidarietà. Sin dal primo momento si è capito che si trattava di bande di teppisti al soldo del regime morente, che tentava di giocare le sue ultime carte, ed è stata la folla a reagire per prima e senza arretrare di un passo, disarcionando alcuni dei responsabili e consegnandoli alla rabbia del popolo.

Durante l’incontro a Roma in occasione della presentazione del suo ultimo libro, che racconta la rivolta egiziana in una serie di articoli, lo scrittore Ala’ alAswani ha affermato che la cosa che lo ha maggiormente colpito di quei momenti è stata la fermezza dimostrata dalla gente. Nonostante i cecchini appostati sui tetti dei palazzi circostanti, invece che tirarsi indietro la gente è restata in piazza, consapevole dei puntatori laser che si muovevano a casaccio sulla folla fermandosi all’improvviso su uno dei manifestanti come in una tragica roulette russa.
Anche per questo il Ministero dell’interno è ritenuto responsabile della mancanza di sicureza venutasi a creare nel Paese. Fra gli ultimi esempi, l’attacco ai parenti dei martiri della rivoluzione, radunatisi davanti all’accademia della polizia in occasione del processo all’ex raìs Mubarak, e quello contro i manifestanti il 9 settembre scorso, durante l’ennesimo venerdì di protesta sfociato poi nell’attacco all’ambasciata israeliana al Cairo. Un attacco portato avanti, secondo molti, fra cui lo stesso alAswani, proprio da bande di baltagheya assoldate dagli apparati statali per far fallire la rivoluzione e incolpare i manifestanti di Tahrir. Possibile, infatti, che le forze dell’ordine non siano intervenute per fermare l’abbattimento, durato ore, del muro che doveva difendere il palazzo in cui è ospitata l’ambasciata? Su You Tube circolano anche dei video, girati il 9 settembre scorso dai manifestanti, che riprendono i veicoli del Ministero che trasportano diverse persone armate di armi bianche nei pressi del museo egizio e al suo interno, poche ore prima dell’inizio della manifestazione, confusesi poi fra la folla, in abiti civili, per incolpare i manifestanti dei disordini.
In quest’ottica, anche l’attacco alla comunità copta del 9 ottobre scorso può essere considerato un atto intimidatorio teso a giustificare la necessità di un ulteriore posticipo delle elezioni e un prolungamento dello stato di emergenza e del governo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, agitando lo spauracchio della guerra interreligiosa e il pericolo di una deriva islamista nel Paese.

Insomma, la stessa strategia utilizzata dal regime ormai crollato, se è vero che, come si sussurra, molti attacchi terroristici verificatisi in Egitto negli ultimi anni, sono stati realizzati dagli stessi servizi segreti per giustificare la prosecuzione dell’applicazione della legge di emergenza.
L’arma più efficace per arginare le bande di criminali sarebbe, oltre alla ripresa del controllo delle strade da parte della polizia, l’aiuto dei cittadini, così come successo a giugno quando, in seguito all’attacco sferrato da bande di baltagheya contro il tribunale criminale in occasione della condanna di uno di loro, la folla ha reagito aiutando la polizia a fermare e catturare alcuni affiliati, in uno slancio di senso civico che sarebbe da augurarsi per poter ridare al paese la serenità necessaria ad affrontare le importanti sfide che lo attendono.

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