Terra di Tutti Film Festival
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Bologna (ITALIA)

Si è conclusa domenica scorsa alla Cineteca di Bologna la seconda edizione del Festival di documentari e cinema dal Sud del Mondo “Terra di Tutti Film Festival”, organizzato dalle Ong COSPE e GVC, che ha visto una notevole partecipazione da parte del pubblico e che ci ha fatto ragionare criticamente sulle molteplici situazioni che caratterizzano le popolazioni dei Paesi presi in considerazione, prevalentemente luoghi dove operano queste organizzazioni; un permanente reportage su talune realtà critiche oggi completamente sconosciute a causa del patinato strato di disinformazione vigente e che al contrario vengono proposte direttamente dagli attori delle attività di cooperazione allo sviluppo.

La luce del proiettore ci ha fatto viaggiare attraverso conflitti irrisolti, drammi della quotidianità, ferite difficilmente marginabili ma ha anche descritto amori umani e momenti di intensa quotidianità. Il “focus sul Mediterraneo” ha visto succedersi pellicole incentrate su Palestina, Balcani, Italia e Spagna. Ma anche l’Africa è stata protagonista attraverso racconti di vita ordinaria e tentativi coraggiosi di creare percorsi alternativi all’emigrazione di massa.

Gli occhi caparbi di Leila, una giovane ragazza palestinese che si trova a dover lottare quotidianamente contro l’oppressione e lo stress psicofisico di una vita nella “gabbia ferrata di Hebron/Al Khalil” (“Welcome to Hebron”, regia di Terje Carlsson), le attività giornalistiche di Arsenije e Castriot prima e dopo l’indipendenza kosovara, due prospettive diverse ed opposte di narrare l’avvenimento in una terra di fragile e difficile convivenza per motivi di sfortunata geopolitica (“Kosovo, anno zero”, regia di Niccolò Patriarca), le storie di “disovattata normalità” di Xhevdet e Slavica (“Nikom nista/Asgie askujt/Niente a nessuno”, regia Darko Sokovic), il tragico ricordo che assilla inesorabilmente la mente di Erika, dalla Romania schiava nei campi di pomodoro della Puglia (“L’oro rosso”, regia di Cesare Fragnelli), il Mediterraneo visto nella calma della sua unicità come luogo di incontro e di scambio (“Terra salata”, regia di Luca Nestola) e nella marea della drammatica e forzata separazione di una famiglia marocchina di Oujda vista nella sua tenerezza, punto di vista raramente messo in evidenza (“Mimoune”, regia di Gonzalo Ballester). Nella grossolana superficialità questi personaggi sono considerati anime perse che non hanno possibilità di una vita normale in quanto abitanti luoghi sfortunati e destinati ad una sorte di perenni soprusi, invece qui il semplicismo del vivere comune emerge come chiave per un possibile riscatto; ritengo pertanto che i protagonisti di cui ho parlato, insieme a tutti gli altri, rientrino più o meno in questa descrizione.

Il Festival ovviamente ha dedicato ampio spazio anche ad altre aree geografiche importanti come l’America Latina e l’Asia, ove ci sono state narrate gesta di ribellione, descrizioni dettagliate sulla vita nelle grandi metropoli strette tra grandi palazzi economici e zone poverissime, le trame dello sfruttamento e snaturamento dei territori e la minuziosa e puntuale rappresentazione di un regime esternamente avvolto nel mistero della sua propaganda.

Al termine della tre giorni di rassegna la giuria, composta da Tamas Gabeli, Enza Negroni, Andrea Morini e Cristina Piccino ha conferito altrettanti premi al già citato documentario “Mimoune” (migliore produzione straniera), ad “Onibus” del regista Augusto Contento (migliore produzione italiana) e a “Double Exposure” del regista Ruanne Abou-Rahme (menzione speciale della giuria). A “Welcome to Hebron” invece è andato il premio del pubblico “solidarietà” in memoria di Enrico Giusti. Appuntamento (imperdibile) all’anno prossimo.

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